di Giorgio Cremaschi, contropiano.org
Nel 1919 Lenin, come presidente del Consiglio dei Commissari del popolo della Russia rivoluzionaria, inviò una calorosa lettera all’emiro dell’Afghanistan, nella quale, oltre ad offrire il reciproco riconoscimento tra stati, forniva tutto il possibile sostegno alla lotta del’emiro contro le mire coloniali della Gran Bretagna. Pare che poi, in una riunione dell’Internazionale Comunista, Lenin abbia commentato “contro l’imperialismo fa più l’emiro dell’Afghanistan che tutta la socialdemocrazia”.
Mi è tornato in mente questo suo celebre e attualissimo giudizio leggendo il bel libro di Massimo Gabella “La rivoluzione come problema pedagogico. Politica e educazione nel marxismo di Antonio Labriola” (Edizioni Il Mulino), nel quale con accurata ricerca si documentano i tratti fondamentali del pensiero di Antonio Labriola, filosofo marxista italiano e militante socialista fino alla sua morte del 1904.
Alla fine dell’Ottocento Labriola è stato uno dei fondatori del pensiero marxista nel nostro paese, affermandolo come una scienza e una filosofia particolari, perché da un lato analizzavano e definivano le leggi della società con metodo scientifico, dall’altro però erano anche il punto di vista e l’elaborazione della prassi del soggetto antagonista nella società capitalista, il proletariato.
Quindi Labriola rompeva con il tentativo di normalizzare il marxismo come pensiero economico e politico nell’alveo più generale del positivismo e del liberalismo borghese, che dominavano la fine dell’Ottocento. Contro i liberali egli affermava la concezione materialistica della società capitalista come filosofia della prassi, cioè come teoria dell’educazione, dell’organizzazione e della lotta del movimento operaio per rovesciare il potere capitalista e costruire il comunismo.
Questa indipendenza del pensiero marxista, questo suo essere al tempo stesso scienza e rivoluzione, erano rivendicate da Labriola non solo sul piano della teoria, ma su quello dell’azione politica concreta, con il suo impegno per la costruzione del partito e dell’organizzazione socialista come forza indipendente da tutti gli altri schieramenti politici.
Per queste ragioni Antonio Labriola è stato considerato da Gramsci e Togliatti come uno dei rifermenti nella costruzione del partito comunista, ed anche a livello internazionale il suo pensiero ebbe un momento di particolare fortuna tra filosofi marxisti rivoluzionari come Karl Korsch.
Il concetto marxiano del capitalismo come formazione economica sociale storicamente determinata – oggi diremmo sistema – con una sua complessa totalità da rovesciare con una totalità superiore, il comunismo; questo concetto che era al centro del pensiero di Labriola, è diventato centrale ogni qualvolta nel capitalismo si sono sviluppate rotture radicali, dalla Rivoluzione Russa alla contestazione generale del 1968. Per questo il materialismo storico di Labriola riemerge ad ogni crisi del capitalismo e ad ogni rottura rivoluzionaria.
Ma il libro di Massimo Gabella ci fornisce anche una preziosa documentazione di un’altra dimensione del pensiero di Labriola, molto meno conosciuta: la sua sostanziale adesione al colonialismo.
Con la coscienza di oggi, con la lotta di gran parte del mondo contro il dominio dell’imperialismo bianco occidentale, con il genocidio in corso in Palestina per opera della “sola democrazia nel Medio Oriente” le parole di Labriola colpiscono e suscitano profonda repulsione.
Il filosofo e militante socialista sposa in pieno la tesi imperialista sulla missione civilizzatrice del colonialismo. Lo fa convinto che l’estensione a tutto il mondo del dominio borghese capitalista, sia la condizione perché l’antagonista di questo dominio, il proletariato, avvìi la marcia verso il comunismo.
Interpretando nella maniera più statica il Manifesto del Partito Comunista del 1848 di Marx Engels, là dove essi descrivono la funzione progressista della borghesia rispetto al sistema feudale, cinquant’anni dopo Labriola vede la continuazione e l’estensione di questa funzione con il colonialismo. Una gara conquistatrice tra tutte le potenze europee alla quale l’Italia deve partecipare, perché è legittimo che le nazioni più civili assumano il potere “là dove non ci sono nazionalità vitali”. E se queste nazionalità ritrovano la vitalità necessaria per ribellarsi, allora bisogna intervenire…
Labriola si pronuncia a favore dell’invasione della Cina da parte delle potenze occidentali per reprimere la rivolta nazionalista dei boxer e polemizza duramente coi socialisti contrari alla partecipazione italiana a quell’aggressione. Per il filosofo l’Italia non può chiamarsi fuori dalla storia e chi si oppone è affetto da “anticolonite cronica, che in alcuni casi diventa cretinismo organico”.
Con questa brutalità che anticipa il linguaggio dei nazionalisti che porteranno il paese all’impresa di Libia e alla Prima Guerra Mondiale, Labriola rivendica il “dovere” dell’Italia di partecipare alla spartizione coloniale del mondo, pena il restare indietro rispetto al progresso.
Qui è inutile girarci intorno, e tutta la documentazione contenuta nel libro di Gabella lo sottolinea: Labriola compie una operazione culturale e politica che va nella direzione opposta a quella di Lenin,e anche di Rosa Luxemburg, che proprio in quegli anni iniziano per vie diverse studiare, definire e combattere l’imperialismo colonialista.
Il cattivo storicismo politico di Labriola contraddice quello filosofico. Egli infatti rifiuta di applicare al mondo intero quella categoria di totalità del sistema capitalista che pure è centrale nella sua concezione materialista della storia. Egli in fondo è semplicemente eurocentrico.
Il mondo del 1900 non è più quello del 1789, non c’è più alcuna funzione rivoluzionaria della borghesia, che anzi ha esteso il suo dominio nel mondo alleandosi con le peggiori classi feudali. Ma, soprattutto agli albori del ventesimo secolo, quello che oggi chiamiamo l’Occidente ha imposto il suo dominio razzista e sfruttatore sui popoli del mondo. Se c’è un progresso in tutto ciò, è solo nella ribellione dei popoli al potere coloniale.
Oggi la missione civilizzatrice – “il fardello dell’uomo bianco“. secondo le parole di Kipling – ci fa orrore, anche se non a caso viene ribadita dal risorgere del fascismo e del suprematismo guerrafondaio occidentale. Alla fine del diciannovesimo secolo era più difficile distinguere il progresso reale della civiltà dall’affermazione del potere coloniale europeo. Eppure c’era chi lo faceva, Labriola no.
Egli morì nel 1904, e quindi non sappiamo se avrebbe seguito il filo delle sue ultime scelte politiche, nel qual caso difficilmente avrebbe potuto evitare di confluire nel fascismo.
O se invece avrebbe compiuto un’altra rottura come quella che aveva precedentemente compiuto con il pensiero illiberale aderendo al marxismo. In questo caso avrebbe dovuto fare i conti con la corruzione della filosofia rivoluzionaria della pressi in un evoluzionismo positivista nel quale, per dirla con con la critica di Togliatti, “si sperava che lo sviluppo del capitalismo assumesse il compito del socialismo“.
Non sappiamo cosa avrebbe fatto Antonio Labriola se fosse arrivato al 1914, quando l’Internazionale socialista crollò di fronte alla scelta dei suoi principali partiti di aderire all’imperialismo del proprio paese contro quello altrui. Ma le contraddizioni del suo pensiero sono da studiare e capire ancora oggi, con il mostro della “superiore civiltà occidentale” che ha di nuovo ghermito la parte maggioritaria della “sinistra”.