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Attualità

Roma incazzata.

di Federico Fubini

Imputati dall’Alto Commissariato per la punizione dei delitti e degli illeciti del fascismo erano stati il famigerato ex questore di Roma Pietro Caruso e il suo assistente, Roberto Occhetto.

Erano entrambi accusati – a ragione – di aver aiutato i tedeschi nei rastrellamenti, di aver collaborato con la Gestapo, con le SS, con i reparti più efferati della polizia di Salò (la Banda Koch) ma soprattutto, fra i molti, terribili reati, di aver compilato assieme ai tedeschi la lista dei 335 perseguitati e prigionieri politici che furono poi trucidati alle Fosse Ardeatine.

Il processo a Caruso e Occhetto avrebbe dovuto aprirsi il 18 settembre 1944 a Palazzo di Giustizia, in piazza Cavour, ma quel giorno fin dalle prime ore del mattino molta gente aveva iniziato ad assembrarsi davanti agli ingressi.

Reclamavano di entrare; urlavano «morte a Caruso», «dateci Caruso». Volevano vedere l’accusato alla sbarra, molti volevano semplicemente farsi giustizia da sé. Presto i più agitati forzarono lo sbarramento al portone, centinaia di persone si precipitarono verso l’aula magna al primo piano cercando l’imputato ovunque.

Data la situazione, la polizia tenne Caruso e Occhetto nascosti altrove e il giudice non poté che aggiornare il dibattimento.

In quel momento, nella calca, una donna riconobbe Donato Carretta, l’ex direttore di Regina Coeli, che era stato convocato come testimone dell’accusa. Improvvisamente la furia della folla si riversò contro di lui. Restano ancora in rete poche decine di secondi di riprese di quei momenti.

Carretta viene preso per i capelli, strattonato con violenza, poi pestato in volto finché alcuni poliziotti non riescono miracolosamente a portarlo al riparo in una stanza attigua all’aula magna.

Carretta era stato iscritto al Partito fascista fino all’anno prima e doveva per forza essere stato un funzionario di fiducia del regime, altrimenti non sarebbe mai diventato direttore del più grande carcere di Roma. Ma non si era macchiato di abusi e, in segreto, aveva aiutato vari oppositori a fuggire e a salvarsi la vita. Ne aveva persino ospitati in casa propria. La folla, nella sua sete di vendetta, stava tragicamente sbagliando bersaglio.

L’errore di Carretta quel giorno fu di uscire dal Palazzo di Giustizia troppo presto, dopo i disordini: venne di nuovo riconosciuto in piazza Cavour e pestato brutalmente, trascinato ovunque, i vestiti ormai strappati di dosso. I carabinieri cercarono di nuovo di sottrarlo al linciaggio, portandolo via su una jeep degli americani. Ma l’auto fu bloccata da una folla ormai in uno stato febbrile; Carretta venne di nuovo ghermito, portato via e massacrato per strada.

Si cercò di buttarlo sotto un tram ma – quando il conduttore tirò il freno e si rifiutò di passargli sopra – fu trascinato fino al ponte Umberto e gettato giù nel Tevere, ormai privo di sensi.

Il malcapitato riemerse, riprendendosi al contatto con l’acqua fresca. Cercò di aggrapparsi a un palo per non farsi trascinare dalla corrente, ma di nuovo venne respinto con la forza in mezzo al fiume, raggiunto da una barca e finito da due uomini a colpi di remi lì, in acqua.

Il suo cadavere, nudo, sgocciolante di sangue, venne appeso per i piedi alle inferriate di Regina Coeli; quel giorno sua moglie sfuggì al massacro solo per un soffio. I romani avevano sofferto l’oppressione, i bombardamenti, le privazioni e la spietata occupazione nazista. Avevano visto amici e parenti uccisi o portati via. Molti di loro avevano invocato il duce sotto il balcone di piazza Venezia, pochi anni prima.

Ma ora volevano una resa dei conti esemplare. (Federico Fubini, “L’oro e la patria”, Mondadori.)

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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