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Censis: Italia debole che si sente ostaggio della grande finanza e soprattutto vuole tornare a credere in se stessa e recuperare credibilità.

l 45° Rapporto disegna un’Italia debole che si sente ostaggio della grande finanza e soprattutto vuole tornare a credere in se stessa e recuperare credibilità. Gli obiettivi: tornare “al nostro scheletro contadino”, riscoprendo l’economia reale al posto dei giochi finanziari, e l’onestà: l’81% condanna l’evasione fiscale, il 59% chiede a chi governa comportamenti specchiati in pubblico e nel privato
di ROSARIA AMATO-repubblica.it

E’ stato più di un anno orribile: la cifra di quanto l’Italia sia ormai un Paese fragile, isolato, privo della solida reputazione che ha avuto per secoli, prima ancora di giocare un ruolo politico nello scacchiere internazionale, l’ha data forse quello sguardo di scherno passato dal presidente francese Sarkozy alla cancelliera tedesca Merkel, in conferenza stampa a Bruxelles. Senza la sua “good reputation”, all’Italia, osserva il 45esimo rapporto Censis, presentato stamane a Roma, non rimane che essere “eterodiretta”, in balia della grande finanza e soprattutto delle istituzioni europee che ci dettano l’agenda, “quasi a imporci il compitino”. Una situazione “che ci fa sentire confinati per l’eternità a mediocri destini”.

E’ colpa soprattutto nostra, certo: abbiamo accumulato per decenni “un abnorme debito pubblico”, ci siamo fatti trovare “politicamente impreparati a un attacco speculativo che vedeva nella finanza pubblica italiana l’anello debole dell’incompiuto sistema europeo”, abbiamo dimostrato “per mesi e mesi confusione e impotenza nelle mosse di governo volte alla difesa e al rilancio della nostra economia”.

Tornare all’economia reale. Possiamo venirne fuori? Il Censis indica una strada che va ben oltre il risanamento, la messa a posto dei conti imposta “dalla regolazione finanziaria di vertice”, che “può esprimere solo una dimensione di controllo, non di evoluzione e crescita”. E’ illusorio, sottolinea il Censis, “pensare che i poteri finanziari disegnino sviluppo. Perché lo sviluppo si fa con energie, mobilitazioni, convergenze collettive, quindi soltanto se si è in grado di fare governo politico della realtà”. Premesso che “sarà faticoso, anche per chi si avvia a governare nel prossimo futuro, diffondere impegni di responsabile autodirezione e di rinnovata autostima”, bisognerà tornare all’economia reale, e a una cultura che metta al centro la correttezza, e l’onestà.

Riscoprire l’onestà. Sembra lontana la logica della furbizia, del vince chi frega gli altri. E’ evidente che ci ha portati sull’orlo del baratro. Alla classe dirigente la maggioranza degli italiani (59%) chiede adesso “specchiata onestà sia in pubblico che in privato”, preparazione (43%), “saggezza e consapevolezza (42,5%). Ma gli italiani sono pronti anche a prendere sulle proprie spalle la responsabilità di cambiare il Paese: il 57,3% si dichiara disponibile a sacrificare in tutto o in parte il proprio tornaconto personale per l’interesse generale (però poi il 46% restringe la propria disponibilità ai soli casi eccezionali). L’81% condanna duramente l’evasione fiscale: il 43% la reputa moralmente inaccettabile, il 38% pensa che chi non paga le tasse arreca un danno ai cittadini onesti. Onestà, dunque.

E il nostro “scheletro contadino”. In fondo, osserva il Censis, si tratta di tornare al solido “scheletro contadino”, inteso come “metafora della nostra cultura di continuo adattamento”, ma anche dell’economia reale, che dà ricchezza vera, mentre il dominio dell’economia finanziaria ci ha portati alla crisi. “Potremo superare la crisi attuale se, accanto all’impegno di difesa dei nostri interessi internazionali, sapremo mettere in campo la nostra vitalità, rispettarne e valorizzarne le radici, capirne le ulteriori direzioni di marcia”.

La nostra reputazione è migliore di quello che pensiamo. Per ripartire però bisogna anche liberarsi da quell’eccesso di “declinismo” che si è ormai abbattuto sugli italiani. All’estero non ci vedono poi così male: in una recente classifica internazionale risultiamo al quattordicesimo posto, due posizioni più in basso rispetto al 2009 (ma Spagna, Irlanda e Grecia hanno perso molto più terreno). Dell’Italia gli stranieri apprezzano lo stile di vita, l’ambiente, la capacità di intessere relazioni, il cibo. Caratteristiche che hanno anche una solida base economica: l’Italia è l’ottavo Paese esportatore del mondo, con circa il 3% dell’export mondiale e una crescita del 10,1% tra il 2009 e il 2010. Vanta un primato sui prodotti Dop e Igp, che hanno tenuto a livello di fatturato anche tra il 2008 e il 2009, quanto tutto arretrava. E del resto l’Italia è il Paese europeo con il maggior numero di prodotti agroalimentari di qualità in Europa: ne abbiamo 219, il 22,1% di tutti quelli riconosciuti in ambito comunitario. Ma gli italiani non riescono più a vedersi obiettivamente, si giudicano male, decisamente molto peggio di quanto li giudichino gli stranieri: una classifica analoga, nella quale si chiede invece agli italiani quello che pensano dei vari Paesi, ci vede invece al 34esimo posto su 37 Paesi.

