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Netanyahu, il Likud e i suoi alleati: ecco le premesse politiche dei catastrofici avvenimenti degli ultimi mesi. 

Come è stato possibile che lo Stato di Israele si sia trasformato in paese fascista, guerrafondaio, genocida? Perché gli USA e l’UE hanno fatto finta di non vedere l’involuzione antidemocratica della leadership di Netanyahu? In queste pagine una spiegazione plausibile.

Lo studioso israeliano Dani Filc ha messo in evidenza le somiglianze fra il primo ministro israeliano di destra Benjamin Netanyahu da una parte e Bucaram, Menem e Fujimori dall’altra.

Sebbene in genere il nome di Netanyahu non compaia negli studi sul populismo, Filc sostiene con decisione che egli rappresenta un peculiare esempio di populismo neoliberale.

A mio avviso, leader come Netanyahu sono compagni di strada del populismo, come nel periodo fra le due guerre i regimi e i movimenti di destra furono compagni di strada dei fascisti.

Sono vicini, e condividono perfino significativi elementi antistituzionali e l’idea che la politica sia una guerra all’ultimo sangue contro molteplici nemici, ma non danno molta importanza al culto del leader e alla logica della contrapposizione fra élite e popolo.

Netanyahu non ispira un forte culto della personalità, al confronto di Menem e Berlusconi, ma è ricorso spesso a strategie populiste e a un vocabolario ben calibrato. […]

Dani Filc ritiene che ‘Bibi’ Netanyahu sia un esempio assai appropriato del rapporto del populismo con la guerra e con le politiche a base etnica: il primo ministro israeliano gli appare come l’emblema del populismo etnico incentrato su politiche di esclusione.

La concezione di cittadinanza discriminatoria adottata da Netanyahu conserva in parte, ma in forma attenuata, l’orientamento relativamente inclusivo che fu proprio del partito della destra, il Likud, negli anni sessanta e settanta.

Se infatti il suo fondatore, Menahem Begin, aveva affiancato all’inclusione dei cittadini ebrei di origini non europee l’esclusione dei cittadini arabi, per altro verso aveva ribadito che la minoranza araba era titolare di tutti i diritti civili.

Netanyahu, invece, accusa regolarmente gli arabi israeliani di costituire una minaccia alla sicurezza nazionale, senza con ciò annullare i loro diritti politici. 

In una fase precedente della sua carriera, negli anni Novanta, lo stesso Netanyahu si era presentato come figura estranea alle élites del partito, identificandosi per certi aspetti con i settori più poveri della società israeliana.

In questo contesto, lo studioso israeliano Uri Ram sostiene che il leader del Likud riuscì a miscelare l’anti-elitarismo populista col ‘tradizionalismo populista ebraico’ e con la continua inclusione delle minoranze, dei coloni e dei nazionalisti religiosi e laici ebrei. Questa coalizione proponeva una nuova concezione del popolo di Israele, allo stesso tempo inclusiva e basata sull’esclusione.

È emblematico che nel 1999 Netanyahu individuasse i suoi oppositori nelle ‘élites’ mosse da odio contro il popolo. Il soggetto collettivo sottointeso nel suo uso del ‘noi’ era concepito come una vittima.

Le élites erano contro il popolo: ‘Lo odiano. Odiano il sefardismo e i russi. Odiano chiunque non sia come loro: etiopi, sefarditi, marocchini, e religiosi. Li odiano’. Per lui le élites erano antagoniste del popolo, rappresentavano una ‘sinistra’ che aveva dimenticato cosa significava essere ebreo.

In questa sua idea di nemico, Netanyahu non includeva le élites degli affari. Ai suoi occhi, spesso élites politiche e sinistra erano difficilmente distinguibili. 

