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Shock ‘n roll.

 

La domanda pressante che ci stiamo rivolgendo in questi giorni è: che ne sarà di noi, durante, ma soprattutto dopo la più shoccante crisi  mai conosciuta dalle economie occidentali? Come al solito in Italia il dibattito è stato finora gestito male. La crisi finanziaria che ha fatto crollare tutti i mercati è stata trattata dai media alla stessa stregua del delitto di Cogne. Sulle poltroncine dei talk show televisivi, economisti di varia caratura hanno preso il posto dei criminologi che ci volevano spiegare i misteri della mente di una donna accusata di infanticidio. Come se si trattasse di colpevolisti o innocentisti, abbiamo sentito pronunciare condanne o assoluzioni del sistema capitalistico globale. In queste ore sembra prevalere la linea “garantista”:  il sistema è sano, e solo colpa di qualche “avido” banchiere, non cambiate banca, rimanete con noi. Temo, come temono milioni di risparmiatori, che le cose siano un bel po’ diverse da come vorrebbero apparire, credo anzi che gli effetti della crisi finanziaria impatteranno violentemente sull’economia reale, quella fatta dalla produzione di merci, dalla loro commercializzazione, quella dalla quale si ricavano redditi per le aziende e stipendi per gli addetti, quella che produce consumi e risparmi per le famiglie. Non si tratta di essere catastrofisti: qui la fantasia ha di gran lunga superato la fantasia. Siamo in presenza di una crisi che costerà, secondo le stime del FMI, mille e quattrocento miliardi di dollari; siamo in presenza di un effetto domino che ha attraversato l’intera rete globale dei mercati, che ha messo in discussione la tenuta dei mercati nazionali, che sta mettendo in discussione lo stile di vita attuale e futuro di milioni di famiglie nei cinque continenti.

Ad uso e consumo dell’immaginazione dei telespettatori è stato spesso invocato lo spettro della Crisi del ’29 negli Stati Uniti, dalla quale si uscì con la nascita del New Deal, varato da Roosevelt, teorizzato da Keynes e che è passato alla storia con l’esperienza del Welfare, lo stato sociale. Il fatto è che quello shock finanziario non solo ridusse sul lastrico milioni di famiglie americane, scaraventandole nella povertà, ma produsse in Europa la nascita di regimi totalitari, nonché lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, la più bestiale opera di distruzione di massa, che si concluse con il bilancio di 25 milioni di morti. Noi in Italia lo stato sociale lo conoscemmo solo a partire del ‘45, anno in cui fini la guerra, fu sconfitto il Fascismo, e nacque la nostra democrazia. Dal quel momento, si sono alternati periodi di straordinaria crescita e momenti di crisi profonde, tanto che è difficile dire se lo sviluppo della nostra economia di mercato sia stato una continua crescita, intervallata da momenti di depressione ciclica, o il suo esatto contrario, cioè la continua distruzione di regole, norme, canoni, intervallata da momenti di serenità economica. Fatto sta che le classi sociali medie, che dalla fine della Seconda Guerra Mondiale avevano via via ingrossato lo sterminato esercito dei consumatori di beni e servizi, a cavallo tra la fine del ‘900 e l’inizio del XXI secolo sono entrate in una spirale di sofferenza. La globalizzazione dell’economia con l’ingresso sulla scena mondiale delle potenze asiatiche ha turbato i mercati, ha condizionato la produzione di beni e la distribuzione delle merci, ha spaventato i consumatori.  L’insicurezza “percepita” è diventata reale con la crisi energetica degli ultimi mesi: l’inflazione ha ripreso a salire, erodendo i redditi, deprimendo la propensione alla spesa. E infine, eccoci allo tsunami odierno.

