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In Italia la matematica è una pessima opinione.

L’Istat, Bankitalia e il balletto sui numeri dei disoccupa
Apprendisti e stregoni al lavorodi Roberta Carlini, da robertacarlini.it

Mediamente, andiamo abbastanza male in matematica, e i più seri esperti di formazione si preoccupano di questa lacuna della nostra scuola. Ma di qui a ignorare del tutto i numeri, come se fossero inconoscibili entità, anche quando si tratta di fare solo addizioni e sottrazioni, ce ne corre. Eppure, ogni volta che nel nostro dibattito politico spunta un numero, se ne parla così: Tizio dice che quel numero è X, Caio dice che è Y, scontro tra Tizio e Caio. Come se non fosse possibile risalire alla verità – oppure, spiegare le diverse ipotesi che sono alla base delle due verità – e capire se è Tizio o se è Caio che sta dicendo una colossale balla.

Il siparietto si ripete ogni volta che qualcuno si azzarda a dare i dati sul lavoro. Evidentemente, anche se da tempo i lavoratori sono trascurati da destra e da sinistra – sostituiti dalle più appetite categorie dei consumatori, risparmiatori, utenti, o ancora padani, imprenditori o altro -, la questione brucia. E brucia soprattutto in tempi di crisi. L’Istat, che con una sua indagine fa la rilevazione dello stato delle cose, si è trovato abbastanza in difficoltà quando, qualche mese fa, il governo ha ridicolizzato il modo in cui quell’indagine si fa – metodo statistico, che segue standard internazionali. Poi ha appaltato all’esterno la rete dei lavoratori – per lo più giovani, precari come tutti – che fanno le domande sulla cui base si stila l’indagine. La cosa ha preoccupato molti, e ha fatto conoscere a tutti il paradosso dei precari che vanno in giro a fare domande sulla altrui precarietà. Ma – assicura il presidente dell’Istat, economista stimato a livello internazionale – tutto ciò non mette in discussione la serietà e la attendibilità dei dati. Che, da un po’, vengono forniti mensilmente anziché trimestralmente. L’ultimo bollettino parla di una disoccupazione all’8,3%. Su questi dati poi altri economisti e altri statistici fanno ricerche, analisi, ragionamenti. E gli ultimi ragionamenti hanno dato luogo all’ultimo siparietto: la disoccupazione “vera”, ha detto la Banca d’Italia, è sopra il 10%. “Dati scorretti”, ha detto il governo, e hanno riportato le tv e i giornali. Senza preoccuparsi di dare al pubblico – evidentemente considerato troppo ignorante per care qualche operazione aritmetica – elementi in più per capirci qualcosa. Così, sembra che tra il ministro dell’Economia e il governatore della Banca d’Italia si sia svolto l’ennesimo battibecco da chiacchiera politica, uno scontro da salotto tv. Mentre si parla di cose cruciali: quante persone sono senza lavoro in Italia? Quante senza alcun reddito? Come vivranno quest’anno, l’anno prossimo? Come metteranno insieme il pranzo con la cena?

A chiunque si guardi intorno e non guardi solo le reti Rai e Mediaset (dove, ci avverte Ilvo Diamanti, alla disoccupazione si dedica solo il 7% delle notizie, limitando la nozione di “notizie” a quelle che evidenziano fatti gravi e contesti critici, insomma escludendo i servizi sulle mostre canine e simili), risulta chiaro che le persone che intorno a noi perdono il lavoro, o ne vedono ridimensionate le ore, o il salario, aumentano ogni giorno. I precari intervistatori dell’Istat registrano infatti ogni mese un nuovo record, fino ad arrivare all’ultimo: 8,3% di disoccupati ufficiali. Cosa significa? Secondo gli standard internazionali, sono “disoccupate” le persone che sono in età da lavoro, che non hanno un lavoro (non l’hanno mai avuto, o l’hanno perso), e che hanno cercato attivamente lavoro nel mese precedente l’intervista con l’Istat. Se uno, in quel momento, non sta lavorando perché è in cassa integrazione, oppure è a casa ma l’ultima ricerca di lavoro l’ha fatta oltre un mese prima dell’intervista, non rientra ufficialmente tra i disoccupati. Pur in questa definizione alquanto ristretta, il tasso di disoccupazione è crescente e preoccupante. Ma cosa succederebbe, si è chiesta la Banca d’Italia, se aggiungessimo anche i lavoratori in cassa integrazione e quelli che potrebbero tornare a lavorare ma non cercano neanche più lavoro (in molti casi non perché non ne hanno bisogno, ma perché sono scoraggiati, pensano che è inutile cercare tanto non si trova lavoro)? Aggiungendo – addizione, operazione non difficile – i lavoratori in cassa integrazione e i lavoratori “scoraggiati”, nel novero dei disoccupati abbiamo ben 800.000 persone in più: il numero dei disoccupati sale a 2.600.000, e il tasso di disoccupazione oltre il 10%.

