Se fosse stata in vigore la legge 133, quella con cui si tagliano circa 8 miliardi di euro alla scuola italiana, facendo finta di riformarla, quanto sto per raccontare non sarebbe potuto succedere. Né sarebbe stato possibile raccontarla se all’epoca dei fatti fosse stata avanzata la sciagurata idea di separare in classi differenziate i bambini figli di genitori migranti in Italia.
Conservo ancora una copia de “Le braci” di Sàndor Màrai, che reca una dedica che ancora oggi mi provoca un certa emozione: “Un grande saluto e ringraziamento per averci fatto fare un salto nella creatività dei grandi. Le bambine e i bambini della 5° A. Roma, 17 Giugno 1999.”
I fatti andorono così. Proposi alle maestre della classe che frequentava mia figlia Elettra di far partecipare gli alunni a “Comunicare Roma”, un premio istituito dall’Unione Industriali per favorire la comunicazione a favore della Capitale.
Il tema di quell’anno era l’accoglienza, per via che si avvicinava il Giubileo del 2000: la città si preparava all’avvenimento con grandi lavori di rifacimento e ristrutturazione urbana.
La prima riunione con i bambini e le maestre avvenne un pomeriggio nella loro classe, al secondo piano della Scuola Elementare Emanuele Gianturco. Non era la prima volta che frequentavo la scuola durante l’orario delle lezioni: quei bambini facevano esercitazioni per la creazioni di un ipertesto su “La gabbianella e il gatto” di Sepùlveda, libro che avevo regalato un giorno a mia figlia davanti alla scuola e che le maestre adottarono come sussidio didattico. Un’altra volta avevo letto in classe alcuni piccoli racconti di uno scrittore marocchino, racconti sui bambini di Marrakesh, che avevo ricevuto tradotti in italiano via fax da un’amica, Wilma Labate che meditava di farne un film.
Raccontai ai bambini cosa bisognava fare per partecipare al concorso “Comunicare Roma” e soprattutto come bisognava farlo. L’ostacolo relativo ai requisiti del possesso della cittadinanza italiana e della maggiore età fu superato dalla decisione che avremmo iscritto i lavori a nome della maestra Italia.
Poi diedi il “brief”, come chiamiamo noi pubblicitari il racconto del problema, l’individuazione dell’oggetto della campagna e i mezzi da usare.
Chiesi ai bambini della 5°A: “ Quanti di voi sono nati in questa città?”. Si alzarono venticinque manine. Chiesi ancora: “Quanto di voi hanno i papà e le mamme che sono nati a Roma?”. Questa volta le manine alzate furono poco meno della metà dei presenti. Infine, chiesi: ”Chi di voi ha i nonni che sono nati a Roma?” Non si alzarono più di due o tre manine. Sorrisi, mentre la maestra Italia mi guardava un poco perplessa. Allora cercai di spiegarmi meglio. E dissi loro che era evidente, nella loro esperienza, che i loro nonni prima e alcuni dei loro genitori poi erano venuti a stabilirsi a Roma, per i più disparati motivi. Ma ciò che sembrava essere importante che in questa città si erano fermati, avevano messo su famiglia, avevano messo al mondo bambini, che oggi vivono e vanno a scuola a Roma. In definitiva, se per i bambini di quella classe Roma era la loro città natale, per alcuni dei loro parenti Roma era stata la città adottiva.
“Allora, che ne dite, bambini se il nostro slogan fosse, appunto, Roma città adottiva?”
Dopo una qualche esitazione, venticinque testoline fecero sì, mente la maestra scrisse “Roma città adottiva” sulla lavagna. La riunione di brief era finita, ci saremmo rivisti dopo qualche giorno per decidere quali idee realizzare.
Mi presentai con tre film presi a noleggio, proponendo l’utilizzo di uno spezzone di trenta secondi, tratto da “La marcia su Roma” di Dino Risi: Gasmann e Tognazzi, nei panni di due fascisti, cercano di convincere un militare a dar loro un poco del suo rancio. Quello non ci pensa nemmeno. Allora Gasmann, gli dice: “ ‘a milità, semo tutti de Roma.” E Tognazzi, tradendo le sue origini padane, rincara: “E sì, siamo tutti romani, mannaggia a li mortecci.”