Chi ha ascoltato attentamente le parole di Barak Obama alla Convention democratica di Denver non può che essere rimasto profondamente colpito dal passaggio del suo speech in cui ha apertamente dichiarato la crisi che vivono i ceti medi americani: perdita del lavoro, perdita materiale della casa, fagocitata dall’impossibilità di onorare i mutui, addirittura l’abbandono delle auto nuove, per via dei costi parossistici del carburante.  E dire che non era ancora esplosa in tutta la sua virulenza la crisi, che ha provocato il fallimento a catena di molte banche americane, il tonfo storico di Wall Street e la conseguente caduta di tutte le Borse del mondo. Come nella famosa “Teoria del Caos”, quella che mette in relazione il battito d’ala di una farfalla con il tifone che devasta da un’altra parte del mondo, è successo molto semplicemente che almeno dieci milioni di famiglie americane si sono accorte che, crollando il mercato immobiliare, il valore della casa stava diventando di gran lunga inferiore al costo del mutuo acceso per acquistarla e ha semplicemente smesso di pagare le rate. Ma siccome quei mutui erano nel frattempo diventati prodotti finanziari, i famosi subprime, venduti sul mercato globale,  l’insolvenza delle rate, proditoriamente inserite nei titoli di tutto il mondo, come pezzetti di carne marcia in una salsiccia apparentemente sana ha avvelenato il mercato e  provocato il crollo dei valori di Borsa.

 

Adesso, non è che si possa rovesciare la “Teoria del Caos”, sperando che il tifone che ha investito gli Usa provochi da noi un semplice battito di ali di una farfalla.

E’vero che la crisi che ha investito l’economia americana ha insistito su una struttura sociale che è andata via via prima teorizzando, poi mettendo in pratica la quasi completa disarticolazione dello stato sociale. Alla progressiva polverizzazione delle regole dei mercati è corrisposta l’eliminazione dei pilastri del Welfare: quell’assioma che è andato sotto il titolo “Meno Stato, più mercato”.

 

E’ vero, altresì che l’Europa e quindi l’ Italia hanno ancora una rete di protezione sociale delle fasce più deboli della società. E che, nonostante tutti i tentativi di disarticolare la stato sociale, alcuni dei quali andati a segno, è proprio questa rete che tiene insieme le barriere alla crisi finanziaria di questi giorni.

 

Cionondimeno, l’impatto c’è stato e gli effetti si vedranno per un periodo per niente breve. Ha detto Alessandro Profumo, in un’intervista a cuore aperto, raccolta da Massimo Giannini e pubblicata su La Repubblica dello scorso  martedì 7 Ottobre:

“ (La crisi) riguarda tutti noi banchieri. Siamo chiamati a un profondo esame di coscienza. Oggi abbiamo un incredibile problema di reputazione. Dobbiamo farci i conti e capire come fare a non essere più criminalizzati dall’opinione pubblica. Solo così usciremo in positivo da questa crisi.”

 

Mi pare che i problemi che abbiamo di fronte siano sostanzialmente di due ordini: il primo, sul lungo periodo è quale modello di capitalismo possa essere immaginato, dopo le macerie della crisi attuale. In sostanza , si tratta di capire se le teorie “neoliberiste” abbiano trovato la loro fine, dopo vent’anni di “meno Stato, più mercato.” Il secondo ordine di problemi è invece urgente, impellente, immediato: si chiama fiducia. Nessuno dei due può essere affrontato senza tenere conto dell’altro.

 

Senza fiducia, appare incomprensibile capire perché lo Stato debba intervenire per “salvare” le banche, quando in questi anni non è voluto intervenire per “salvare” i cittadini dalla privatizzazione di servizi essenziali, dalla sanità all’acqua; per “salvare” salari e stipendi, per “salvare” la propensione al consumo. Senza fiducia,  la stessa pubblicità crepa d’inedia, come ha dimostrato Enrico Finzi qualche giorno fa. Intervenendo al Consumer &Retail Summit, promosso dal Sole 24 Ore, Finzi ha detto:”Siamo di fronte a un grande fallimento collettivo, tutti noi che operiamo nella comunicazione abbiamo lavorato per costruire qualcosa che ora è crollato”.

 

D’altra parte, senza la presenza dello Stato nei gangli vitali della vita e dell’economia, non si capirebbe come alimentare la fiducia nei cittadini e nei consumatori. Questo intervento non può limitarsi ad essere “d’emergenza”, per tamponare le crisi provocate dalla new economy dieci anni fa, passando dallo shock petrolifero dei mesi scorsi, fino alla crisi dei mutui di oggi, e chi sa da quale altre diavoleria in un prossimo futuro.

