di Valentina Pisanty
Tra la fine degli anni novanta e i decenni successivi, però, alcuni policy-makers intravedono con sempre maggiore chiarezza il potenziale strategico della parola antisemita.
Divenuto sinonimo del Male Assoluto, il termine si presta a una varietà di usi funzionali alla politica di chi se ne sente custode e titolare.
Tra questi, come è evidente, i partiti della destra israeliana quasi ininterrottamente al potere dal 1996. Con l’appoggio di istituzioni americane ed europee, i governi israeliani di stampo ultranazionalista si autoproclamano portavoce ufficiali delle vittime dell’Olocausto, discendenti compresi.
Non importa che, degli attuali quindici milioni di ebrei nel mondo, solo sette abbiano scelto di vivere in Israele. Essendo Israele l’unico paese a maggioranza ebraica, la supervisione della Memoria spetta alla sua leadership politica, sostengono.
Nominatisi motu proprio Guardiani della Memoria, rivendicano un monopolio su quell’area del linguaggio che si riferisce ai crimini storici subiti dagli ebrei d’Europa: genocidio, ghetto, lager, pogrom, razzismo, antisemitismo e altre parole affini. Loro soltanto possono autorizzarne l’uso.
Il copyright gli appartiene di diritto. La premessa da cui partono è che gli antisemiti sono coloro con i quali per definizione non si parla: tuttalpiù si può parlare di loro per decidere come combatterli meglio. È questo il senso dello slogan “Mai Più” attorno al quale le democrazie liberali si sono strette dopo il crollo del Muro di Berlino per ridefinire il proprio progetto identitario comune.
Ne deriva che chiunque meriti l’epiteto antisemita è da considerarsi come un corpo estraneo alla democrazia e perde il diritto di intervenire nei dibattiti pubblici. Con i razzisti non si discute. Fin qui nulla di strano, al netto dei dubbi che si possono nutrire sull’idea che il motto “Mai Più” costituisca una base sufficiente su cui costruire il futuro delle democrazie occidentali.
Il passo successivo, però, molto più temerario, è quello di includere nella categoria degli antisemiti non solo coloro che esibiscono un pregiudizio antiebraico, ma anche gli attuali nemici dello Stato di Israele.
E, tra questi, non solo quei nemici che effettivamente attingono all’archivio dell’antisemitismo storico per screditare le scelte politiche di Israele con argomenti razzisti (ce ne sono), ma anche coloro che, pur senza far ricorso ai luoghi comuni della propaganda antisemita, manifestano un’ostilità radicale nei confronti di Israele, inteso come Stato degli ebrei, o addirittura hanno uno storico contenzioso con Israele per la terra dal fiume al mare.
Il passaggio è tutt’altro che scontato, a cominciare dalla scelta di chiamare Israele lo Stato degli ebrei.
L’espressione è di per sé discriminatoria nei confronti del 25% di cittadini israeliani non ebrei, e difatti la legge che nel 2018 ha definito ufficialmente Israele “la casa nazionale del popolo ebraico” è passata al parlamento israeliano con una maggioranza molto risicata, segno che anche all’interno del paese c’erano voci dissenzienti.
Ma l’identificazione tra ebraismo e Israele è uno dei punti programmatici dei partiti ultranazionalisti al potere, i quali, nel corso degli anni duemila, hanno mobilitato grandi risorse e sforzi diplomatici per ridisegnare i confini tra significati linguistici, sfumando a proprio vantaggio le differenze tra ebraismo e sionismo, come se si trattasse della stessa cosa. (Sorvoliamo ora sul fatto che anche il termine sionismo raccoglie sensi e sfumature diverse che andrebbero specificate di volta in volta: ne riparleremo).
Il che comporta ovviamente anche una attenuazione del distinguo tra antisemitismo e antisionismo, come se il secondo termine fosse sempre e comunque un travestimento eufemistico del primo.
E visto che nessuno protesta, anche se fino a quel momento i due termini hanno coperto aree semantiche diverse, negli anni duemila si fa largo il progetto di mettere per iscritto l’equazione antisionismo = antisemitismo, reclamando che la comunità internazionale sottoscriva le condizioni d’uso di una nuova definizione della parola antisemita.
Una definizione che spinga ai margini il vecchio nucleo semantico del termine, ancora radicato nella memoria dei grandi traumi del Novecento, per sostituirlo con uno più allineato agli obiettivi delle destre israeliane.
