Quando i migranti eravamo noi: “I nostri morti gettati nell’oceano”di GIULIA VOLA-Repubblica.
Loro muoiono nel Mediterraneo. Quando gli emigrati eravamo noi, morivamo nell’Atlantico. “Buttarono nell’Oceano donne, un bambino e molti vecchi, in tutto quasi venti persone. Così raccontava mio padre”. Maria Dominga Ferrero vive in provincia di Cordoba, in Argentina, nella casa che suo padre comprò quando, nel 1888, arrivò alla “Merica” a bordo del ‘Matteo Bruzzo’. Una casa con i muri bianchi, la cucina grande, le stanze ariose e l’orto nel retro. “In barca gli dicevano ‘coma esto, gringo de mierda’, mangia questo. Era pane e vermi. Vide morire di fame una donna incinta. Ma cosa poteva fare?”.
Maria parla un po’ in piemontese e un po’ in castigliano, mentre gira la minestra di verdure che bolle sul fuoco. “La solfa era la stessa. La differenza era che se sopportavi il male potevi fare suerte, fortuna. Non come capita agli immigrati che oggi vanno in Italia. A l’è vera? Non è vero?”. La domanda rimane sospesa, Maria apre i cassetti, cerca ricordi. “Mio padre – dice – all’inizio vendeva la verdura che coltivava ma nessuno capiva la sua lingua. Così vendeva tutto a 5 centesimi”.
Loro, i sopravvissuti di oggi, vengono rinchiusi nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione. Noi finivamo negli Alberghi degli immigrati gestiti dallo Stato o nei Conventilli in mano ai privati. Felicia Cardano è molto anziana, ma ricorda bene i racconti di famiglia: “Mio padre arrivò a Buenos Aires nel 1889 a bordo del ‘Frisca’. Durante il viaggio morirono il suo migliore amico e altre trenta persone. Lo misero all’Hotel della Rotonda, un enorme baraccone di legno, dove si stava stipati come sardine insieme ai pidocchi e alla puzza. Si poteva rimanere al massimo cinque giorni, il tempo di trovare un lavoro in città o nei campi, dove era più facile”.
Scenari confermati da Luigi Barzini che così scriveva sul Corriere della Sera nel 1902: “L’Hotel degli emigranti (lo chiamano Hotel!) ha una forma strana, sembra un gasometro munito di finestre (…). L’acre odore dell’acido fenico non riesce a vincere il tanfo nauseante che viene dal pavimento viscido e sporco, che esala dalle vecchie pareti di legno, che è alitato dalle porte aperte; un odore d’umanità accatastata, di miseria (…). Più in alto, le tavole serbano dei segni più vivi di questo doloroso passaggio: li direi le tracce delle anime. Sono nomi, date, frasi d’amore, imprecazioni, ricordi, oscenità raspati sulla vernice o segnati colla matita, talvolta intagliati nel legno. Il disegno più ripetuto è la nave; il loro pensiero guarda indietro!”.
Gli stessi graffiti ricoprono adesso le pareti dei Cie, memoria recente del transito dei migranti di oggi, stranieri di tutto il mondo, che lavorano nei cantieri, nei campi, nelle cucine dei ristoranti, nelle case, invadono i quartieri, contaminando le loro e le nostre abitudini. Noi, i “gringos” di allora, invadevamo “le passeggiate perché sono gratuite, le chiese perché credenti devoti e mansueti, gli ospedali, i teatri, gli asili, i circoli e i mercati”: così scriveva infastidito all’inizio del secolo il sociologo argentino Ramos Mejía.
Numeri alla mano, dal 1886 al 1889 gli emigrati partiti da Genova e sbarcati a Buenos Aires raddoppiarono da 43mila a 88mila. Nel 1897 nel porto argentino erano già sbarcati un milione di italiani. Nel 1895, su 660mila abitanti di Buenos Aires, 225mila erano dei nostri. In provincia di Cordoba i 4.600 del 1869 diventarono 240mila nel 1914. Muratori, fabbri, falegnami, calzolai, sarti, fornaciai, meccanici, vetrai, imbianchini, cuochi, domestici, gelatai e parrucchieri: non avevamo concorrenza.
