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Verso l’egemonia reazionaria, antidemocratica, tecno-feudale.

di Mario Ricciardi, Il manifesto.

Si è molto discusso dell’incontro tra Donald Trump ed Elon Musk. L’attenzione dei commenti si è concentrata prevalentemente sui passaggi più grotteschi e politicamente inquietanti della conversazione. Chi si attendeva il peggio non è stato deluso.

Per quanto abbiano certe cose in comune, Trump e Musk hanno un rapporto diverso con la politica e bisogna dunque chiedersi quali erano gli scopi dell’uno e dell’altro nell’organizzare l’evento e se questi scopi siano nel lungo termine convergenti.

Cominciamo dal punto di vista di Trump. La sua ricchezza non viene da un settore di frontiera dell’economia. Suo padre ha fatto i soldi nel business immobiliare, e l’innovazione del figlio è consistita nell’intuizione che il mondo della comunicazione – che, per la sua generazione, voleva dire la tv – era diventato così importante da essere un potenziale volano per ulteriori investimenti. In questo senso, Trump appartiene a un genere di politica che in Italia conosciamo bene, perché Silvio Berlusconi ne è stato un pioniere.

Di fatto, la maggior parte delle imprese in cui Donald Trump si è lanciato non ha avuto successo, ma l’intuizione di fondo si è rivelata felice. 

Diventando un “personaggio” il tycoon è riuscito a rimanere a galla nonostante i suoi insuccessi come imprenditore, giocando sul glamour del suo stile di vita, e sulla capacità di proporsi come l’incarnazione di un mito dell’immaginario statunitense, quello del «genio degli affari» che riesce sempre a trarre profitto da ogni cosa (non a caso, The art of the deal è il titolo del libro che ha contribuito a renderlo famoso). La sua relazione con la politica è stata quindi strumentale. 

Democratico ai tempi di Clinton, Trump si è spostato a destra quando si è reso conto che le cose stavano cambiando, e che nel partito Repubblicano si era creato uno spazio per mettere a frutto le proprie doti di comunicatore.

Anche se la sua candidatura alla presidenza ha mobilitato i settori più radicali della destra, quelli che si richiamano allo slogan nazionalista Maga (Make America great again) Trump è stato per questi ambienti un partner inaffidabile, guidato dal proprio tornaconto più che dall’agenda ideologica.

Ancora oggi, è difficile dire quale sia l’idea del futuro che ha il tycoon. La sua campagna è simile a quella fatta quando si è candidato per la prima volta alla presidenza: cerca di vendere il proprio prodotto, convinto che per una parte consistente dell’elettorato sia ancora attraente.

DIVERSA è, sotto questo profilo, la figura di Elon Musk.

Un imprenditore che si è imposto in un settore emergente, quello delle nuove tecnologie e della rete, che negli ultimi anni ha visto emergere diversi personaggi accomunati da una visione catastrofista della società statunitense, e del sistema politica democratico (un fenomeno documentato dallo storico Quinn Slobodian nel suo secondo libro sulla storia del neoliberalismo).

Gli interventi pubblici di Musk, da quando è proprietario di Twitter, ora X, hanno ripreso buona parte dei talking points della destra radicale – la crisi demografica, i temi identitari, l’ostilità nei confronti della cultura woke – e ne hanno fatto uno dei punti di riferimento dei settori più estremi dell’individualismo radicale e del superomismo narcisista che sono gli elementi centrali dell’ideologia di diversi imprenditori della Silicon Valley.

Sotto questo profilo, Musk ha molto più in comune con Peter Thiel che con Trump. Questa nuova generazione di «imprenditori politici» ha ambizioni più grandi del «tirare a campare» trumpiano, e sono dunque molto più pericolosi per il futuro delle istituzioni democratiche.

L’autoritarismo è certamente un filo conduttore che collega queste figure a precursori come Berlusconi e Trump, ma nel caso di Thiel e Musk c’è anche un’ideologia che porta alle estreme conseguenze temi che si sono lentamente fatti strada nella cultura della destra Usa.

UNA CONFERMA della serietà di questa minaccia si trova nella lunga intervista a Thiel pubblicata nel novembre del 2023 da The Atlantic. 

Nonostante insistesse sul fatto che non aveva intenzione di sostenere una nuova campagna di Trump, il cofondatore di PayPal e Palantir Technologies (che è stato in passato un finanziatore delle campagne di J.D. Vance) non si tirava indietro nel descrivere una visione del futuro secondo la quale solo cambiamenti radicali e profondi, ispirati da un gruppo ristretto di «illuminati» dotati di straordinarie capacità, possono salvare una società che è stata indebolita da decenni di egemonia degli ideali democratici e egualitari che negli Stati uniti sono stati esemplificati dal New Deal, e che in qualche modo sono rimasti un punto di riferimento per i settori più progressisti del partito Democratico e della sinistra statunitense.

La democrazia rappresentativa è, per Thiel (e per Musk, che in questo momento si sta prestando a fare da battistrada) un sistema obsoleto, da sostituire con un nuovo ordine in cui i «migliori» siano messi in condizione di emergere e di plasmare la società a propria immagine e somiglianza.

C’è chi parla a questo proposito di «tecnofeudalismo», ma questa espressione non cattura appieno il potenziale distruttivo di una nuova, e molto più insidiosa, forma di suprematismo con chiare analogie con il fascismo e il nazismo.

Se Trump vede in Musk soltanto una «celebrità» che può tornargli utile per vincere le elezioni, il suo interlocutore ha probabilmente un’agenda più ambiziosa.

Una vittoria repubblicana a Novembre potrebbe aprire la strada a un vero e proprio cambiamento di regime dalle conseguenze spaventose per la democrazia non solo negli Stati uniti.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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