Micaela Latini commenta il film âHannah Arendtâ
di Margarethe von Trotta
Il coraggio del pensiero contro la produzione indifferente del male
Il dislivello prometeico di Anders e il Totum come Totem di Adorno
di Riccardo Tavani
Lâincontro con la professoressa Micaela Latini è davanti a due tazze bollenti di squaglio fondente al 75%, con guarnizione di panna fresca, in una vecchia (ora magnificamente restaurata) cioccolateria del quartiere San Lorenzo a Roma. Lei ha visto il film lo scorso anno, appena uscito in Germania, a Monaco. Io lo vedo questo 27 gennaio 2014, in una proiezione speciale, in occasione della giornata della memoria al Cinema Farnese, dove adesso è in programmazione tutti i giorni alle 15,30.
Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca allâUniversità di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dellâestetica, della filosofia dellâarte.
La professoressa Latini è anche una delle maggiori studiose italiane dellâopera filosofica di Günther Anders, che è stato anche il primo marito di Hannah Arendt. Ustionandosi il palato con una sorsata di cioccolato bollente, mi dice senza mezzi termini, che è una vera vergogna che questo film venga proiettato con grande successo in tutta Europa e in Italia sia programmato solo in poche sale e per pochi giorni.
Una pellicola interamente al femminile, per la regia di Margarethe von Trotta, la sceneggiatura di Pam Katz e la sensibile interpretazione dell’attrice polacca Barbara Sukowa.
Aspettando che il cioccolato incandescente si raffreddi un poâ, cedendo calore alla conversazione, la professoressa mi ricorda come la Arendt, anche in quanto ebrea, si sia trovata al centro di eventi storici cruciali. Fuggita dalla Germania nazista a Parigi, visse la vita dei suoi connazionali nei campi profughi, trasformati poi in campi di prigionia dopo lâinvasione tedesca della Francia.
Riparò, come molti altri importanti pensatori e lo stesso Anders, negli Stati Uniti, dove sposò in seconde nozze il poeta e filosofo Heinrich Blücher. Il film di Margarethe von Trotta ritrae la Arendt in questo suo periodo americano degli anni â50, diviso tra la vita familiare, lo studio, lâinsegnamento, lâincontro con i suoi amici tedeschi espatriati (la cosiddetta altra Germania) e diverse figure di intellettuali americani, tra le quali la scrittrice Mary McCarthy.
Il film passa continuamente dallâuso del tedesco a quello dellâinglese, e non solo per una ragione di realismo storico. In quegli anni, infatti, ricorda Latini, si è sviluppato un dibatto sulla lingua tedesca come lingua del male. âNon è la lingua tedesca a essere impazzita!â dirà poi Arendt in unâintervista rilasciata proprio alla televisione del suo Paese,
Micaela Latini nota che il film, innanzitutto, evidenzia bene la differenza tra la Arendt e gli altri pensatori di quel momento storico, e non parliamo della Germania e dellâEuropa, dove dominava la rimozione e il silenzio sulla Shoa. Prova di questa rimozione è proprio silenzio del maestro e primo amante di Hannah Arendt, Martin Heidegger. A questo grande filosofo tedesco, che aveva aderito al nazismo, molti avevano chiesto, alla fine della guerra, di pronunciare una parola critica sulla sua scelta, ma lui non la pronunciò mai.
Differenza, quella di Hannah, coniugata in termini di coraggio etico del suo pensiero, e questo lo scandisce bene una secca battuta di dialogo della McCarthy, scagliata in faccia agli intolleranti quanto pavidi critici della Arendt, nel momento di massima aggressione che subì a seguito delle sconvolgenti pagine che scrisse sul processo Eichmann.
Hannah Arendt, infatti, è inviata dallâimportante rivista New Yorker a Gerusalemme per assistere al processo intentato dallo Stato di Israele contro Adolf Eichmann, rapito nel 1960 dagli agenti del Mossad a Buenos Aires, dove si nascondeva sotto falsa identità , dopo essere sfuggito al Processo di Norimberga. Il resoconto che più tardi la Arendt farà del processo e della figura di Eichmann, in particolare, sulle pagine del New Yorker e del suo libro La banalità del male determinarono uno shock e una controversia irriducibile dentro la stessa comunità ebraica, alla quale anche lei apparteneva per nascita.