A questo punto, la valutazione si fa più facile: non esistono dati corretti e dati scorretti – in questo caso – ma dati che tengono conto di alcune variabili e dati che non ne tengono conto. Chi pensa che non valga la pena contare le decine (forse centinaia) di migliaia di uomini e donne che non cercano lavoro perché scoraggiati e scoraggiate, e che non valga neanche la pena di contare i cassintegrati perché tanto appena la Cig finirà torneranno al lavoro e troveranno il loro posto lì ad attenderli – chi la pensa così può attenersi al dato ristretto sulla disoccupazione, che comunque non è confortante. Chi invece pensa che quell’esercito di persone comunque appartiene alla fascia problematica della società, perché è (o presto sarà) senza un reddito, darà ragione alla Banca d’Italia nel suo tentativo di illuminare a giorno la situazione dell’occupazione in Italia. Operazioni e convinzioni legittime – c’è stato perfino qualcuno, nella scienza economica, che si è inventato il concetto di “disoccupato volontario”, dunque tutto è possibile nella teoria. Quel che non è possibile, nella pratica, è cercare di oscurare con la confusione sui numeri la realtà. Fatta di molti occupati in meno, uomini e donne. Persone che hanno perso il lavoro: prima i più precari, i collaboratori; poi quelli con i contratti temporanei non rinnovati; poi i lavoratori a tempo indeterminato, che per la prima volta dal ‘99 scendono numericamente (meno 0,7%, 110.000 posti in meno, tra il terzo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2009).

Di tutti costoro, solo pochi hanno avuto, e hanno, la protezione della cassa integrazione. Moltissimi invece non hanno avuto alcuna copertura a compensazione del salario perso. Il che spiega anche la dinamica del reddito e dei consumi nell’anno appena trascorso: le famiglie hanno comprato di meno (-2,1% la riduzione degli acquisti, nonostante un effetto-droga degli incentivi per le auto), il reddito disponibile è sceso dell’1,5%. Ovviamente ne segue un effetto a catena negativo: le imprese che vendono le loro merci in Italia, di fronte a questa situazione, prevedono il peggio, non investono e (ben che vada) non assumono. E la famosa ripresa si allontana.

Ecco perché i numeri – e i balletti sui numeri – non sono innocenti. Forse se si riconoscesse la profondità del problema, si sarebbe anche portati a muovere qualcosa, nelle leve della finanza pubblica, per avviarsi verso qualche soluzione. A dire il vero, il ministro dell’economia si è spinto fino a dire che la sola forma di deficit pubblico “moralmente accettabile” riguarda quel che si deve pagare ai lavoratori per la cassa integrazione: cioè, se si dovrà sforare per sostenere questi lavoratori, lo faremo, pare aver detto Tremonti. Ma andiamo a guardare quel che ha appena fatto, nell’anno che si è chiuso: l’Italia (il suo bilancio pubblico) ha già sforato, lo Stato è andato in rosso per il 5,6% del Pil. Rispetto al 2008, nel 2009 si sono avuti 31 miliardi di deficit in più. Ma non per la cassa integrazione e il sostegno ai lavoratori. Quasi tutto il maggior deficit è stato infatti dovuto a un effetto spontaneo del ciclo economico: la riduzione delle entrate tributarie, dovuta alla riduzione della produzione. Meno spontaneo, e forse indotto da un certo clima di tolleranza che si è diffuso nell’imminenza dell’arrivo del condono per i capitali illegali all’estero, è stato il modo in cui si è ripartita questa riduzione delle entrate fiscali: scese per tutti i settori, tranne che per l’imposta sui redditi da lavoro dipendente. Mentre in alcuni settori il gettito si riduceva molto di più di quanto fosse giustificato dalla crisi economica, le ritenute d’acconto sul lavoro dipendente restavano stabili. Inoltre, pur tuonando contro le banche e inneggiando a Robin Hood, Tremonti ha dato alle banche una delle poche spese discrezionali in più decise l’anno scorso, 4,1 miliardi per sostenerle nella crisi sottoscrivendo le loro obbligazioni.

Dunque il deficit pubblico è già salito nel 2009, ma non solo (e non prevalentemente) per aiutare i senza-lavoro. Per i quali il 2010, apertosi all’insegna del balletto sui numeri, non preannuncia per ora grandi novità: se non il fatto che, purtroppo, per molte lavoratrici e lavoratori il passaggio dalla cassa integrazione alla disoccupazione sarà ufficiale. (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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