Noam sa come i connazionali considerano quelli tipo lui. Ha già ricevuto decine di email anonime: «vigliacco», «traditore», «amico dei terroristi». Non se ne cura. Domenica 4 gennaio, il giorno dopo essere stato richiamato tra le fila dei riservisti, ha detto no. Noam Livne, 34 anni, dottorando in matematica al Weizmann Institute di Rehovot, è uno dei 9 refusenik che hanno rifiutato la divisa per l’operazione Piombo Fuso. «Sono andato alla base e ho spiegato al comandante che non avrei combattuto a Gaza per ragioni morali» racconta seduto a un tavolino del caffè Mersand, nel cuore di Tel Aviv. Fuori, al di là della vetrina che sembra dipinta da Hopper, ragazzi della sua età si dirigono verso la spiaggia per l’aperitivo nei locali affacciati sul mare, lo stesso di Gaza, il fronte distante meno di 100 chilometri.
Quali sono le ragioni morali di cui ha parlato al suo comandante?
«Questa guerra non serve. Non sono un disfattista, sono stato nell’esercito quattro anni, tre di leva e uno da ufficiale. Ho anche servito come riservista ma solo all’interno della linea verde, i confini del ’67. Nei territori palestinesi occupati non andrò mai, me ne sono convinto mentre ero in prigione».
Quando è stato in prigione?
«Nel gennaio 2002. C’era la seconda Intifada e io rifiutai di andare con le truppe a Nablus. Sono stato dentro tre settimane, ho letto molti libri e sono uscito ancora più convinto di non voler partecipare a un conflitto sbagliato e ingiusto. Quando decidi da che parte stare è facile, anche se gli altri non capiscono».
Che libri ha letto?
«Ne ricordo uno in particolare, La storia di Elsa Morante, mi ha influenzato tanto e mi ha dato forza».
L’80 per cento degli israeliani continua a sostenere la guerra. Non si sente isolato?
«Non sono del tutto solo per fortuna, ma noi obiettori di coscienza siamo una esigua minoranza. In questo Paese c’è un sistematico indottrinamento nazionalista, è difficile differenziarsi. Anche i palestinesi raccontano la loro storia parziale, e questo non aiuta. Io provo a capire la cronaca scartando il filtro della narrativa israeliana e di quella palestinese. E’ un lavoro da umanista, i nostri e i loro morti, come i nostri e i loro feriti, sono la stessa cosa».
Il governo israeliano dice che è stato Hamas a rompere la tregua.
«Hamas è diventato la giustificazione per qualsiasi tipo di reazione. Anche io odio Hamas, un partito di terroristi. Ma non riesco a essere felice se muoiono mille palestinesi».
Ha fiducia nella politica?
«Voto, sia pur senza grande entusiasmo. Il problema non sono i politici, anche se attribuisco gravi responsabilità al ministro della difesa Barak. Dopo il fallimento di Camp David Barak ha convinto il Paese che i palestinesi non fossero un partner possibile. In generale però, i politici sono l’espressione degli elettori e gli elettori qui non sono pronti alla pace».
Cosa farebbe se fosse nominato premier?
«A differenza dei guerrafondai, convinti che le armi siano la risposta, io non ne ho una. La situazione è difficile. La pace è difficile. E’ vero che i palestinesi capiscono meglio il linguaggio della violenza, ma anche noi israeliani. Entrambi ci rappresentiamo come mostri, un popolo di terroristi e un popolo di guerrieri assatanati. Non sono ottimista e non ho una soluzione, ma ho una direzione. Se fossi premier appoggerei l’iniziativa araba, spingerei perchè noi ebrei ci integrassimo nella regione, costruirei il confine sulla linea del ’67, senza aggiustamenti».
Il ragazzo che l’ha preceduto nel rifiutare di servire a Gaza è stato condannato a due settimane di prigione. Lei?
«Non hanno deciso, il comandante ha detto che avrebbero pensato a cosa fare di me. Forse mi processeranno».
Hamas potrebbe accettare la tregua. Cosa crede che accadrà?
«Un proverbio ebraico dice che la profezia è materia da stupidi».