La pellicola inserisce allâinterno della sua ricostruzione scenica le immagini vere, in bianco e nero, di Eichmann che si difende nel processo di Gerusalemme, al quale la Arendt assiste di persona. Ciò conferisce allâopera una particolare forza storica e, paradossalmente, un riverbero quasi sperimentale, simile a
LâIstruttoria, di Peter Weiss, che vedeva inserite, dentro il testo teatrale, le vere parole pronunciate dai testimoni nel processo di Francoforte del 1963 contro le SS e i funzionari del Lager di Auschwitz.
Micaela Latini sta approfondendo, con i suoi studenti, proprio nellâanno accademico in corso, i temi delle spaventose ecatombe consumate nella modernità , dallâOlocausto alla bomba atomica su Hiroshima. Quello che la Arendt coglie del processo di Gerusalemme e dallâenorme mole di atti giudiziari che studia approfonditamente è lâaspetto strutturale, di efficienza burocratica, amministrativa, da catena di montaggio della morte come produzione industriale strategicamente pianificata. à un aspetto, questo, che non può essere ridotto in nessun modo alla mostruosità di un singolo per quanto malefico individuo.
à il sistema in sé, quello che Theodor Wiesengrund Adorno (anche lui esule in America) chiamerà poi il Totum a costituire il Totem della cieca obbedienza, ai fini di unâefficiente esecuzione dei compiti da assolvere allâinterno della divisione gerarchica. Eichmann era semplicemente un tenente colonnello, dunque neanche uno dei ben più elevati gradi militari ai quali obbediva. A una precisa domanda, risponde che avrebbe ucciso anche il padre se avesse tradito il e glielo avessero ordinato.
Di fronte alle contestazioni dei giudici sul metodo criminale di trasporto degli ebrei rastrellati, lâufficiale risponde che il suo reparto si occupava solo delle quantità e dei tempi del trasporto, non delle modalità che erano affidate al Reparto U-4, sulle cui decisioni lui non poteva influire. Egli, afferma, con la massima serietà : ânon ho mai personalmente torto un capello a un solo ebreoâ.
Quello che la Arendt cerca di spiegare ai suoi studenti a New York è il vero aspetto del male assoluto rappresentato dalla Shoa: quello di privare lâessere della propria singolare umanità . Un aspetto ripreso poi anche da Primo Levi che nella sua opera parla della riduzione, praticata nei campi di sterminio, dellâumano al sub-umano, dellâoscena nudità dellâessere spogliato di ogni proprio sé.
La stessa spoliazione, la stessa negazione, però, il Totum sistemico la pretende dai propri addetti in stivali e divisa da militari, o in giacca e cravatta da funzionari. Vi è un parallelo, nota Latini, con il processo di alienazione descritto da Marx a proposito del sistema produttivo capitalistico.
Nelle sue lettere a Gershom Scholem, ricorda Latini, la Arendt scrive che il male non è radicale ma estremo, non possiede né profondità né connotazione demoniaca, ma è come un fungo. Alla stessa stregua Ingeborg Bachmann parlerà di un virus e si domanderà dove si sia annidato nel presente quello del nazismo. Un fungo che può attecchire nellâhumus del mondo, ma il pensiero che lo cerca alla radice non riesce a coglierlo.
Solo il bene è profondo e radicale, il male è sempre orizzontale, si fa concrezione di superficie. Per questo lei rimane stupita e sconvolta dalla mediocrità dellâomuncolo Eichmann, dal suo essere anodina vite dellâingranaggio che gli toglie ogni senso, restituendogli mera funzione esecutiva.
Questa indifferenza funzionale, indipendente dallâattività che si svolge, secondo Anders, è la connotazione moderna del peccato, così come originariamente intuito dal cristianesimo. à quello che lui chiama dislivello prometeico tra produzione e immaginazione, nel senso che questâultima non riesce mai raffigurasi il male che conseguirà a tale indifferenza produttiva.
