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La crisi sistemica mette in crisi anche la CGIL.

Conclusione: il sindacato è spaccato, di Francesco Piccioni, inviato a Rimini-ilmanifesto.it

Finisce con un voto a maggioranza il congresso più difficile nella Cgil da oltre quindici anni a questa parte. Guglielmo Epifani, nel tirare le conclusioni, se ne rammarica ma è convinto che bisogna andare avanti nella direzione da lui indicata. Ed esplicita i punti di divisione anche con più chiarezza di quanto non sia stato fatto in tutto il dibattito congressuale.

La questione non controversa è chiara: c’è una “crisi sistemica”, al punto che ormai la riconosce come tale anche il presidente della Bce, Jean-Claude Trichet. E ci sono effetti certi che stanno per abbattersi sulla società e il mondo del lavoro, anche per la evidente “asimmetria tra la debolezza della risposta degli stati e la forza dei mercati o della speculazione”. Bisogna “trarne le conseguenze”, e la comunità europea dovrebbe quantomeno prevedere un “fondo monetario”, un’”agenzia di rating”, dei bond europei per investimenti continentali; per governare l’integrazione. L’alternativa seguita finora è stata invece “lasciarla a se stessa” oppure “rinchiudersi negli stati-nazione”. I “silenzi di Tremonti” si contrappongono al “grido” rappresentato dalla “manovra correttiva” da 25-30 miliardi, di cui non si conoscono ancora i contenuti, ma si possono facilmente immaginare (“retribuzioni dei dipendenti pubblici, tagli a scuola, ricerca, sanità, pensioni”).

Finora, dice Epifani, abbiamo visto “un primo tempo della crisi” di cui stiamo ancora pagando i costi in termini di occupazione e diritti; e già se ne aggiunge un secondo.

Il rischio, in Italia come altrove, è di “drammatizazioni sociali forti”. Fin qui la Cgil si è mossa “con grade senso di responsabilità nazionale” (cita ad esempio la “soluzione ponte” proposta dalla Fiom nel corso delle trattative sull’ultimo contratto), e altrettanto vuole fare nel “secondo tempo”. Proprio per questo chiede al governo “di fermarsi un attimo e riflettere”, prima di definire la manovra finanziaria nel Dpef: “fermando il processo di smantellamento legislativo dei diritti dei lavoratori proprio durante la crisi”. Altrimenti si andrebbero a sommare caduta dell’occupazione e dei diritti, con conseguenze difficili da governare. Resta dunque in campo la richiesta di “un piano per l’occupazione”, che deve essere per tutta la Cgil “il cuore dei nostri obiettivi, non uno tra gli altri”.

Sul dissenso interno, però, vuole essere preciso: “il primo punto di divisione è su come si risponde a questo attacco contro il lavoro”. E rivendica il percorso fatto con i 40 contratti di categoria siglati da un anno e mezzo, che per lui dimostrano la possibilità di “svuotare” di senso “l’accordo separato sul modello contrattuale”, riducendo il danno; mentre per la “mozione 2” (ma anche secondo Cisl e Uil, seppure “da destra”) lo avrebbero accettato di fatto.

Il secondo punto riguarda il rapporto tra conflitto, democrazia interna e contrattazione. Che “stanno assieme”, ma “il conflitto è funzione della contrattazione; non si può fare un conflitto troppo a lungo senza arrivare a un accordo”. Finché c’è uno spazio, uno spiraglio, un’interstizio il compito è “contrattare”. Non accetta insomma l’idea che un sindacato debba darsi un limite oltre cui non si può andare, che ci possa essere una situazione in cui “non c’è niente da fare”, perché “così saremmo comunque subalterni alle scelte altrui”. E quindi, “se il segretario della Cisl viene qui a dire che su alcuni argomenti possiamo lavorare insieme, la Cgil deve dire sì”. L’esempio è quello dell’elezione delle Rsu nella scuola, bloccate pretestuosamente da due anni e ora “concesse” dalla Cisl.

Sa già che “il documento conclusivo sarà approvato a maggioranza”, ma con questo “il congresso dà un mandato chiaro al gruppo dirigente”, che si tradurrà anche sulle scelte relative alle strutture. Difende, infine, la scelta di introdurre in statuto una nuova regola che affida al solo direttivo confederale il compito di esprimersi su accordi tra sindacati diversi. E lo fa citando il caso in cui la Fiom votò contro una delibera già presa dal direttivo. Un passaggio non apprezzato da Gianni Rinaldini, che ricorda come l’emendamento anche da lui proposto il giorno prima avesse l’obiettivo di evitare il ripetersi di simili “incidenti”, chiedendo che “le categorie venissero sentite prima delle decisioni del direttivo”. Far passare una richiesta di consultazione preventiva per un diritto di disconoscere decisioni confederali “è intellettualmente non onesto”; “se quella regola non c’è mai stata nello statuto della Cgil, una ragione ci sarà pure”.

La mozione “la Cgil che vogliamo” al completo presenta una dichiarazione di voto contrario al documento finale. Le ragioni sono ribadite in modo sintetico. L’accordo separato del 22 gennaio 2009 “non è emendabile”, non è indicata una piattaforma che illustri quale “nuovo sistema contrattuale” vuole la Cgil; non sono indicati obiettivi chiari in merito di lotta alla precarietà (centralità del contratto a tempo indeterminato, riduzione delle forme di accesso al mercato del lavoro, ecc.), né la necessità di una legge che regoli democrazia e rappresentatività sindacale. Nel confuso finale degli ordini del giorno, ne passa poi anche uno con cui la Cgil chiede il “ritiro immediato delle truppe in Afghanistan”. Un sindacato grande, dove possono sempre accadere molte cose. (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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