E’ un fatto che l’intrattenimento condizioni l’informazione, che la stessa sia “condizionata” dagli introiti pubblicitari, senza i quali le testate giornalistiche rischiano la chiusura. E’ un fatto che la crisi dei consumi riguardi anche il “consumo” di informazioni. E’ un fatto che la comunicazione abbia assunto un ruolo determinante nella politica dei governi, spesso come grande diversivo, per orientare le opinioni pubbliche a favore di scelte e a detrimento di altre, non solo durante le campagne elettorali, ma anche durante l’azione di governo. La crisi che sta attraversando il mondo dei media rischia di mettere in secondo piano la difesa del diritto a una informazione corretta, il diritto a una comunicazione libera. La crisi degli investimenti pubblicitari spinge sempre più a “catturare” l’attenzione verso le marche globali, invece che a “liberare” l’attenzione di molti verso la democrazia della comunicazione, verso la democrazia nella comunicazione.
La realtà ci dice ¬- ci direbbe – che per esempio la crisi ambientale, cui il “20-20-20” dovrebbe porre rimedio è strettamente connessa ad altre due crisi, con un tempismo storico inedito nella storia politica, economica e sociale recente. Questo fenomeno, che qualcuno ha definito “tempesta perfetta” vede la concomitante esplosione di contraddizioni, derivate dalla crisi ambientale, dalla crisi energetica e dalla crisi finanziaria globale, che ha presto violentemente impattato contro l’economia globale, fin dentro le economie nazionali.
Poiché è noto che la crisi ambientale ha implicazioni dirette e fortemente connesse con la crisi energetica e con quella economica e finanziaria, teoricamente una vasta e articolata azione di comunicazione e informazione sulle tematiche ambientali sembrerebbe essere la chiave di volta per approcciare l’opinione pubblica in modo efficace, tanto da poter provocare un vasto consenso attorno a un deciso cambio di passo nel nostro modello di sviluppo e dunque negli stili di vita, come sarebbe, per esempio, aderire con entusiasmo al “20-20-20”: la riconversione industriale migliorerebbe i prodotti, dunque i consumi; lo sviluppo di energie alternative favorirebbe la nascita di centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro; le due cose insieme garantirebbero una migliore qualità della vita, più compatibile con la biodiversità, la salvaguardia del patrimonio ambientale che, soprattutto in un paese come l’Italia, potrebbe dare l’abbrivio a ulteriori opportunità di crescita economica e occupazionale. Teoricamente, è bene ribadirlo.
Favorito dai media dominanti, si sta verificando un atteggiamento conservativo e refrattario alle novità, a qualsiasi cambiamento.
“Il mondo è cambiato e noi dobbiamo cambiare assieme al mondo”, ha detto Barack Obama. Il fascino che è venuto creandosi attorno alla sua ascesa alla Casa Bianca ha lasciato intendere che la voglia di essere immersi in un panorama di innovazioni avrebbe potuto trasformare, non solo la politica ma la vita quotidiana di milioni di americani, delusi, frustrati e spaventati dalla crisi economica, che ha impoverito la middle class, oltre che la maggioranza dei cittadini.
Tuttavia, le resistenze ai cambiamenti sono forti. Essi sono incardinate nelle politiche “neo-liberiste” che negli ultimi vent’anni hanno caratterizzato i governi occidentali, tra cui l’Italia.
Dice Naomi Klein in “Shock economy” (Rizzoli, 2007), libro che sembra essere stato premonitore della crisi attuale: “E’ assolutamente possibile, certo, avere un’economia di mercato che non richieda una simile brutalità e non necessiti di tale purezza ideologica. Un mercato libero dei prodotti di consumo può coesistere con una sanità pubblica, con scuole pubbliche, con un ampio segmento dell’economia, come una compagnia petrolifera pubblica, saldamente in mano statale. E’ parimenti possibile richiedere che le grandi aziende paghino salari decenti e rispettino il diritto dei lavoratori di costituirsi in sindacati; e che i governi tassino e ridistribuiscano la ricchezza, cosi che le aspre diseguaglianze che affliggono lo Stato corporativo siano ridotte. Non è obbligatorio che i mercati siano fondamentalisti.”
Il fatto è che le classi dirigenti attualmente in carica nei governi europei sono tutte provenienti da ceti politici e sociali che hanno profondamente creduto al neoliberismo, per quelle politiche hanno vinto le elezioni, per l’attuazione di quei programmi elettorali siedono in maggioranza nei Parlamenti e nei governi. Questo stato mentale dei governanti europei è stata ben sintetizzato dallo slogan di Green Peace, durante il vertice economico di Berlino: “Se il mondo fosse una banca, lo avreste già salvato”.
Zigmunt Bauman ha detto: “La reazione (dei governi, ndr) finora per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria, per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita: il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, di indebitarsi e mantenersi indebitato potrebbe tornare alla “normalità”. Il “welfare state” per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina, dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega, per evitare invidiosi paragoni.”
