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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il mainstream e la quarta crisi.

di Pino Cabras – Megachip.info

Beppe Grillo si bea del crollo dei giornali, che perdono una valanga di copie e tantissima pubblicità, e ormai si avviano a un rapido declino, per molti la chiusura. Lui dice che in sostanza trionferà la Rete, e lì, finalmente, la qualità emergerà. I blog che faranno tanti contatti evolveranno darwinianamente verso un nuovo “modello di business” informativo. Per Grillo la crisi, su questo punto, è una buona notizia, anzi eccellente.
Anch’io prenderei come bersagli gli stessi personaggi che sbeffeggia Grillo. Ma essendo circospetto nei confronti delle sue brusche semplificazioni, tiro il freno a mano. Voglio capire meglio.

Il contesto individuato è giusto. Per anni l’informazione alternativa era fuori dal recinto, mentre ora non è più emarginabile. Sempre più spesso le testate “autorevoli” hanno bucato le notizie vere, mentre fuori succedeva un finimondo ben descritto da altri soggetti.

I silenzi dei grandi giornali contavano sulla potenza soverchiante del loro apparato. Ma ora i cedimenti ci sono, e arrivano tutti insieme. Traballa un intero sistema di potere, e il «Financial Times» arriva a scriverne il necrologio.
In qualche modo il mainstream informativo reagirà, statene certi. E anche Grillo lo sa, tanto che segnala pure lui i bavagli che si preparano a carico del web, quantunque ora egli esulti per il tramonto dei giornali stampati. Prima di gongolare anch’io voglio capire se il tramonto della stampa è l’alba della Rete libera e bella, o l’aurora dei piduisti.

Tutti vogliamo essere ottimisti, nel mezzo delle notizie da Grande Depressione. E quindi cerchiamo la buona notizia, proviamo a essere positivi. Tento di cogliere elementi analitici potenti nel ragionamento di Grillo.

In effetti crescono i luoghi di informazione indipendente. La novità c’è e le Caste stentano ad afferrarla, o fingono, sperando che la tempesta passi e si possa tornare allo status quo ante.

Giorno per giorno si scalfisce la supposta «autorevolezza» dei giornali e dei media «prestigiosi».
Lo smascheramento galoppa: le vecchie gazzette non vengono più ormai percepite come autorevoli ma come “ufficiose”. Praticano quel poco di libertà che calpesta i pascoli ristretti di una critica tollerata. Spazi ogni giorno più angusti.

È la vecchia storia del Palazzo con la P maiuscola, la storia di una complicità, una connivenza che lega il giornalista al potere politico ed economico. Il giornalista parla al e per il potente e il potente parla al giornalista per se stesso. Della società nessuno dei due parla, e perciò nessuno la rappresenta più.

Prendiamo la guerra in Iraq. Tutto un mondo indipendente ha raccolto i documenti che davano prova dello smisurato imbroglio delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, e sin dal primo istante ha ridicolizzato i presunti legami di Saddam con Al Qa‘ida sbandierati dall’Amministrazione Bush-Cheney. Erano i grandissimi media ad accettare le menzogne del potere e a dare una mano a una guerra costosa e insensata. Nel misurarsi con la guerra hanno fallito e hanno perso copie e spettatori. Ma non basta.
Bisogna andare più a fondo sulla tendenza in atto. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) ad esempio hanno mostrato una totale divaricazione dalla verità del mainstream informativo. Frotte di lettori disperati si allontanavano dai giornali bugiardi – che però ancora facevano massa critica – per dissolversi in direzione di una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di vincere.

I media che seguono la corrente del grande conformismo devono fare ormai i salti mortali per dettare la gerarchia delle notizie. La trita politichetta nazionale in prima pagina, la notizia scomoda a pagina 26, tutto questo riusciva bene. Il direttore usava il soffio divino che faceva esistere o non esistere la notizia. Oggi comincia ad andare diversamente, il declino rapido appare certo, ma sono incerti gli esiti finali.

Un esercito di centinaia di migliaia di lettori si informa meglio dei direttori, e lo fa prima, ha già coperto di pernacchie le notizie false poi spacciate per vere, una marea.

Ma internet ci può bastare? E milioni di persone che non hanno mai cliccato nemmeno una pagina, chi le raggiunge, chi le informa? Chi va in TV a raccontare la più grande crisi economica del secolo?

Ai piani alti lo sanno, si pongono il problema. E noi, ce lo poniamo? Vedete un po’ cosa diceva nel 2005 Rupert Murdoch, il superpadrone dei media:

«Sono cresciuto in un mondo dell’informazione assai centralizzato, dove le notizie erano strettamente controllate da pochi direttori, che decretavano cosa potevamo e dovevamo sapere. Le mie due figlie giovani sarebbero nate nel mondo digitale.»

