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Che cos’è il teatro.

“In punta di piedi”, di Eugenio Barba, tratto da “Teatro. Solitudine, mestiere e rivolta”.

“Il teatro è insopportabile se si riduce solo allo spettacolo.

Non basta il mestiere, la precisione, il piacere dell’invenzione.

Non basta neppure la solidarietà, il senso del dovere, i compagni.

Non basta la consapevolezza del piacere o della conoscenza che suscitiamo negli spettatori.

Tutto questo è teatro, la nostra residenza privilegiata, il muro che ci protegge e ci rinserra.

Quando ci alziamo in punta di piedi, di fronte al nostro muro, che cosa vogliamo raggiungere?

Quel che sta più in alto o quel che sta aldilà?

Non c’è differenza fra una trascendenza orizzontale e una trascendenza verticale.

Il teatro può essere un luogo dove val la pena di vivere a lungo perché permette di restare in punta di piedi.

È la tensione per affacciarci oltre i limiti: il limite fra il presente della rappresentazione e il passato della storia rappresentata, fra l’intenzione e l’azione, fra l’attore e lo spettatore, fra noi e la nostra Ombra.

La parola trascendenza, che fa pensare al cielo e all’inferno, a me fa pensare soprattutto ad Ayacucho, la città fra le Ande peruviane che per molti anni ha vissuto nella morsa d’una guerra civile spietata.

I contendenti, l’esercito dello Stato e i guerriglieri di Sendero Luminoso, eguali nella ferocia, volevano abolire la normalità della vita civile. Il loro terrore mirava a paralizzare città e villaggi.

Al posto dell’alternarsi del lavoro e del riposo volevano il coprifuoco, la pavidità, l’accettazione solerte.

Lì ad Ayacucho ho conosciuto Yawar Sonko, il gruppo di teatro che non riuscirò mai a dimenticare.

Solo tre attori.

Erano una ventina quando avevano cominciato, un paio d’anni prima che li incontrassi.

Poi alcuni erano andati con la guerrilla.

Altri erano stati uccisi. Altri imprigionati. Altri ancora erano desaparecidos.

I tre rimasti si accanivano a far teatro.

Il loro spettacolo era rozzo, semplicistico nell’indicare il bene da una parte e il male dall’altra, gli imperialisti yankee e gli sfruttati delle Ande.

Ma il loro coraggio generoso e quasi suicida per salvaguardare, tramite il teatro, le relazioni che appartengono alla normalità della vita civile è rimasto per me l’esempio più estremo di un teatro che si trascende.

Quando chiesi loro perché rischiassero tanto per riunire quattro gatti, mi guardarono meravigliati: «Perché anche qui deve poter esistere un teatro normale».

A distanza di qualche anno, le parole di quell’umile gruppo riecheggiano nel racconto della scrittrice Susan Sontag che si è recata per alcuni mesi nella Sarajevo assediata e bombardata per lavorare su Aspettando Godot: «Qui – dice – mettere in scena uno spettacolo, lungi dall’essere una frivolezza, è una seria espressione di normalità».”

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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