Se i governi appaiono frastornati, a maggior ragione disorientate sono le opinioni pubbliche. Alla crisi ambientale, alla crisi energetica e alla crisi economica, si è aggiunta una quarta crisi: è la crisi dell’informazione. Il mondo dei mass media è in crisi in tutto il mondo. E con i mass media è di conseguenza andata in crisi la pubblicità.
Sir Martin Sorrell fondatore e Ceo di Wpp, colosso britannico della pubblicità mondiale sostiene che “nel giro di un paio d’anni assisteremo a un radicale cambiamento rispetto agli attuali equilibri. Sempre meno giornali, sempre più internet e broadcaster televisivi “tradizionali” che cederanno via via terreno nei confronti di nuovi modelli d’ intrattenimento e informazione audiovisiva”.
Le previsioni che riguardano i grandi giornali americano sono brutte. Il New York Times per ripianare i bilanci in rosso ha dovuto vendere il grattacielo disegnato da Renzo Piano, che ospita la redazione a New York; il Wall Street Journal, divenuto di proprietà di Rupert Murdoch, ha annunciato tagli e licenziamenti pari al 50 per cento degli addetti. Se questi eventi fanno pensare a una discesa più ampia della stampa americana, anche dall’Europa non giungono buone notizie. In particolare in Spagna, dove alcuni editori di giornali e tv italiani hanno forti interessi, la crisi ha colpito duramente: il crollo della raccolta pubblicitaria rasenta il 30 per cento, mentre cinquecento giornalisti spagnoli sono stati allontanati dal lavoro e le previsioni parlerebbero di circa tremila licenziamenti entro la fine del 2009. In Italia c’è stata la messa in stato di crisi nel gruppo Rcs. Il Gruppo Espresso registra cali di diffusione pari al 9,6 per La Repubblica, del 6 per L’espresso (dati ADS relativi al 2008)
E’ fosco lo scenario futuro del rapporto tra pubblicità e media. Nei paesi sviluppati la tv rimarrà ancora dominante, ma dall’attuale quota di mercato attorno al 30-35% scenderà al 20-25%. Internet, oggi attorno al 12% salirà anch’essa al 20-25%. E quanto alla carta stampata, vede anche qui una riduzione al 20-25%. Giornali e riviste sono i più esposti alla concorrenza dei media via internet.
Secondo l’ultima rilevazione di Nielsen, azienda americana specializzata nelle ricerche di mercato, lo scenario italiano sembrerebbe in linea con le previsioni di decrescita mondiale: il confronto fra dicembre 2008 e dicembre 2007 registra un calo del -10,0% della pubblicità italiana. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa.
Certo è, comunque che dovremo prepararci a significativi cambiamenti, spinti dalla crisi globale che ha impattato su un sistema dei media e della pubblicità già in evoluzione, ben prima che la crisi economica si facesse sentire, con tutta la sua potenza. Una volta la pubblicità era “ospite gradito” dei giornali, poi della radio, poi della tv e poi di internet. Ma la forza economica conquistata dalle grandi holding finanziarie, quotate in Borsa ha capovolto i rapporti di forza economici, a tutto vantaggio delle comunicazione commerciale.
Oggi sembrerebbe quasi che tv, stampa e internet siano diventati loro gli “ospiti fissi” della pubblicità, ospiti che devono piegarsi, nel bene e nel male, alle esigenze del padrone di casa e degli inserzionisti globali e locali. La cosa è molto evidente su scala globale, anche se ha delle serie ripercussioni su un mercato “locale” come quello italiano.
Secondo Nielsen Media Research, in Italia gli investimenti pubblicitari nel totale anno 2008 ammontano a 8.587 milioni. La variazione dicembre 2008 su dicembre 2007 è del -10,0%. Nel confronto mensile il calo interessa tutti i mezzi tranne Internet che cresce dello 0,9% sul dicembre 2007. L’analisi per mezzo vede nell’anno un calo dell’1,2% della Televisione e del 7,1% della Stampa, mentre la Radio segna +2,3% superando i 487 milioni di raccolta.
Giovanni Valentini, ex direttore de L’Espresso ha detto: ”giornali e i giornalisti sono chiamati a fare la loro parte in questa congiuntura, se vogliono contribuire a salvaguardare i bilanci delle aziende editoriali e insieme la propria professionalità. Con nuovi inserti e supplementi, nuove formule e formati pubblicitari, più in sintonia con le esigenze degli inserzionisti, per attrarre maggiori investimenti: oltre alla vendita di uno spazio, insomma, bisogna incrementare l’offerta di un servizio.”
