Chi ha paura della glasnost, di BARBARA SPINELLI-la Repubblica
SOLO chi ha un’idea cupa dell’informazione indipendente, e paventa persecuzioni non appena se la trova davanti, e per di più nulla sa della rivoluzione in corso nell’universo dei blog, può parlare, come il ministro Frattini, di un 11 settembre della diplomazia scatenato da WikiLeaks contro il mondo bello, composto e civile nel quale siamo supposti vivere. Solo chi fantastica planetarie offensive contro le notizie che da tempo circolano senza confini può credere che al caos comunicativo si debba rispondere, come negli attentati del 2001, con una bellicosa e “compatta alleanza: senza commentare, senza retrocedere sul metodo della diplomazia, senza lasciarsi andare a crisi di sfiducia”.
WikiLeaks non è una cellula terrorista e il suo fondatore, Julian Assange, è magari indagato per violenza privata ma comunque non è un uomo che – la fine osservazione è del ministro – “vuol distruggere il mondo”. Alla mutazione mediatica nata prima di lui non si replica con un globale schieramento, per “continuare a far vivere un metodo della diplomazia” che ha fatto disastri.
Mettere insieme in una battaglia contro Internet Roma e Mosca, Berlino e Kabul prefigura il Brave New World di Huxley, fatto di gente china e sedata dalla droga, il “soma” che rilassandoti uccide ogni critica. Più che un’utopia: una distopia.
Il mostro tanto temuto è la glasnost che d’un tratto irrompe in una zona politica non solo opaca ma sommamente inefficace: la diplomazia, il più chiuso dei recinti, dove il segreto, non sempre immotivatamente, è re. La glasnost è una corrente sotterranea potente, non un breve tumulto come fu Al Qaeda, e l’unica cosa da dire è: la politica ancora non sa fronteggiarla, organizzandosi in modo da disgiungere il segreto indispensabile dal superfluo. Se quello necessario viene alla luce è sua colpa, non di WikiLeaks. In realtà i 250.000 cabli non sono affatto top secret. Sono consultabili da ben 3 milioni di funzionari americani, e disponibili in siti interni al ministero della difesa Usa (Siprnet). Nella globale ragnatela Internet le fughe di notizie (i leaks) sono inevitabili. Scrive Simon Jenkins, sul Guardian: “Un segreto elettronico è una contraddizione in termini”.
Nei paesi democratici, dove l’informazione indipendente esiste, il diplomatico è alle prese con una trasparenza non di rado ostacolata come in Italia, ma tangibile. Non è cancellata dalle ghignanti foto di gruppo dei vertici internazionali, che s’accampano monotoni su giornali e tv. Gli ambasciatori a Roma o Parigi raccontano quel che leggono nei giornali più liberi, che apprendono dai blog, che ascoltano da chi non nasconde il vero.
Si dice: “Ce n’è per tutti”, nei dispacci. Per il Cancelliere tedesco, il regno britannico, l’Eliseo, oltre che per Roma. Nulla di più falso. Se la Merkel appare “refrattaria al rischio e poco creativa”, Berlusconi “suscita a Washington sfiducia profonda”: è “vanitoso, stanco da troppi festini, incapace come moderno leader europeo”. Inoltre “sembra il portavoce di Putin in Europa”. Un abisso separa i due leader. Resta che nelle democrazie le rivelazioni non sono fulmini che squarciano cieli tersi, neanche da noi. I diplomatici Usa comunicano quello che da 16 anni gli italiani hanno sotto gli occhi, sempre che non se li bendino per vivere in bolle illusorie e ingurgitare “soma televisivo”. Sanno dei festini in dimore private spacciate per pubbliche. Sanno che Berlusconi coltiva con Putin rapporti personali torbidi, lucrosi, di cui non rende conto né all’Europa né al popolo che pure tanto s’affanna a definire sovrano. Non c’è bisogno di WikiLeaks per conoscere la pasta di cui son fatti i governanti, per capire lo scredito internazionale che non da oggi li colpisce, per allontanarli dal potere che democraticamente hanno occupato, e poco democraticamente esercitato.
Non così lì dove non c’è democrazia e nelle aree di crisi, nonostante le verità siano in larga parte note anche qui, a chi voglia davvero sapere. Non c’è praticamente notizia che i blog non dicano da anni (Tom Dispatch, Antiwar. com, Commondreams, Counterpunch, e in Italia, nel 2005-2010, Contropagina di Franco Continolo).
