di Bettina Stangneth
Il vizietto nazista di bruciare pubblicamente montagne di libri ha dimostrato l’attenzione dal fatto che il nazionalsocialismo nutriva un grande, se non addirittura eccessivo, rispetto per la parola scritta.
I libri venivano bruciati perché si attribuiva loro un grande potere, in altre parole, li si temeva. Questa paura di perdere l’esclusiva dell’interpretazione era una dei moventi fondamentali dei nazisti.
L’uomo del primo Novecento aveva abbastanza esperienza del libro come mezzo di comunicazione di massa, da sapere che la storia non si limita ad accadere, ma viene scritta per le generazioni a venire.
Il fatto che l’“atto creativo” fosse sempre preceduto dalla lotta e dalla distruzione delle creazioni esistenti rispecchiava la tendenza radicale e aggressiva di Adolf Hitler.
Sin dal principio la consapevolezza con la quale i nazisti rielaborarono la storia non si estrinsecò solo nelle azioni, ma in un vero e proprio progetto culturale e, in questo caso, letterario: l’attività culturale venne denigrata in quanto “ebreicizzata”, intere branche della scienza furino screditate in quanto “troppo soggette all’influenza straniera”.
Il libro, dunque, era considerato uno dei più efficaci strumenti di potere in mano al nemico, in particolare agli ebrei. Selezionare e bruciare i libri – come in seguito si fece con le persone – fu solo il primo passo.
Il secondo fu quello di prendersi cura e di coltivare la propria razza e di dare vita a una propria scienza e cultura. Quindi servivano libri propri, sia in ambito artistico che scientifico, perché si credeva che con lo specifico approccio nazista si fossero finalmente gettate le basi che consentivano di trasformare la scienza e l’arte in un scienza tedesca e in un’arte tedesca.
Questo è il motivo per cui sotto il nazionalsocialismo venne prodotto un n numero impressionante di libri – e la reinterpretazione del sapere esistente fu devastante fin dall’inizio. (Bettina Stangheth, “La verità del male, Eichmann prima di Gerusalemme”, LUISS).