“Tutto questo non basta” dice Hans-Rudolf Suter, il capo di STZ in Altavia, agenzia di pubblicità fondata in Italia negli anni Settanta da due svizzeri, Suter, appunto e Fritz Tschirren. Dice Suter: “la faccio breve: in ottobre il New York Times ha avuto 20 milioni di visitatori unici sul sito e venduto un milione di copie al giorno, 1,4 la domenica. Ma la tiratura – continua Suter – è in calo e i soldi in cassa basteranno fino a maggio. Poi qualcosa dovrà succedere: o vendita di giornali come Boston Globe (ma chi compra oggi un giornale?) o chiudere l’Herald Tribune, vendere gli immobili (come è stato fatto), naturalmente sono tutte soluzioni che non cambiano la realtà: lettori in calo, pubblicità in calo, economia in calo.” E conclude: “Potrebbero chiudere il giornale stampato, e andare completamente sul web, ma il sito (del resto uno dei migliori al mondo) riuscirebbe a pagare solo il 20% dei giornalisti attuali.” Un alto dirigente di un gruppo editoriale italiano sostiene che per ogni euro di pubblicità che il suo giornale perde, forse riesce a recuperare venti centesimi sul web. Evidentemente queste risorse sono insufficienti alla vita del giornale.
I giornali sono il luogo dell’informazione per eccellenza, tuttavia perdono lettori, diffusione, raccolta pubblicitaria. Si parla di messa in stato di crisi di più di un gruppo editoriale. La nascita e lo sviluppo logaritmico della tv commerciale in Italia ha dato il via a un pregiudizio che si è presto trasformato in un preconcetto contro i giornali: l’intrattenimento attira pubblicità più dell’informazione.
E’ stato un modo di pensare, da parte del mondo della pubblicità italiana, che ha penalizzato la carta stampata, che non ha permesso finora un vero sviluppo del web, ma che ha rimpinzato, fino a quasi farla scoppiare la tv di pubblicità.
Secondo Emanuele Pirella, decano dei copy writer italiani “i giornali territoriali posseggono autorevolezza e la capacità di essere sulle notizie locali di rilievo per i lettori e di trasformarsi in abili strumenti per la comprensione del mondo. Credo che i quotidiani dovrebbero scimmiottare meno i linguaggi e i modi del web e tornare alla notizia pura, approfondita e autorevole”.
“La televisione emoziona, la stampa approfondisce, il web è una opportunità per tutti”, ha scritto Lorenzo Sassoli de Bianchi di Upa, l’associazione degli inserzionisti pubblicitari italiani. Dal quale ci si può permettere di dissentire, non tanto per amor di polemica, quanto per il semplice fatto che è arbitrario attribuire cifre stilistiche ai media. “E’ un fatto assodato che la gente non legge (o guarda, ndr) la pubblicità, la gente legge (e guarda, ndr) solo quello che le interessa. Qualche volta si tratta di un annuncio pubblicitario”, ha detto una volta Howard Luck Gossage, grande copy writer americano.
Il punto della questione è: come si fa concretamente a ristabilire un equilibrio tra informazione e pubblicità? Siccome la crisi impone scelte decise, ecco la headline: depotenziare la tv, riqualificare la stampa, sviluppare il web. Infatti, se in Italia gli investimenti pubblicitari nella tv rientrassero nei parametri di spesa europei, ecco che si libererebbero risorse che andrebbero a tutto vantaggio dell’intera filiera della comunicazione commerciale: dalla stampa al web, fino al publishing, passando per tutti i veicoli sopra, sotto, accanto e oltre la linea della comunicazione commerciale.
Con il vantaggio che le idee farebbero la differenza, che la strategia di comunicazione farebbe la differenza, che la qualità e la creatività del messaggio, e non tanto la quantità dei “passaggi tv” farebbero la differenza. Aggiungerei che facendo la differenza si abbasserebbe di molto il tasso di diffidenza nei media, nelle marche, nei consumi, nella pubblicità. E se ne avvantaggerebbe anche la tv.
Un esempio? In Gran Bretagna, Bbc e Itv hanno sofferto la concorrenza di BSkyB. Però Bbc ha saputo reagire, creando quel che, è forse oggi il miglior “marchio” di servizi online al mondo.
La visione globale del panorama dei media e del loro rapporto con la pubblicità aiuta certo a comprendere i cambiamenti in atto. Ma non si devono confondere le politiche delle grandi marche globali con le dinamiche delle marche locali. Essi occupano differenti pesi specifici sui mercati e dunque possono avere un rapporto diverso con la pubblicità e differente con i media. Il tessuto connettivo dell’economia italiana è fatto di una miriade di piccole e medie imprese, alle quali bisognerebbe favorire l’accesso alla pubblicità nei media, senza che si sentano schiacciate dalle politiche dei grandi numeri che le marche globali importano e inevitabilmente impongono nel nostro paese, condizionando la vita dei media italiani, tra cui spiccano i giornali nazionali e locali.
Bisognerebbe avere il coraggio di investire in tecnologie (gli editori), in professionalità (i giornalisti). La qual cosa imporrebbe una maggiore e migliore flessibilità da parte dei pubblicitari. E attirerebbe gli inserzionisti, sempre pronti a dirottare i budget pubblicitari verso il media più promettente.
Se il ruolo e il valore economico della pubblicità sono diventati ormai imprescindibili per la sopravvivenza dell’informazione italiana (e non solo italiana) è giusto, forse a maggior ragione, pretendere che i contenuti della pubblicità siano quantomeno corretti, belli, sani e divertenti. Mai invasivi delle prerogative del diritto a una informazione democratica. (Beh, buona giornata)