L’altra cosa che va detta è che gli ambasciatori che divulgano informative non sono sempre di qualità eccellente, e forse anche questo, in America, crea imbarazzo. Nelle aree critiche – Italia compresa, dove gli equilibri democratici vacillano – non hanno idee meticolosamente maturate, né si azzardano in analitici suggerimenti e prognosi. Fotografano l’esistente, sono figli essi stessi di Internet, tagliano e incollano schegge di verità senza osare approfondimenti. Nulla hanno in comune, ad esempio, con l’immensa ricerca in cui si sobbarcò George Kennan nel ’44-46, lavorando per la missione Usa a Mosca. Il “lungo telegramma”, che inviò nel febbraio ’46 al Segretario di Stato James Bynes, descrive la natura oscura del sistema sovietico: le sue forze, le fragilità, il suo nevrotico bisogno di un mondo ostile. Ne scaturì l’articolo scritto nel luglio ’47 su Foreign Affairs, firmato X: fondamento di una politica (il containment) che per decenni pervase la guerra fredda senza infiammarla.
Nulla di analogo nei dispacci odierni, ma messaggi raccogliticci, frammentari, pericolosi infine per le fonti, nei paesi a rischio. Non la forza americana è esposta alla luce, ma la sua inconsistenza. Non un impero nudo, ma una finzione d’impero che addirittura usa i propri diplomatici – colmo di insipienza e mala educazione da parte di Hillary Clinton – come spie all’Onu. L’occhio Usa non scruta il lontano ma l’oggi, sposando non pochi luoghi comuni locali. La glasnost online sbugiarda questo modo di scrutare, e non è male che avvenga. Fa vedere l’impotenza, l’approssimazione, l’inefficacia americana. Inefficacia pur sempre limitata, perché i dispacci non paiono contaminati dai conformismi di tanti commentatori italiani: difficile trovare accenni, nei cabli, alla “rivoluzione liberale” o all’epifanico ruolo di Berlusconi nelle crisi mondiali.
Il vero scandalo è lo spavento che tutto questo suscita, lo sbigottimento davanti a notizie spesso banali, solo a tratti rivelatrici (è il caso, forse, del nesso stretto Nord Corea-Iran), l’imperizia Usa nel tutelare confidenze e confidenti. Ora si vorrebbe fare come se nulla fosse, “tener viva la diplomazia” così com’è: ottusamente arcana, lontana dallo sguardo dei cittadini. Ma quale diplomazia? Nel caso italiano una diplomazia chiamata commerciale dal governo perché essenzialmente fa affari, e all’estero riscuote in realtà “sfiducia profonda”.
Dicono che Berlusconi si sia fatto una gran risata, non appena letti i dispacci. Forse ha capito più cose di Frattini, perché lui la diplomazia classica l’ha già distrutta. E non solo la diplomazia ma l’informazione indipendente, e in Europa la solidarietà energetica. Forse ride delle banalità diffuse da WikiLeaks. Forse intuisce che se si parlerà molto di festini, poco si parlerà di conflitto d’interessi, controllo dei media, mafia. È il limite di Assange, enorme: avrà minato la fiducia nella diplomazia Usa, senza dare informazioni autenticamente nuove (la più calzante parodia del cosiddetto 11 settembre di Assange l’ho trovata su un sito di cinefili 1).
Resta la sfida alla stampa: sfida al tempo stesso ominosa e straordinariamente promettente. È vero: nel medio-lungo periodo crescerà il numero di chi si informerà su Internet, più che sui giornali cartacei. Ma da quest’avventura la stampa esce come attore principe, insostituibile: messa di fronte ai 250 milioni di parole sparse come polvere sugli schermi WikiLeaks, è lei a fare la selezione, a stabilire gerarchie, a rendere intelligibile quello che altrimenti resta inintelligibile caos, ad assumersi responsabilità civili contattando le autorità politiche e nascondendo il nome di fonti esposte dai leaks a massimi rischi. Alla rivoluzione mediatica ci si prepara combinando quel che è flusso (Internet) e quel che argina il flusso dandogli ordine (i giornali scritti). L’unica cosa che non si può fare è ignorare la sfida, negare la rivoluzione, opporle sante alleanze conservatrici del vecchio.
Immagino che non fu diversa l’alleanza anti-Gutenberg quando nel XV secolo apparve la stampa, e anche allora vi fu chi, con le parole di quei tempi, parlò di un 11 settembre contro gli establishment: politici e culturali, delle chiese e degli imperi. (Beh, buona giornata).