Si definisca antisemitismo non più solo, e non tanto, l’“ostilità verso gli ebrei in quanto ebrei”, definizione di cui è più difficile rivendicare un’esclusiva, bensì l’“ostilità verso Israele in quanto Stato degli ebrei”.
Si otterrà un immediato tornaconto in termini di immagine e di legittimazione politica. L’ulteriore spallata consiste nel richiedere che la nuova definizione venga incorporata nei testi delle leggi, dei regolamenti universitari, dei codici di condotta dei partiti, e di tutti i sistemi normativi che disciplinano il dibattito pubblico su temi altamente controversi come il conflitto in Medio Oriente.
In nome dei valori supremi delle democrazie occidentali si potranno perorare meglio le ragioni di Israele. A chi si opporrà troppo drasticamente alle sue scelte politiche mancheranno le parole per dirlo.
La realizzazione del progetto è andata di pari passo con la scalata al potere delle destre mondiali negli ultimi vent’anni. La mia ipotesi è che i due fenomeni siano strettamente interrelati. Non solo nel senso che la ridefinizione della parola antisemita è compatibile con le ideologie dei partiti ultranazionalisti in ascesa, ma anche che tra quei partiti e lo Stato di Israele è in corso da tempo un macroscopico scambio di favori.
I termini dell’accordo sono semplici: supporto incondizionato alle politiche delle destre israeliane contro l’immunità da ogni accusa di razzismo e antisemitismo.
Una visita ufficiale a Yad Vashem (il Memoriale della Shoah a Gerusalemme), specie se accompagnata da espressioni di dura condanna nei confronti degli attuali nemici dello Stato ebraico, è sufficiente per ripulire l’immagine pubblica di qualsiasi leader xenofobo, e quasi sempre erede di formazioni politiche quelle sì inequivocabilmente antisemite, che ambisca ad accedere a ruoli di responsabilità politica.
Il do ut des si è rivelato molto efficace per entrambe le parti, anche perché per smascherarne la strategia occorre avventurarsi nel campo minato della Memoria dell’Olocausto, e della definizione a essa collegata di cosa sia e cosa non sia l’antisemitismo.
Data la delicatezza dell’argomento, molti preferiscono girare al largo, delegando alle istituzioni preposte il compito di tracciare il perimetro del discorso tollerabile, e applicando scrupolosamente qualsiasi precetto venga calato dall’alto. Trump, Orbán, Bolsonaro, Kaczynski, Salvini, Musk, Duterte, che nel 2016 si paragonò a Hitler ma ora si dichiara amico di Israele… L’elenco degli autocrati – o aspiranti tali – che si sono sottoposti al lavacro lustrale include alcuni tra i più famosi spacciatori di retorica antisemita del XXI secolo.
Tutti hanno attivamente costruito e diffuso il mito di Soros, versione aggiornata dei Protocolli dei Savi di Sion, il falso documento creato nei primi anni del XX secolo dalla polizia segreta zarista con l’intento di diffondere odio verso gli ebrei nell’Impero russo.
Alcuni hanno raccontato la propria storia nazionale in chiave revisionista, introducendo nuove fattispecie di reato contro chi osi ricordare – per fare un esempio – il collaborazionismo polacco durante gli anni dell’occupazione nazista.
Altri hanno optato per la tecnica infantile del tu quoque, che in Italia si realizza nella formula “E allora le foibe?”.
Eppure – a dispetto delle rimostranze di molti ricercatori di Yad Vashem, sempre più a disagio e incapaci di porre argine all’uso strumentale della memoria imposto con la massima sfrontatezza dai vertici del Likud, il partito di destra al potere dal 2009 (a parte una breve parentesi nel 2021-22) – i governi israeliani degli ultimi anni non hanno esitato a minimizzare la gravità di simili esternazioni, derubricate a scivoloni retorici.
Tanto più, dicono i filoisraeliani più accaniti, che l’antisemitismo oramai non si esprime attraverso la classica retorica dell’archivio antiebraico. È vero, sostengono, che si trovano ancora schegge dei Protocolli nei testi dei negazionisti, nelle farneticazioni di Q-Anon, un po’ ovunque su X e nelle innumerevoli fantasie cospirazioniste di cui trabocca la rete.
Ma non è di queste intemperanze che ci si deve preoccupare. (Valentina Pisanty, “Antisemita: Una parola in ostaggio”, Bompiani).