di Francesco Piccioni, contropiano.org.
I tanti segnali di crisi non hanno fin qui spaventato decisori politici e aziende europee al punto da definire con chiarezza l’entità dei problemi, le loro cause e quindi – tanto meno – le possibili soluzioni.
Ma unendo i punti delle diverse crisi viene fuori un’immagine con poche speranze di allegria.
Consigliamo la lettura dell’analisi fatta in questi giorni da Matthew Karnitschnig – giornalista austro-americano, su Politico – proprio perché riassume bene l’interconnessione tra le diverse crisi europee.
Naturalmente non condividiamo affatto la sua visione d’insieme, classicamente neoliberista, né quindi le “soluzioni” che lascia trapelare (“gli europei lavorano troppo poco“, ad esempio), ma questa analisi resta importante per capire cosa sta finendo di distruggere il Vecchio Continente e quanto sia praticamente impossibile che questo declino si inverta prima di arrivare alla logica conclusione.
Sotto accusa, senza neanche nominarlo esplicitamente, è il modello di sviluppo adottato dalla Germania e poi imposto a tutta l’Unione Europea: il mercantilismo, ossia l’adozione del modello di crescita fondato sulle esportazioni.
I nostri lettori più attenti conoscono bene le nostre critiche sociali ed economiche in merito – salari fermi o in regresso, ridisegno delle filiere produttive continentali ad esclusivo vantaggio di quelle tedesche, politiche di austerità che hanno bloccato l’intervento pubblico nella produzione (mentre le aziende preferivano massimizzare con poco sforzo di innovazione tecnologica i vantaggi del modello export oriented), svalutazione dei percorsi formativi di qualsiasi livello e delle università (i “diplomifici” online sono solo l’ultima vergogna di questo processo) e quindi anche un rallentamento drastico della ricerca scientifica (peraltro sistematicamente de-finanziata anche nel settore pubblico).
Il tutto è riassumibile nell’assenza totale di qualsiasi orientamento pubblico (statale o comunitario) che andasse al di là dell’occhiuta sorveglianza di “regole di bilancio” così perfette – sulla carta – da esser sempre state violate da quasi tutti i paesi membri. Ora che tocca anche alla Germania, come si dice, il re è nudo.
Come sintetizza Karnitschnig, tutto questo “ha funzionato… finché non ha funzionato più”. “Il pilota automatico”. alla fine, ci ha portato contro gli scogli…
Molto interessante, ancorché detta di sfuggita, la valutazione di quanto questo modello economico, nel riuscito tentativo di prolungare la propria esistenza senza grandi cambiamenti, abbia contribuito a conquistare l’Est europeo veicolando anche l’allargamento della Nato. Fino ad incontrare la barriera russa…
Nelle analisi sull’espansione della Nato, fatte a sinistra, ci si concentra in effetti fin troppo spesso sul bisogno degli Stati Uniti di rafforzare la propria egemonia portando sempre più ad est le proprie basi militari. Karnitschnig – certo involontariamente – rimette invece al centro quelle ragioni “strutturali” che ogni allievo di Marx dovrebbe ricordare a memoria.
La “conquista dell’Est” è avvenuta secondo il format messo a punto nella riunificazione tedesca (l’Anschluss, secondo la brillante definizione di Vladimiro Giacché), e il suo successo era fondato su pochi ma decisivi pilastri: basso costo dell’energia grazie al gas russo, bassi salari per popolazioni di lavoratori comunque istruite e immediatamente inseribili nel ciclo produttivo, immagine vincente dell’Occidente sul resto del mondo (rafforzato da guerre asimmetriche contro avversari troppo più deboli), superiorità tecnologica (ma solo nei settori maturi, come l’automotive).
Il legame tra successo ed espansione è quindi solare: solo allargando ulteriormente lo spazio da annettere all’Europa capitalistica (e dunque anche alla Nato) quel modello poteva prolungare la propria vita senza troppi scossoni.
Si comprende meglio, a questo punto, cosa volesse dire Mario Draghi a un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, quando affermava quasi ogni giorno “La brutale invasione russa dell’Ucraina non era un atto di follia imprevedibile, ma un passo premeditato di Vladimir Putin e un colpo intenzionale per l’Ue. I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica, ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i loro alleati se non garantire che l’Ucraina vinca questa guerra, o per l’Ue sarà la fine”.
Sfrondata dalla retorica sui presunti “valori” (si è visto quanto fossero concreti quando Israele, con il supporto di tutto l’Occidente, ha cominciato la sua opera di genocidio in Palestina e di aggressione a tutto il Medio Oriente), Draghi faceva coincidere il successo della UE con la possibilità di proseguire l’espansione ad Est, annettendo anche l’Ucraina… e poi si sarebbe visto.