Dice Naomi Klain in “Shock economy” (Rizzoli, 2007), libro che sembra essere stato premonitore della crisi attuale: “E’ assolutamente possibile, certo, avere un’economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell’economia, come una compagnia petrolifera pubblica, saldamente in mano statale. E’ parimenti possibile richiedere che le grandi aziende paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi tassino e  ridistribuiscano la ricchezza, cosi che le aspre diseguaglianze che affliggono lo Stato corporativo siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.”

 

Antonio Negri, intervenendo a Parigi a “L’infedele”, trasmissione condotta da Gad Lerner su La 7, ha detto che è troppo presto capire la sorte del neoliberismo, ma è al contempo assolutamente necessario comprendere come il capitalismo finanziario abbia operato un vero e proprio sfruttamento sui  risparmi di  milioni di famiglie e individui, uno sfruttamento paragonabile a quello operato dal capitalismo reale sugli operai e i lavoratori nel 900.  Dopo il crollo del Comunismo è arrivato il crollo del Consumismo? Come a volergli fare eco, Zygmunt  Bauman, sulle pagine del quotidiano La Repubblica dell’8 ottobre scorso, scrive: “Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni, anni di apparente prosperità senza precedenti, del 22 per cento. L’ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15 per cento. E, cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione è raddoppiato. L’insegnamento dell’arte di “vivere indebitati” per sempre è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali.”

 

Dal che si può facilmente evincere come la fiducia riposta nelle istituzioni bancarie e nei suoi prodotti finanziari siano state la spinta propulsiva che ha incalzato il capitalismo finanziario dove finora non aveva osato, quell’indebitamento di massa che è stata poi la causa stessa della crisi di fiducia e del crack epocale. Tradita, frustrata e sfruttata può la fiducia essere di nuovo in grado di portarci fuori dalla crisi, come molti oggi vorrebbero?

 

Nella intervista già citata, Alessandro  Profumo dice: “ Molti mi prendono in giro perché parlo di creazione di valore e non di profitto. Ma c’è un motivo, che oggi rivendico. Per me creazione di valore significa profitto sostenibile nel tempo, che a sua volta significa legittimazione sociale rispetto ai tre soggetti di cui parlavo prima, cioè clienti, dipendenti e azionisti. Creare valore significa rispondere al meglio a tutti questi tre soggetti. Non mi sembra affatto un concetto demodè. Anzi, oggi mi sembra ancora più attuale.” La cifra di questa intervista è l’autocritica dell’ad dell’istituto bancario italiano, più colpito dalla crisi dei mutui, per aver sottovalutato l’imminente avvento della crisi globale. Alla quale autocritica mi permetto di suggerire anche un ripensamento sulla comunicazione commerciale, sulla pubblicità: perché non esplicitare apertamente, fin da subito, fin dalla fusione delle banche che diedero vita a Unicredit l’idea della creazione di valore, invece che nascondersi dietro la foglia di fico di quel “puoi contarci”, che, alla luce degli avvenimenti odierni, suona come un motto di spirito beffardo e autolesionistico?

 

Ma torniamo sul terreno della fiducia. Nel già citato intervento su La Repubblica, Bauman dice: “Il pianeta bancario è a corto di terre vergini, avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile. La reazione finora per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria, per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita: il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, di indebitarsi e mantenersi indebitato potrebbe tornare alla “normalità”. Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina, dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega,  per evitare invidiosi paragoni.”

 

Se il cittadino è diventato un consumatore di prodotti finanziari, in grado di finanziare i consumi, un posto d’onore nel ragionamento sulla fiducia se lo è conquistato la pubblicità. C’era una volta una grande marca di automobile europea che sotto il marchio scriveva “c’è da fidarsi.” Famosa è quella marca italiana di prodotti caseari che “vuol dire fiducia”.  

 

Che ne è della fiducia stimolata dalla pubblicità italiana ce lo ha detto Enrico Finzi, che ha anche presentato dati terrificanti al Consumer &Retail Summit, promosso dal Sole 24 Ore. E’ una catastrofe, dice Finzi senza mezzi termini. Un lento ma inesorabile declino che parte da lontano: se nel 1992 infatti la percentuale di quanti dichiaravano di fidarsi delle marche dei produttori era del 76%, e nel 1998 ha toccato il 78%, già nel 2003 questa percentuale era scesa al 52% e oggi è ferma al 41%. L’affermazione “le marche sono innovazione” era condivisa dal 57% della popolazione nel 2003, dal 46% nel 2008. “Diverse marche mi sono care, quasi amiche”: lo diceva il 68% nel 1992, il 49% nel 2003, ma nel 2008 il 40%.

