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Cinema

“Django” di Quentin Tarantino, l’ultima Tarantinata.

di RICCARDO TAVANI

(Jamie Foxx e Franco Nero, il nuovo e il vecchio Django, in un'ironica "scena citazione" del film di Quentin Tarantino. Il Nome del personaggio fu preso da Sergio Corbucci dal grande musicista jazz belga di origine sinti Django Reinhardt, del quale stava ascoltando i dischi)
(Jamie Foxx e Franco Nero, il nuovo e il vecchio Django, in un’ironica “scena citazione” del film di Quentin Tarantino. Il Nome del personaggio fu preso da Sergio Corbucci dal grande musicista jazz belga di origine sinti Django Reinhardt, del quale stava ascoltando i dischi)

Una volta di un film si diceva: “Un’americanata!”. Adesso possiamo dire: “Una Tarantinata!!!”. Dichiaratamente ispirato a “Django”, lo spaghetti western girato da Sergio Corbucci nel 1966 con Franco Nero, Tarantino riprende il tema del razzismo presente in quel film e lo radicalizza.

L’eroe pistolero assume così i tratti neri di uno schiavo liberato da uno strano dentista tedesco e diventa con lui cacciatore di taglie. Il razzismo è visto nel volto sanguinario dello schiavismo come si praticava nelle piantagioni del Sud nel 1856 (soltanto dieci anni dopo è ambientata la vicenda dell’altra grande produzione ora sugli schermi e sugli stessi temi, “Lincoln”).

Quentin ci infila dentro anche Brumilde, Sigfrido e Wotan come nelle opere di Wagner. Ottima interpretazione di Leonardo Di Caprio, Samuel L. Jackson e Christoph Waltz. Un film e un genere cinematografico che possono naturalmente non piacere, ma le polemiche scatenate contro la pellicola sono semplicemente assurde.

Il regista nero Spike Lee e il reverendo Al Sharpton hanno lanciato una campagna di boicottaggio del film. Il primo perché dice che lo schiavismo americano è stato un Olocausto e non un “macaroni western” alla Sergio Leone; il secondo per la commercializzazione di “action figure”, pupazzetti di plastica raffiguranti i personaggi del film, compresi magistralmente delineati dei suoi atroci negrieri.

Insomma: non si gioca con la tragedia e la ferita ancora aperta dello schiavismo yankee. Si riapre qui un tema legato direttamente alla Shoha, allo sterminio degli ebrei nei campi nazisti. È il tema della sua impossibilità a rappresentarlo in qualsiasi modo, visto l’abisso dell’orrore nel quale l’umanità è sprofondata attraverso esso. Non solo, ma “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è barbaro”, sentenziò Theodor Adorno, qualsiasi forma d’arte non è più possibile.

Lo stesso Adorno ebbe in seguito a correggere questa sua drastica affermazione, ma sta di fatto che il cinema e lo schiavismo e la guerra civile americana li ha rappresentati attraverso celebri pellicole storiche. La discussione potrebbe vertere sul fatto un film di genere, lo spaghetti western, splatterizzato da Tarantino, sia degno di tale rappresentazione.

Sugli extra all’interno del DVD del “Django” di Corbucci c’è una significativa intervista dello stesso Tarantino. Il regista americano afferma che il suo collega italiano usava quelle storiacce di genere per mettere in scena i fascisti della realtà presente, non solo e non tanto del passato.

I neri chiusi prima dentro una sozza gabbia da animali, ora spalancata, guardano Django allontanarsi a cavallo che va a liberare Brumilde e a fare giustizia. Quello sguardo comune ci dice che lo sta facendo ed è un esempio per tutti loro, ancora oggi, nel presente della rappresentazione filmica e non solo dell’epoca storica nella quale è ambientata.

C’è da registrare, inoltre, che le polemiche più crescono, più fanno aumentare gli incassi del film. Anche in questo lo splatter spaghettaro western Quentin ha centrato in pieno il bersaglio. La tarantinata fa esplodere di dinamite gli schermi e di dollari i botteghino. (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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