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La crisi e le imprese. Allegato 3° a “Il pacchetto anticrisi è vuoto e incartato male”.

Un primo concreto passo avanti.

Di Alberto Orioli, da sole24ore.com

 

Se l’algido linguaggio legislativo lasciasse spazio ai sentimenti, il decreto varato ieri si intitolerebbe: «Disposizioni urgenti sulla fiducia e l’ottimismo di Stato». Almeno questo è l’obiettivo del progetto neo-keynesiano messo a punto da Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti. Ma i fatti e il contesto rendono molto difficile forzare le cose dell’economia e tantomeno le emozioni collettive anche per chi, con tenacia, persegue la politica della positività (e del consumo).
L’Europa ha scelto la via di un semi-bluff, ben presto smascherato. Il piano Ue, un agglomerato di fondi nazionali – il cui totale rischia di diventare meno della somma degli addendi – invece di creare speranza rischia di indurre l’effetto contrario e di innescare una guerra tra poveri nei Paesi di Eurolandia. La scelta di Londra di abbattere l’Iva e la tentazione di Berlino di aiutare l’auto tedesca rischiano di dare un pericoloso segnale di “liberi tutti” proprio mentre servirebbe una politica coordinata per gestire la svolta verso quella green economy che diventerà, invece, il vero cantiere dell’America di Obama. Una possibile crisi nella crisi di cui l’Europa porta tutta la responsabilità.Il Governo di Roma, con l’annuncio fatto a Washington di un maxi-piano da 80 miliardi che univa passato, presente e futuro, ha reagito d’impulso con una risposta mediatica a uso del G-20 (dove peraltro Sarkozy ha esibito dati su una crescita del Pil assai “sospetta”). Per coerenza ieri Berlusconi e Tremonti l’hanno ricordato, anche se hanno dovuto spiegare che si tratta di interventi diversi e non direttamente sommabili. Il decreto, in realtà, più pragmatico e consono a questi tempi di economia della sobrietà, mette in campo 6 miliardi “reali” immediati e ne promette 25-30 per grandi interventi entro il 2013 se andrà a buon fine l’operazione (storica) di riprogrammazione dei fondi per le aree sottoutilizzate. Con il piano Barroso se ne rimettono in gioco ancora 5, altrimenti persi.

Il Governo ha rinunciato a forzare i margini sul deficit che la Ue comunque ci consentirebbe: risorse in più per mezzo punto di Pil (pari a 8 miliardi) non avrebbero destato scandalo e non è certo che avrebbero nemmeno causato i paventati contraccolpi sugli spread dei titoli di Stato. Ma tant’è. Tremonti, con coerenza da uomo delle istituzioni tanto più rispettabile perchè scomoda, rimane attestato sul deficit zero nel 2011. E disegna il canone aureo dell’economia sociale di mercato cui, da qualche tempo, si ispira: un mix tra misure assistenziali e per la famiglia (3,6 miliardi), programmi di sviluppo e investimenti (16,5 miliardi) e azioni fiscali per le imprese (2,4 miliardi).

Il Governo ritiene di avere risorse sufficienti. È augurabile che sia nel giusto, altrimenti ci troveremo presto senza benzina. L’Iva è in calo e anche il gettito Ires prevedibilmente fletterà; la Robin Hood tax non ha portato nelle casse pubbliche tutto il gettito previsto, ma probabilmente la metà. Il decreto promette sconti sull’Irap e limature agli acconti Ires (non Irpef), un sistema di recupero dei crediti delle imprese verso lo Stato e risparmi virtuali dovuti a un nuovo pacchetto di semplificazioni burocratiche. Non c’è molto di più. Tantomeno la detassazione degli utili reinvestiti in ricerca e tecnologia: sarebbe stato un altro importante segnale di sistema su quale dovrà diventare il modello di sviluppo dell’Italia. Forse arriverà in futuro, forse no.

L’evidente sbilanciamento a favore del capitolo infrastrutture – scelta comunque positiva – sarà anche il campo di sperimentazione del nuovo ruolo dello Stato. Il motore principale è la Cassa depositi e prestiti che cambia natura e capacità di azione perché userà senza vincoli il risparmio postale. La Cdp, poi, è stata candidata a diventare fondo di garanzia pubblica per l’azione calmieratrice sul credito e, forse in un secondo tempo, anche testa di ponte nelle partecipazioni ex bancarie al capitale della Banca d’Italia. La Repubblica diventerà poi compratore di ultima istanza per i bond delle banche necessari a riportare su ratio più competitivi il patrimonio degli istituti italiani. È chiara la nuova impronta interventista, ma nella visione tremontiana c’è un’idea di fondo di un soggetto pubblico di supporto e di correzione, senza interferenze (apparenti) nella gestione di mercato delle imprese, senza esercizio diretto (apparente) di poteri operativi. Come dire: una moral suasion “armata” o “spintanea”, come quella che sarà esercitata – parola di Tremonti e Calderoli – per fermare la dinamica delle tariffe.

L’accelerazione delle procedure di investimento per le grandi infrastrutture è una delle novità più rilevanti. Ci hanno provato in tanti, con poco successo. Si vedrà se l’aggiramento dei ricorsi blocca-opere, previsto dal decreto, andrà a buon fine. È più che auspicabile.
È comunque anche questa la via migliore per ritrovare la fiducia smarrita; per paradosso infatti non sono i provvedimenti eccezionali a infondere l’ottimismo dei comportamenti (anzi confermano l’idea dell’emergenza e lasciano scorie di ansia) ma i segnali di una nuova ordinarietà prosperosa. Per tradurre poi la fiducia in consumi (non sono la stessa cosa) serve il reddito, che passa anche da investimenti pubblici e privati e dalle aspettative positive sull’occupazione. E si alimenta anche con i bonus e le elargizioni strettamente assistenziali – pure presenti nel provvedimento – anche se non è chiaro se queste finiranno a risparmio o a consumo. L’impatto più duro della crisi si dovrebbe sentire nella prima metà del prossimo anno. Per quell’evenienza dovrebbero essere attivati gli ammortizzatori sociali rifinanziati: se però le conseguenze saranno mezzo milione di posti di lavoro persi, anche il nuovo sforzo si rivelerà poca cosa. Sarà allora, probabilmente, che il cosiddetto “fondo Sacconi” dovrà essere rabboccato o con parte dei fondi per il Sud o con nuove risorse. Magari tentando un’ulteriore riforma che porti finalmente a un sistema di ammortizzatori sociali universali, non più legati a scelte discrezionali politico-sindacali e semmai ancorati a reali programmi di riqualificazione e reinserimento.
Sarebbe un’altra di quelle riforme “normali” che permettono a un Paese di generare fiducia duratura. Per non parlare di quale effetto tonificante potrebbe avere la firma dell’accordo sulla riforma della contrattazione, unico strumento adatto ad accrescere e redistribuire la produttività, vera lacuna di sistema dell’Italia. È fondamentale, a questo scopo, l’arricchimento della dote finanziaria destinata agli sgravi fiscali per il salario di secondo livello per i quali è stato fatto un primo passo.

Si riapre – ed è un bene – il capitolo sull’evasione fiscale. Le risorse, in effetti, sono lì, sommerse da sempre. Ci sono 100 miliardi su cui esercitarsi. In attesa di risultati a sei zeri magari si può cominciare vigilando sulla social card: sarebbe grave se una tessera destinata ai più poveri finisse ai più furbi. (Beh, buona giornata).

 

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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