LA POLITICA ACCORCIATA
di Aldo Schiavone -La Repubblica
IL POTERE politico, nel tempo della crisi. Non solo la sua composizione sostanziale: i rapporti di forza che lo determinano, le strutturee le decisioni che gli danno effettività e consistenza. Anche il suo riflesso mediatico, che è non meno penetrantee reale; lo spettacolo che mette in scena ogni giorno di sé, il modo in cui si propone e viene percepito attraverso i mille racconti che frantumano e poi di continuo ricompongono la nostra vita quotidiana. È questo, credo, il grande tema del momento, su cui bisogna fermarsi a ragionare. In ogni emergenza, infatti – che si tratti di economia o di terremoto, e tanto più se di tutt’ e due insieme – l’ immagine della politica tende inevitabilmente a trasformarsi.
Lo stato d’ eccezione – e la storica fragilità dell’ Italia ne moltiplica a dismisura le occasioni – spinge in maniera inesorabile a richiedere e a costruire una rappresentazione “contratta” e semplificata del potere, e a soddisfarsene come l’ unica adeguata alla concitazione e all’ incalzare delle circostanze. Fra la ferita e la terapia non sembra siano necessarie mediazioni.
C’ è bisogno di presa diretta. Una politica “accorciata” al massimo (c’ è chi dice “verticalizzata”, ma dubito che sia la parola giusta), e anche una politica “vicina” e “veloce”, che non si nasconde nelle nebbie dell’ indistinto. Se la situazione precipita, il leader che può tirarcene fuori deve essere identificabile, certo, presente: e forte e immediato il suo rapporto con le masse in pericolo. Definirei questa condizione come l’ inevitabile “deriva populista” che accompagna sempre, in ogni democrazia, e tanto più se condizionata dai media, una stagione di difficoltà e di paure.
È qualcosa di simile a una “legge tendenziale”, cui non si può sfuggire. Vi sono però almeno due modi, fondamentalmente diversi, di comportarsi di frontea questa specie di obbligato slittamento, a questa metamorfosi che fa ormai parte in qualche modo della nostra fisiologia democratica. Il primo è quello che, per così dire, tende a rendere “istituzionale” la spinta populista, ad assumerne acriticamente i contenuti emotivi di volta in volta più incalzanti e meno elaborati, a prolungarne e a dilatarne indefinitamente gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, e a farne l’ unico centro di una strategia politica che non sa e non vuole vedere altro.
Esso mira unicamente a stabilire e ad alimentare un rapporto fideistico fra il leader e il “suo” popolo, e a comprimere e marginalizzare tutto il resto – altre forme di rappresentanza, divisione dei poteri, contrappesi decisionali – come un inutile impaccio. L’ emergenza – crisi economica, terremoto, gestione dei rifiuti a Napoli – è solo il pretesto per cementare ed esibire questo legame di salvezza, dove i ruoli sono assolutamente predeterminati: da una parte un popolo bisognoso e immobile, spettatore passivo e indistinto di una “grazia” che arriva dall’ alto, sotto forma di tempestività, lungimiranza, risorse; e dall’ altro un “capo” che sceglie e decide per tutti, al più coadiuvato da un ristretto manipolo di tecnici e di esperti. È un modo di stressare, per così dire, la democrazia, schiacciandola su una sola delle sue componenti, per quanto essenziale: la ricerca e la verifica del consenso, il transfert di sovranità alla base dell’ investitura a governare.
È lo stile di Berlusconi: per esempio, quando dice della tempesta economica che bisogna solo aspettare che passi, e al resto pensa lui, con pochi provvedimenti d’ urgenza, perché non c’ è altro da fare; o quando gira fra le popolazioni del terremoto e assicura che sarà lui stesso il garante della ricostruzione. Sono la politica e la democrazia ridotte alla loro forma più elementare e impoverita: al solo corto circuito carismatico. Ma vi è un diverso modo di reagire alla deriva di cui stiamo parlando. Ed è la risposta che definirei della “frontiera democratica”. Essa non nega, ma accetta di fare i conti con la spinta populista; non rifiuta, ma valorizza la componente carismatica nella ricerca del consenso al tempo della crisi; e però utilizza entrambe non come fini a se stesse, per la pura conservazione del potere, bensì come mezzi per la realizzazione di un disegno più ampio, per trasformare cioè, in una parola, il consenso in egemonia.
A suo tempo, ne fu capace De Gaulle, ed è anche la ragione per cui la sua eredità riuscì a incrociare, al momento opportuno, il cammino di Mitterrand. E soprattutto, questa seconda risposta riequilibra onda populista e personalizzazione carismatica attraverso una continua richiesta di partecipazione collettiva, di presenza democratica “dal basso”; innesta nel circuito del consenso messaggi nuovi, e mette al centro della propria strategia non la conservazione in quanto tale del potere, ma un’ idea complessiva di autoriforma della società, come unica via per superare davvero l’ emergenza e lo stato d’ eccezione. Usa il consenso per cercare di costruire un’ egemonia intellettuale e morale. È lo stile di Obama (se gli andrà bene, come tutti speriamo).
In questo senso, credo che al nostro centrosinistra farebbe bene un po’ di populismo, e anche una certa dose di forza carismatica. Voglio dire, una vocazione a intercettare i bisogni, le ansie, le fantasie – forse non tutte “politicamente corrette”, ma questo è il vero e ineludibile nodo della questione – di quella parte di popolo già “liquefatta” dalla trasformazione postindustriale, e ora dalla crisi, con cui ha purtroppo smesso da un pezzo di intendersi. Ma prima di cercare un nostro Obama, occorrerà porsi il problema di una generale riattivazione politica e democratica del corpo sociale del Paese, di ridargli insomma un’ anima “popolare” condivisa, e nello stesso tempo orientata verso nuovi orizzonti, dettati dalla ragione, e non solo dalle pulsioni emotive: più conoscenza, più saperi, più proporzione fra profitti e lavoro. E insieme più coesione, più merito, più eguaglianza, più senso critico. Ne saremo capaci? (Beh, buona giornata).