L’identità perduta. Gli italiani fanno persino fatica a sentirsi tali. Solo il 46% dei cittadini si dichiara “italiano” (con differenze territoriali: il 44,7% al Nord-Ovest, il 37,9% al Nord-Est, il 54,4% al Centro, il 46,8% al Sud e nelle Isole), mentre il 31,3% si riconosce piuttosto cittadino del proprio Comune, o della propria Regione; il 15,4% si sente “cittadino del mondo”, il 7,3% si riconosce solo in se stesso. Anche se prevalgono ormai modelli familiari molto diversi da quello tradizionale, il senso della famiglia rimane il valore aggregante per il 65,4% degli italiani (con un picco del 75,2% al Sud e nelle isole), seguito a molta distanza dal gusto per la qualità della vita (25%) e dalla tradizione religiosa (21,5%).

Valorizzare i punti di forza. L’Italia ha ancora dei notevoli punti di forza. Le esportazioni, innanzitutto, che il Censis indica come possibile volano di crescita, soprattutto se le imprese italiane continuano con determinazione a raggiungere nuovi mercati, cogliendo le nuove opportunità offerte da Paesi come il Messico, il Perù, la Corea del Sud e la Malesia. Ma può giocare un ruolo importante per la ripresa anche la valorizzazione della ricchezza delle famiglie, che è ancora cospicua nonostante l’erosione dovuta alla crisi: è cresciuta del 22% infatti in termini reali nel decennio 1999-2009, raggiungendo il picco nel 2007. E’ cresciuta molto più del reddito: il rapporto tra la ricchezza netta delle famiglie e il reddito disponibile era pari a 7,4 volte nel 1999 ed è salito a 8,8 volte dieci anni dopo. Da valorizzare, ancora, le nostre eccellenze nell’industria manifatturiera e agroalimentare, e l’apporto sempre più indispensabile degli immigrati.

Rilanciare la produttività. Il punto debole del nostro sistema al momento è soprattutto la produttività bassa. Il Pil non cresce anche perché la produttività non cresce. E infatti mentre nell’ultimo decennio gli occupati sono aumentati del 7,5%, il Pil italiano è cresciuto solo del 4%, contro il 9,7% della Germania e l’11,9% della Francia, che hanno registrato incrementi occupazionali rispettivamente del 3% e del 5,1%. La produttività oraria ha avuto un vero e proprio crollo in Italia dal 2000 a oggi: siamo partiti in fatti da un valore pari a 117 (fatto 100 il valore medio europeo), arrivando nel 2010 ad appena 101, contro 133 della Francia, 124 della Germania, 108 della Spagna e 107 del Regno Unito. Inoltre il mercato non assorbe praticamente più lavoratori qualificati: gli imprenditori e i dirigenti sono diminuiti dell’11,5%, dei 309.000 nuovi posti dell’ultimo quinquennio 297.000 erano per addetti alla vendita. Non solo è calata la produzione industriale, ma anche il valore aggiunto dei servizi è cresciuto pochissimo (+1,3%), che sono invece cresciuti ovunque in Europa.

Promuovere la formazione. Alle carenze del nostro sistema produttivo corrispondono carenze forse anche più gravi di quello scolastico-formativo. Moltissimi si iscrivono alla scuola superiore, ma si diploma solo il 75% dei diciannovenni. Il 65% dei diplomati tenta la carriera universitaria, ma poi il 20% abbandona. E del resto il tasso di occupazione dei laureati è fermo al 76,6%, all’ultimo posto tra i Paesi europei e ben al di sotto della media (82,3%). I laureati che lavorano sono per metà sottoinquadrati al primo impiego (49,2%), ma lo sono anche il 46,5% dei diplomati.

Basta con i tagli lineari. Il fatto è che la scuola e l’università, come il welfare, come i trasporti, sono stremati da tre anni di “tagli lineari”, che hanno prodotto gravi segnali di deterioramento dei servizi. Nel triennio 2008-2011 l’organico scolastico è diminuito di 57.000 posti, a fronte di un incremento di 76.000 unità degli alunni. Il comparto sicurezza ha subito tagli per 1,65 miliardi di euro. I trasporti locali sono al collasso, e ancor più lo sono le politiche sociali: il relativo Fondo Nazionale tra il 2009 e il 2011 è stato ridotto del 65,6%, mentre il Fondo nazionale per le non autosufficienze è stato azzerato.

Bisogno di piazza. Ma non basta riavviare l’economia, e neanche credere nuovamente in noi, e in valori come l’onestà e la correttezza. Bisogna potenziare le relazioni sociali, delle quali gli italiani sentono forte bisogno. E infatti hanno riscoperto le reti di prossimità, quello che una volta banalmente si definiva il vicinato, le attività di volontariato (svolte dal 26% della popolazione), gli incontri conviviali, dalle sagre alle feste (se ne tengono 11.700 ogni anno in Italia), i social network (che coinvolgono il 31% degli italiani). Il “bisogno di piazza” si esprime in termini molto più semplici: è proprio la piazza il luogo dove ancora oggi si incontra il 27,5% degli anziani, seguito dal bar (27,1%).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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