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Se l’inglese diventa un trucco del governo.

Non è una questione di purismo linguistico, né di protezionismo sintattico, men che meno di nazionalismo della grammatica. Se una cosa è giusta, bella e fatta bene, sicuramente viene nominata, raccontata, spiegata con semplicità in una lingua a tutti comprensibile.

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C’è una vecchia storiella che parla di un emigrante italiano in procinto di partire per la Gran Bretagna, al quale un amico del suo paese di provincia insegna che l’inglese è come l’italiano, basta parlare lentamente, molto lentamente. Sicché il nostro arriva a Londra, entra in un bar e chiede molto, ma molto lentamente un caffè. Molto lentamente, ma molto lentamente il barman gli risponde chiedendogli come desidera sia fatto il caffè: corto o lungo? Macchiato caldo o freddo? In tazzina o al vetro? Sorpreso, l’emigrante chiede , molto, molto lentamente al barista: ” Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?”.

Dal che si evince, parafrasando un’uscita del celebre Totò, che ogni lingua ha una pazienza.

Dunque rivolgerò lentamente, ma molto lentamente una domanda a chi ha escogitato il trucco semantico che per dire “non vi do un a lira” dice invece “fiscal compact”. La domanda è: perché non parli come tagli?

Anche recentemente, il trucco di mascherare in inglese cose sgradevoli da dire in italiano riguarda, guarda caso, le classi sociali meno abbienti.

Perché chiamare “spending review” il taglio dei soldi alla Sanità, all’Istruzione, ai trasporti pubblici?

Perché chiamare Job Act il peggioramento normativo della condizione del lavoro dipendente, invece che, parafrasando il Belli, “io (imprenditore) sono io e voi (lavoratori) non siete un cazzo”?

È vero che la lingua italiana è sempre stata la lingua delle classi alte, quindi del potere, o meglio dei poteri, per cui tutte le cose importanti vengono ancora oggi scritte e dette con quell’accurata capacità di intimorire, più che farsi capire: basti pensare al linguaggio giuridico, a quello medico, a quello finanziario.

In effetti, oggi sembrerebbe che l’uso della lingua inglese sia come quello del latino ai tempi della nascita del volgare: una roba da pochi eletti, mica da tutti gli elettori.

E allora, invece che spernacchiare, sia pur a ragion veduta, l’uso goffo dell’inglese maccheronico dei nostri politici, dovremmo preoccuparci di come vengono chiamate le leggi.

Non è una questione di purismo linguistico, né di protezionismo sintattico, men che meno di nazionalismo della grammatica. Se una cosa è giusta, bella e fatta bene, sicuramente viene nominata, raccontata, spiegata con semplicità in una lingua a tutti comprensibile.

Al contrario, se si usano artifici linguistici, forzature semantiche, sforzi pirotecnici atti a stupire invece che dialogare; se si fa ricorso a stereotipi e slogan anglofoni, che spesso risultano maccheronici, come un tempo fu il latinorum, allora forte è il puzzo dell’inganno.

Se la lingua inglese diventa la lingua della propaganda del governo, per dire cose che si vergognerebbe di dire in italiano, la domanda che pongo lentamente, molto lentamente è: “Ma se noi siamo paesani, perché parliamo inglese?” Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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