à proprio questa, spiega la professoressa Latini, non la mostruosità , la dimensione abissale, ma la banalità del male, espressione che Hannah Arendt conierà come una delle più sinteticamente affilate di tutto Novecento. Lo choc causato dalla lettura delle pagine da lei firmate sul New Yorker scuote anche lâintera comunità ebraica americana, europea e israeliana.
Lâindicazione del male come sistema riguarda anche i capi delle comunità ebraiche che collaborarono â come storicamente è provato â con i nazisti. La Arendt arriva ad affermare che se la strutturazione gerarchica delle comunità le aveva storicamente preservate, non esiste, allo stesso tempo, alcun dubbio che sarebbe morto un numero enormemente inferiori di ebrei se non ci fossero stati questi capi nellâoccasione della Shoa.
Il Novecento fa emergere alla superficie tale aspetto prima inesplorato e non agito di Prometeo, come produzione orizzontale e non più controllabile, immaginabile del male.
Si rivoltano contro di lei le stesse radici ebraiche e filosofiche nelle quali affonda la sua formazione di studiosa, rappresentate nel film dai personaggi di Kurt Blumenfeld e Hans Jonas, questâultimo suo compagno di studi a Marburgo, dove aveva presentato Hannah ad Heidegger. Proprio Jonas, sottolinea Latini, per la sua internità alla comunità ebraica e allo stato di Israele, sarà poi il maggiore accusatore della vecchia e adorata compagna di formazione.
La loro è una vera e propria diaspora conflittuale che caratterizza tutta la comunità ebraico tedesca, cresciuta allâidea di tolleranza di Lessing e schiacciata poi dallâintolleranza nazista.
La Arendt fa prevalere, però, sempre la sua dimensione di filosofa tedesca, europea di fronte a quella pure profondamente intima di ebrea.
La dimensione pubblica in relazione a quella privata, anzi, il loro corto circuito, precisa Latini, è uno dei poli decisivi dellâintera filosofia della Arendt. Il rapporto controverso con il maestro ripudiato è drammaticamente rappresentato dalla von Trotta con dei salti temporali, in questa parte del film, nella quale la grande filosofa si ritira dalla sua casa di New York, per sottrarsi alla tempesta di critiche, insulti, ruvide pressioni e intimazioni di censura, abiura che si abbattono da ogni parte su di lei.
Questo ritrarsi, però, è anche un immergersi più profondamente nel dialogo interiore del pensiero, per tornare, poi, da autentica filosofa tra gli uomini. In una delle sue opere fondamentali, Vita Activa, Hannah Arendt ha paragonato il primo atto politico allo stesso atto teatrale: quello di presentarsi davanti allâagorà , sulla scena dellâagone collettivo, prendere la parola ed esporsi al giudizio critico del pubblico e al dialogo con esso.
à esattamente quello che vediamo, dice Micaela Latina, rappresentato sullo schermo dalla von Trotta. Hannah Arendt si presenta nellâanfiteatro a gradinate dellâaula magna della scuola, gremito dai suoi studenti e dai professori ostili. Chiede teatralmente allâuditorio il permesso di accendersi una sigaretta e mette in scena questo atto che è estetico e insieme etico, politico, come spiega bene Elena Tavani nel suo importante libro Hannah Arendt e lo spettacolo del mondo.
In basso: Micaela Latini è docente di Letteratura Tedesca allâUniversità di Cassino e del Lazio Meridionale, ma la sua formazione e la sua produzione è filosofica, essendosi laureata con Emilio Garroni, uno dei maggiori pensatori moderni che il nostro Paese abbia avuto nel campo dellâestetica, della filosofia dellâarte.Una lieve pellicola di cioccolato secco rimane sulle pareti delle nostre tazze ormai fredde, e noi dovremmo ordinare un bis, per approfondire molti altri aspetti che il film fa balenare.
Neanche lâatto dellâinterpretazione può essere, però, per Micaela Latini, totemico e prometeico, in quanto anchâesso si espone allâagorà pubblica nella forma di un dialogo critico ed etico sempre aperto al senso di verità e meraviglia. (Beh, buona giornata “della Memoria”.)