 

Secondo Finzi, un motivo della disaffezione alle marche potrebbe essere rappresentato dalla scarsa differenziazione dei prodotti. Infatti, se nel 1992 concordava con l’affermazione “molti prodotti di marca sono uguali a quelli non di marca” il 28% degli intervistati, nel 2003 tale percentuale è salita al 43% per balzare oggi al 56%. Di contro, “preferisco prodotti di marca” era vero per il 60% degli intervistati nel 1992, ma appena per il 36% oggi.

Dice Finzi, rincarando la dose:”C’è anche un problema di comunicazione, i nostri copy test mostrano che non ci sono punte creative e che il voto medio assegnato alla pubblicità è inferiore al 6: insomma la pubblicità italiana, compresa quella online, è considerata sotto la sufficienza. “. Questo è il quadro della situazione, all’epoca “dell’orgia dell’offerta”. Di fronte al fatto incontrovertibile che le marche  hanno perduto la loro “capacità felicitante”, per Finzi  l’alternativa è riscoprire “un approccio laico e non idoleggiante”.

E’ bene tener presente che questi dati sono stati presentati in concomitanza con l’attuale crisi dei mutui, ma le rilevazioni sono molto probabilmente antecedenti i gravi fatti degli ultimi giorni, il che può autorizzare a pensare che la situazione sia ben peggiore. Anche perché questa terribile crisi di fiducia nelle marche, dunque nella pubblicità, arriva in un momento molto critico per l’advertising italiano. La grave crisi dei mutui arriva in un momento in cui si era già registrato un pesante arretramento.

Recentemente, ma prima della attuale crisi finanziaria che ha investito le Borse, il presidente di Upa, l’associazione che racchiude i “clienti” italiani ha reso noto che il saldo di fine 2008 si attesterebbe intorno a una crescita dell’0,1%, ma che, a fronte del combinato disposto con l’inflazione  al 3,8%, il vero risultato del comparto pubblicità alla fine di quest’anno avrebbe più di due punti in negativo. Secondo queste stime, la ripresa si appaleserebbe solo alla fine del 2009. Campa cavallo: il presidente del consiglio ha detto di stare tranquilli, che la crisi dei mutui si risolverà in 18 o 24 mesi. Se ne parla fra un paio d’anni. Comunque,  questi dati sono gli stessi resi noti da Assocomunicazione, l’associazione che racchiude le agenzie di pubblicità.

Ecco un caso lampante in cui si vede la crisi profonda della fiducia: il consumatore perde fiducia nelle marche, che perdono fiducia nelle agenzie di pubblicità, che perdono fiducia nella creatività.  Personalmente, sono sempre più convinto che molti clienti italiani della pubblicità sostengono che tutto sommato non c’è più una sostanziale differenza tra un’agenzia e l’altra. Per questo non è raro vedere un budget passare di mano, continuando la stessa creatività, la stessa pianificazione media, ma molto probabilmente venir remunerata con una percentuale più bassa. O vedere gare-ammucchiata, in cui mettere in competizione lo sconto, invece che l’idea di marketing, l’intuizione creativa, la soluzione brillante alle problematiche del cliente e del suo mercato. Le difficoltà finanziarie delle agenzie di pubblicità sembrerebbero in realtà l’ultima spiaggia di un arretramento culturale, organizzativo, pedagogico, culturale, sempre più spesso etico. La crisi dell’agenzia  di pubblicità sembra una crisi strutturale, più che congiunturale. 

 

La forma-agenzia sembra  non corrispondere più alla realtà . Sembrerebbe che mentre l’Agenzia vive  il Cliente come un problema di redditività, il Cliente chiede, anche inconsapevolmente,  un  sistema integrato di informazione e di comunicazione, cui corrisponda un mondo di riferimento dai connotati ben definiti, permeabile all’innovazione, con una sostanziale e sostanziosa autorevolezza, in gran parte già proiettata nel futuro prossimo. Siamo alla creazione del valore, e non semplicemente del profitto, così come l’ha descritta Alessandro Profumo.