Si comprende dunque meglio, anche, la “strana” condiscendenza europea verso l’aggressività statunitense persino quando questa demoliva asset e relazioni fondamentali per quel “modello europeo” (ad esempio il silenzio e il depistaggio di fronte alla distruzione del gasdotto North Stream, i cui autori sono stati individuati dalla magistratura tedesca nei servizi segreti ucraini, supportati da Usa, Norvegia e Gran Bretagna).
In altri termini la competizione latente tra Usa ed “Europa” poteva svilupparsi solo se la seconda poteva continuare a crescere… ma sempre sotto l’ombrello militare statunitense. Fermata l’espansione, finita anche la competizione, resta solo la subordinazione.
Ciò contribuisce in parte anche a spiegare perché, all’interno dell’Unione Europea, la sofferenza popolare venga capitalizzata per ora soprattutto dall’estrema destra sotto gli slogan di un nazionalismo d’altri tempi e perché questa crescita venga catalogata come “filo-putiniana” anche quando si divide in modo decisamente netto tra “atlantisti-europeisti” (Meloni, l’olandese Wilders, i polacchi di quasi tutti i partiti, ecc) e ben poco attendibili”pacifisti” (Orbàn, Afd tedesca, il rumeno Georgescu, ecc).
Orbàn, da questa angolazione, ha fatto davvero scuola mentre i “democratici” guerrafondai lo criticavano soltanto per il controllo sulla magistratura o le idiozie contro la “cultura gender”.
Se il sedicente “progressismo liberale” ha condotto sull’orlo del baratro e della guerra, e continua a spingere sul trinomio “austerità, guerra e svuotamento della democrazia”, non c’è da troppo da stupirsi che gli ultradestri peggiori conquistino un ruolo importante.
Anche perché i difetti strutturali del modello export oriented sono usciti alla luce del sole: fine della superiorità tecnologica nel principale dei settori maturi (l’automotive cinese è di anni più avanti, ormai), crescita esponenziale del costo dell’energia, restrizione fatale del mercato interno (i bassi salari vanno bene per esportare, ma quando l’export si ferma nessuno lo può sostituire), inesistenza nei settori-guida del presente e del futuro (informatica, piattaforme, intelligenza artificiale, ecc).
Il tutto sotto la spada di Damocle di una popolazione che invecchia, una conclamata crisi demografica (in Italia nascevano oltre un milione di neonati nel 1964, solo 380mila nel 2023), del declino cognitivo di gran parte della popolazione (il 33% non comprende quello che legge), della “fuga dei cervelli”…
Nonché dell’impossibilità di compensare con un’immigrazione che non mette a disposizione competenze già formate altrove (com’era avvenuto con l’Est post-sovietico), non viene accolta con politiche di formazione-integrazione e dunque si trasforma in un ulteriore “problema di ordine pubblico” che ha favorito il risorse del razzismo fascista (specializzato nel risolvere a chiacchiere i “problemi di cronaca”, ma senza soluzioni per quelli “di sistema”).
Su questo continente alle corde si abbatterà ora anche il “ciclone Trump”, ovvero il bisogno degli Stati Uniti di “confermare il proprio standard di vita” sottraendo risorse ad altri. Lo stop nell’espansione ad Est vale però anche per Washington, che reagisce imponendo dazi o minacciandone di nuovi, pretende un aumento delle spese militari (a tutto vantaggio delle proprie industrie) e acquisti più massicci di petrolio e gas (a prezzi quadrupli rispetto a quelli russi). Insomma, declassando l’Europa da predatore secondario a preda.
Non stupisce perciò l’altra sintesi proposta da Karnitschnig: “bloccati nel XIX secolo”, quindi destinati a soccombere.
Sappiamo bene come l’establishment europeo presuma di uscire da questa tenaglia: trasformando ogni cittadino del continente in un “soldato” della produzione e/o dell’esercito (con parecchi problemi derivanti proprio dalla crisi demografica, che non mette a disposizione “forze fresche” da gettare nelle trincee né nelle fabbriche che chiudono), salutando definitivamente ogni pretesa di “democrazia” e concentrando tutti i poteri verso l’esecutivo.
Che però a livello europeo non c’è, visto che la “Commissione von der Leyen” non può essere considerata tale neanche con uno sforzo di fantasia hollywoodiana…
Crisi nera, dunque. Ma è nell’esplodere delle crisi, nei “collassi di sistema”, che si crea lo spazio sociale e politico per rovesciare i rapporti di forza tra le classi e iniziare perciò a cambiare davvero il mondo.