Si decise di proseguire con la lavorazione di questo spezzone, al quale sarebbe stato montato in coda un cartello finale, che raffigurava la lupa che allatta i gemelli,simbolo della Capitale, uno dei quali sarebbe stato bianco, l’altro nero, recante la scritta “Roma città adottiva”. Infine decidemmo che avremmo potuto iscrivere al premio sia lo spot che il manifesto con la lupa e i gemelli, uno bianco e l’altro nero.
Nei giorni successivi, una bambina della classe registrò la frase finale presso la Cat Sound di Franco Agostini, che si prestò gratuitamente a incidere e fare i materiali utili al montaggio. Poi, grazie alle conoscenze della mamma di uno dei bambini, accompagnammo un gruppo di loro al montaggio in Avid, presso una casa di produzione cinematografica di Roma. Infine, con l’aiuto volontario di Andrea Bayer, art director, facemmo il fotomontaggio della lupa coi gemelli di colori diversi e presentammo alla 5° A il layout del manifesto.
Passarono alcune settimane e un giorno la giuria di “Comunicare Roma” comunicò alla maestra Italia che il lavoro era stato selezionato e la invitava a partecipare alla cerimonia di premiazione, che si sarebbe tenuta al Teatro dell’Opera di Roma.
La sera della premiazione il Teatro dell’Opera di Roma era gremito di pubblico e di autorità, mentre i tecnici della Rai manovravano le telecamere per la ripresa televisiva dell’evento. In una fila di poltroncine rosse, in fondo alla platea, venticinque bambini fremevano per conoscere l’esito della premiazione.
Fu proclamato il secondo premio della categoria spot e chiamata sul palco la maestra Italia. La quale ringraziò e disse che il merito era degli alunni della sua classe, che invitò a salire sul palcoscenico. I venticinque bambini, in fila indiana come topini, sgambettarono tra mille sguardi sorpresi verso il palcoscenico. Ci fu un poco di agitazione, poi esplose un fragoroso applauso. La conduttrice televisiva avvicinò il microfono a una bambina della classe, che disse, candidamente: “Io sono nata a Roma, mio padre e mia madre vengono dallo Sri Lanka. Questa è la città adottiva dei miei genitori e io sono stata accolta bene dai miei amici di scuola.” Venne giù il teatro. Alla fine la 5°A della Scuola elementare Emanuele Gianturco risultò vincitrice anche del secondo premio per il miglior manifesto.
Questa storia ha un epilogo che val la pena ricordare brevemente. Oltre che di attestati di benemerenza, i due secondi premi consistevano anche in due viaggi omaggio alle Maldive, messi a disposizione da uno degli sponsor della serata. I voucer furono ceduti a titolo gratuito dalla maestra a due coppie di genitori i quali fecero una donazione alla scuola, che fu utile a integrare il contributo scolastico per la gita di fine anno della 5°A, alla quale non tutti avrebbero potuto partecipare per via della quota di partecipazione. Poiché in questo modo le quote individuali si abbassarono notevolmente, tutti gli alunni della 5°A andarono in gita tre giorni in una località marina della costa laziale.
Oggi mia figlia Elettra ha vent’anni, della sua compagnetta di scuola i cui genitori migrarono dallo Sri Lanka non so nulla. Incontro invece il suo papà, che lavora in un famoso bar di piazza del Pantheon, a Roma. Ogni tanto mi capita di entrare e bere un caffè e quell’uomo ricambia il mio saluto con un lieve sorriso, come di una lunga e antica intesa.
Recentemente, il ministro dell’Istruzione ha dichiarato di non capire il motivo della protesta che in queste settimane scuote il mondo della scuola pubblica, dalle elementari alle università contro la sua legge di riforma. Non sono sicuro dica il vero. Sa che le dico, cara signora ministro: quando un prodotto non funziona, non c’è marketing che tenga. Beh, buona giornata.