 

Che cos’è  la fiducia in pubblicità ce lo dice Pirella: “La pubblicità deve essere tangibile, criticabile, condivisibile. Un prodotto andrebbe scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.” (cfr pag.111, del mio “Il Naso Fuori”, Editrice ADC, Milano, 2004). La qual cosa mi pare faccia il paio con quanto affermato recentemente da Enrico Finzi : “un approccio laico e non idoleggiante.”

 

Occuparsi della fiducia significa che la pubblicità italiana deve sapersi dotare di una diversa, nuova e più efficace capacità organizzativa, per dare vita a quella che in altra sede ho definito “l’agenzia di nuova generazione”: convergenza e integrazione di talento e capacità, di saperi e di strumenti, un vero e proprio contents provider, che a partire dal web costruisca piattaforme di comunicazione commerciale, usando tutti i veicoli, per dare vita a relazioni stabili e durature tra marca e consumatore.

Le marche italiane, fra le quali le banche, hanno la necessità vitale di risalire il più velocemente ed efficacemente possibile la china della fiducia dei loro rispettivi mercati. E’ l’ultimo appello per la pubblicità italiana. Non ha più alibi né paracadute. E’ la dura legge dello “shock’n roll. Beh, buona giornata.

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

2 risposte su “Shock ‘n roll.”

Wow quanti stimoli! sono troppi da ingoiare in un boccone solo.
Provo a morsicarne via qualche pezzettino a casaccio.
Chissà se Profumo, quando faceva la distinzione tra valore e profitto sapeva già della polpetta avvelenata che la fusione con Capitalia avrebbe inquinato i suoi conti, cosa che sta scontando in questi giorni.
Mi appassiona di più il dibattito sulla fiducia e e sulla filiera della comunicazione.
Chi l’ha detto che c’è una crisi di fiducia nelle agenzie? ieri sono stato alla Consulta della Pubblicità di Assocomunicazione e sembrava di essere ad una riunione nostalgica dell’ancien regime. con una più che motivata nostalgia degli anni 80, quando il mercato cresceva di due cifre e il ricco sistema dei compensi a commissione, consentiva profitti da capogiro, ma ben più grave, nascondeva le magagne delle agenzie: “Caro Cliente, non sei contento? Ti dò un altro account.” Adesso tutti lamentano la crisi di fiducia (questa sì) dei committenti, che tendono a trattare le agenzie come fornitori. Mi spiace solo che in questo contesto sia stato fatto il nome di Pirella, come quello dell’unico che potrebbe salvare la Patria. Emanuele non sarà un mostro di modernità, ma non ce lo vedo proprio ad interpretare il ruolo della diga contro il nuovo che avanza. Come tu hai saggamente definito, il consumatore oggi ha bisogno di più: un mix di informazione (magari da scambiare con suoi pari al di fuori del sitema codificato), di fascino, che può trarre da uno stimolo creativo che arrricchisca la sua base di esperienza relativa a quella marca. Solo che è diventato molto laico: la sua esperienza la vive dove vuole e dove può, non più solo davanti all’altarino domestico identificato nella televisione. Il modello in realtà cìè gia e non è un’utopia. Solo che quando lo vedi messo in pratica in altri paesi, ti viene male pensare quanto lontani siamo noi agenzie ed i Sigg. Clienti. Anche qui le multinazionali (intese come aziende) giocheranno un ruolo di traino all’emulazione delle altre aziende, che stanno già cominciando a muoversi disordinatamente, scimmiottando terminologie orecchiate da qualche guru oltreoceano, me che se trovassero l’agenzia che li aiutasse a mettere ordine nei loro pensieri, sarebbero forse disposti a riportarla al rango di partner privilegiato.

Non è facile commentare questo post. Anzi, c’è poco da commentare, c’è solo da augurarsi una sua circolazione capillare non solo nel web, ma anche tra i principali organi di stampa, grandi quotidiani nazionali compresi. È un post-editoriale, infatti, che scattando un’impietosa e realistica istantanea, riesce magistralmente a far emergere insieme sia lo sfondo che gli elementi più inquietanti che su di esso si staccano.