“Si lavorava da matin a seira e la domenica si andava a messa ben vestiti – raccontano le sorelle Fusero, nipoti di Bartolomeo arrivato a Buenos Aires il 22 novembre 1905, a 22 anni – . I bambini mangiavano il gelato, le donne bevevano la limonata e gli uomini il vermouth. Si cantava Quel mazzolin di fiori, La Piemontesina e Ciao bela mora ciao, si giocava a bocce e si chiacchierava. La sera si mangiava la bagna càuda e prima di andare a dormire si pregava: il parroco dovette imparare il piemontese perché le donne, non riuscivano a confessarsi. Nduma bin! Eravamo messi bene! Siamo nati tutti nella stessa camera, all’ombra di un magnolia nata da un seme portato dall’Italia”.
Centoventi anni dopo, i nuovi migranti inseguono in Europa il posto migliore dove vivere. Poi chiamano a raccolta il coniuge, i figli, il fratello, l’amico. Nel frattempo mandano i soldi a casa. “Noi, poveri e affamati di allora, andavamo a fare l’America – racconta la nipote di Giuseppe Caffaratti, torinese arrivato in Argentina nel 1890 a 15 anni – perché peggio di com’era in Italia non si poteva: era uno sgiai, uno schifo”. “Emigravamo per mangè”, racconta Reinaldo Avila, nipote di Giuseppe partito da Caraglio, in provincia di Cuneo, nel 1883. “Mio nonno era un contadino ignorante, si è spaccato la schiena nei campi. Oggi qui tocca ai boliviani e in Italia agli africani. È la vita”.
Loro, i profughi di oggi, scappano dalle guerre moderne, dalla miseria dell’Africa, dell’Asia e dell’Est europeo. Noi, vittime di allora, fuggivamo dalla Grande Guerra. Racconta Margherita Lombardi, nipote di Clelia scappata da Alessandria: “Mia zia perse un figlio in battaglia nel 1916 e un altro nel viaggio sull’Oceano. Si salvò solo lei”. Si fuggiva dalle cartoline precetto, il terrore delle madri: “Meglio un figlio lontano ma vivo che vicino ma sotto terra, disse mia nonna a mio padre Fernando – racconta Gladis Fiacchini – . Siamo cugini di Renato Zero, ma abbiamo perso i contatti: mio padre non volle mai più ritornare indietro”.
Altri fuggivano dopo aver visto la morte in faccia. “Ci imbarcammo sulla ‘Filippa’ senza documenti e senza un soldo il giorno dopo che Miguel tornò dal campo di concentramento in Germania”, ricorda Letizia Garessio. Suo marito, Miguel Bautista Pistone, argentino nato da italiani emigrati in America a metà ‘800, era tornato in Italia dopo aver fatto fortuna e durante la guerra era finito in un campo di concentramento: “Miguel era pelle e ossa – dice Letizia – , che cosa potevano fargli? Chi gli avrebbe impedito di salvarsi?”. Gli dico che ora l’Italia respinge i profughi che vengono dal mare: “Meno male che siamo nati un secolo fa e che siamo scappati qui – commenta – . Miguel tornò in Italia solo una volta per vendere tutto e comprare una casa qui”.
“Mio padre scappò da Fossano e dalla guerra che gli aveva ucciso un fratello – racconta Antonio Caballero – , aveva 17 anni e fin dal primo giorno cominciò a dimenticare l’Italia. Non ho mai parlato con i miei parenti rimasti a casa. Non ho mai imparato l’italiano perché nessuno me l’ha mai insegnato. Nessuno di noi ha fatto fortuna, semplicemente siamo sopravvissuti”.
I migranti di oggi arrivano in Italia con il sogno di guadagnare per poter tornare in patria. Ma anche loro spesso finiscono per mettere radici. Come il nonno di Teresa Burdone, piemontese emigrato in Argentina alla fine dell’Ottocento: “Quasi tutti noi – dice Teresa – , figli o nipoti di italiani, abbiamo la doppia cittadinanza e un’altra vita da vivere, ma il cognome ci ricorda che siamo stranieri da sempre”. (Beh, buona giornata).
Una risposta su “Quando erano gli emigrati italiani a crepare e a essere buttati a mare.”
E bravo Sig. Marco. Così bell’articolo, pieno di fatti, ormai preziose testimonianze, dovrebbe essere piu’ divulgato, per CAPIRE.
Saluti.