Come ha rilevato Filc, ‘sinistra’ era un termine particolarmente generico, che poteva applicarsi contemporaneamente agli ashkenaziti che discriminavano i mizrahim, agli impiegati statali e ai sindacati, ai regimi comunisti europei, agli ebrei liberali, agli accademici, ai media, ai lavoratori stranieri e agli arabi.

Per questo studioso, “il leader del Likud sostiene la concezione populista dell’opposizione fra popolo puro ed élites corrotte. ‘Noi’ sta per il vero popolo ebraico”.

In modo analogo, Zeev Sternhell sostiene che l’odierno Likud identifica le sue politiche con i “diritti storici”, considerati superiori ai diritti umani.

Sternhell è uno dei principali esperti di fascismo -storico, sopravvissuto all’olocausto, sionista, ex ufficiale e veterano dell’esercito israeliano, è rimasto lui stesso vittima di una bomba piazzata nel 2008 da un estremista di destra israeliano. 

Per Sternhell le posizioni del Likud confermano ampiamente le concezioni illiberali del significato del mandato elettorale: “di fatto quello che dicono è ‘siamo la maggioranza, possiamo fare tutto quello che vogliamo”. Dare alla maggioranza carta bianca ha portato a chiedere l’esclusione delle minoranze.

Nelle elezioni del 2015 Netanyahu ammonì gli israeliani affermando che gli arabi votavano in gran numero, come se l’esercizio di un legittimo diritto da parte di quei cittadini minacciasse la sua concezione della democrazia. Quello che in realtà voleva dire è che i palestinesi con cittadinanza israeliana (il 20% del corpo elettorale dell’epoca) non facevano parte della maggioranza etnica che lui stesso, in veste di leader populista, sosteneva.

Ai suoi occhi, gli arabi israeliani sono chiaramente una sorta di anti popolo, non rientrano nella sua concezione unitaria che accomuna leadership, nazione e etnia. Avidgor Lieberman, leader populista israeliano e alleato di estrema destra di Netanyahu, disse che il leader “sa anche che se gli arabi votano in massa, solo un forte Lieberman li può fermare”. E aggiunse che gli arabi israeliani “sleali” avrebbero dovuto essere decapitati.

Per la leader dell’opposizione israeliana Tzipi Livni, come riferì lo “Jerusalem Post”, “il premier aveva tentato di fare della Sinistra israeliana il nemico di Stato, e tale posizione era “imperdonabile”. Livni ha affermato che la manovra aveva portato Netanyahu alla vittoria, ammonendo però che quella mossa avrebbe provocato odio e paura. 

Quando nel 2016 Netanyahu nominò Lieberman ministro della Difesa, Ehud Barak, già primo ministro israeliano, mise in guardia dal pericolo fascista, affermando che il paese era stato “infettato dai germi del fascismo”. È interessante notare che questa considerazione di Barak sembrava riecheggiare l’analisi di Sternhell, il quale rilevò che “la democrazia israeliana [era stata] sempre più erosa”, e avvertì che si scorgevano i segni del fascismo.

Ai suoi concittadini Sternhell ricordava che “la democrazia richiede l’accettazione delle decisioni della maggioranza, ma non autorizza a riconoscere la giustezza o la legittimità morale della maggioranza”.

Seguendo questa indicazione, che inquadra una dimensione fondamentale del populismo, direi che ragionare in termini di populismo di destra piuttosto che di fascismo permette di comprendere meglio il partito di Lieberman e le straordinarie somiglianze che lui e altri politici di destra mostrano con la destra xenofoba europea.

Come avviene anche altrove, in Israele il populismo si affida a una miscela di procedure democratiche e concezioni del popolo antidemocratiche e discriminatorie nei confronti del diverso.

Come ha scritto Filc, “la paura viene alimentata lungo il confine che separa ‘noi’ (il vero popolo) da ‘loro’ (il nemico straniero, i palestinesi e i loro alleati interni, che possono cambiare nel corso del tempo)”. (“Dai fascismi ai populismi”, Federico Finchelstein, Donzelli Editori).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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