Mai, fino ad oggi, il liberismo politico ed economico aveva registrato una così massiccia convergenza delle forze politiche mondiali sui propri fini. La sinistra istituzionale internazionale abbassa ogni precedente barriera ideologica, abbassando al contempo ogni altra paratia critica e culturale, buttandosi a capofitto nel liberismo, ma mantenendo quella attitudine dirigista, attraverso la quale presuntuosamente si illude di governare al meglio il suo impetuoso andamento.

Quando questo avviene, però, il serpente liberista non è più da tempo lo stesso. La sinistra istituzionale mondiale vede solo la vecchia pelle che il rettile ha lasciato tra i ciuffi d’erba e la scambia per il serpente reale.

Il liberismo classico è quello che si studia sui manuali studenteschi di economia. Le banche raccolgono il risparmio delle famiglie, prestano i soldi alle aziende, che li investono liberamente in un regime di concorrenza per produrre merci e servizi, che ritornano sotto forma di consumi alle famiglie. Inoltre, le aziende stesse ricorrono al prestito diretto attraverso l’emissione di quote azionarie o altri istituti finanziari, per potenziare i propri impianti e le qualità tecnologica insita nelle proprie merci. Questo era approssimativamente il cosiddetto “ciclo economico”, con i suoi alti e bassi di carattere congiunturale o strutturale. Approssimativamente, perché le deroghe di tipo statalista e antiliberista sono state frequenti, soprattutto nel nostro paese, ad opera di una sacra unione tra liberisti e sinistra istituzionale. Su questa base si strutturava il PIL, Prodotto Interno Lordo, “interno”, perché calcolato al netto della bilancia importazioni-esportazioni.

La pretesa di alcuni nostri imprenditori di tornare alla classicità di questo ciclo, e di separare le proprie responsabilità da quelle dei funamboli della finanza appare altrettanto patetica e ridicola che l’adesione acritica della sinistra istituzionale mondiale al liberismo.

Il denaro, inteso come una merce al pari delle altri merci prodotte, con un suo costo specifico accanto a quello delle altri merci, è andato assumendo un’importanza sempre più preponderante. Se prima serviva a finanziare gli investimenti per la realizzazione di impianti industriali, l’acquisto sul mercato di materie prime e semilavorati, e la regolazione del suo flusso era finalizzata al controllo dell’inflazione reale e del suo costo bancario, ora il denaro è diventata la merce per eccellenza, quella in grado di moltiplicarsi per pura astrazione dal concreto prodotto manifatturiero. Anche la scala è completamente inedita. Non è più quella dei telefoni e delle telescriventi che correva sempre in ritardo dietro l’andamento dei titoli, ma quella della rete telematica che corre davanti, anticipa, determina essa l’andamento del mercato.

Ma lo stesso termine “mercato” non è in realtà più adeguato. Esso è legato all’idea di una “concorrenza” più o meno strutturata tra vari produttori e merci. Ma la scala puramente potenziale, e non necessariamente reale, determinata dal potenziamento assoluto dei mezzi di comunicazione, somiglia più a una sterminata prateria vergine, da conquistare con una selvaggia corsa in cui la regola principale è: non ci sono regole, ogni colpo è ammesso, al bando l’etica, la morale e qualsiasi altro vecchio arnese legislativo, normativo e di controllo.

Se prima uno dei fini principale del capitalismo era quello di sfilare i soldi dalle tasche dei fessi, determinando e rispettando al contempo i privilegi solidificati di una aristocrazia capitalistica mondiale, ora non si guarda più in faccia nessuno. La conquista è conquista. Più veloce corre il mio carro e più fuoco vomitano le mie pistole finanziarie , più territori nuovi da recintare e sfruttare mi accaparro a danno degli altri. Siamo giunti così in un’epoca in cui è il capitale a farsi male da solo.

Non so allora su quale base le banche oggi potrebbero chiedere e ottenere di nuovo fiducia: raccogliere e prestare soldi per fare cosa che non sia un’altra spietata guerra di sterminio finanziario? Un pubblicitario sarebbe in grado di spiegarlo?

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