Poi aggiungeva: «Il cimento particolare, per noi immigrati digitali – molti dei quali in posizione di determinare come le informazioni vengono confezionate e diffuse – è di sforzarci nell’applicare la mentalità digitale a una nuova gamma di sfide. […] Dobbiamo comprendere che la prossima generazione che si trova ad avere accesso alle notizie, siano dai giornali o da qualsiasi altra fonte, ha diversi parametri di aspettative sul tipo di informazione da cercare, e sul come la ottiene, e da chi».

La crisi della stampa di oggi il “global tycoon” la vedeva già tutta nell’atteggiamento delle nuove generazioni digitali:

«Non vogliono più affidarsi a una figura divina che sta lì a dirgli dall’alto cosa sia importante; e per ampliare un pochino l’analogia religiosa, non vogliono di certo notizie presentate come vangelo. All’opposto, vogliono le loro notizie su richiesta. Vogliono il controllo sui loro media, anziché esserne controllati.»

Nessun sussiego in Murdoch. Non vedeva affatto il nuovo giornalismo partecipativo come «secondario» e parassita rispetto ai media ancora più importanti. Non paventava un giornalismo di qualità più bassa. Non vituperava il giornalismo di tipo nuovo perché conosceva i suoi polli nei media «autorevoli»: le loro fandonie, i loro ritardi, il loro snervante bilancino fra i poteri.

Lui più di tutti, Murdoch, sa che la stragrande maggioranza delle notizie che appaiono nei media mainstream trovano la loro fonte in tre sole agenzie internazionali, e nessuno si prende la briga di vagliarle, smontarle, riscontrarle davvero. Il resto sono trucchi per contrabbandare idee ricevute, che funzionano male, tanto che i lettori alla fine se la stanno filando.

È anche vero che per un lettore che diserta l’edicola ce ne sono due che aprono le pagine delle versioni online dei quotidiani, ma la qualità della lettura è diversa, e anche l’impatto economico sulle testate è incomparabile, per via della fruizione pubblicitaria e degli schemi di abbonamento. L’attuale modello online non basta a ripagare i costi di redazioni che coprano un ampio spettro di notizie con standard di qualità accettabili.

È stato triste in questi anni osservare come i siti dei grandi quotidiani abbiano trasformato – gradualmente ma inesorabilmente – la loro homepage. Hanno affiancato alla colonna delle notizie “serie” una seconda colonna di gossip. Questa era dapprima esile e statica, poi si è via via allargata, si è riempita di aggiornamenti continui, richiami, frizzi e lazzi, mentre erodeva millimetro dopo millimetro l’altra colonna, contaminandola con un tono sempre più fru fru. I lettori in più sul web se li sono guadagnati in questo modo. Ma non hanno portato soldi né autorevolezza.

Murdoch nel mentre è entrato in campo con prepotenza anche sul digitale, assicurandosi il gigantesco portale MySpace e marchiando la strada che condurrà verso pochi oligopolisti la vita digitale di miliardi di esseri umani, i loro consumi, i gusti, i modi di vivere, consegnati così ai marketers che disporranno di sofisticate schedature personalizzate, ottenute gratis e con spensierata imprevidenza di massa.

Qual è il futuro della democrazia? Cosa sarà la politica nei prossimi decenni? Sarà internet a liberarci fra quarant’anni, regalando un trionfo a Beppe Grillo per la festa dei suoi cento anni, circondato dai vapori ideologici dei suoi vecchi amici visionari e ipersemplicisti della Casaleggio Associati? Oppure il flusso delle comunicazioni prenderà la strada di chi controlla Facebook e i suoi fratelli? Oggi l’entusiasmo per le novità è forte, abbastanza da far rimandare la risposta a queste domande, quasi certamente una risposta che sarà dura con le illusioni.

Nel frattempo si preferisce guardare al fermento, la corsa all’Eldorado delle tecnologie “libere”. Il fermento c’è sul serio, non è solo un abbaglio.
Spesso c’è un ritorno – in via elettronica – a un certo giornalismo delle origini. Quello che si affacciava nel discorso pubblico prima che la comunicazione diventasse il tramite timoroso e umiliato della pubblicità. Ora che questa crolla, si trascina tutto un sistema, nel frattempo diseducato fino all’irresponsabilità.

Quel giornalismo ideale a volte lo abbiamo visto rappresentato nei fumetti di Tex, dove vedevamo il direttore di periodici che si chiamavano «Tucson Gazette» o «Sonora Herald», il quale scriveva artigianalmente i suoi pezzi, li stampava lui stesso, circondato da giovanotti svegli, un po’ reporter un po’ strilloni. Un giornalismo di carta vetrata, urlato, parzialissimo, esposto, senza reti protettive, capace anche di striduli errori, eppure efficace, utile: era il mestiere che il giornalismo “autorevole” di oggi non sa più fare.

Questa umiltà e parzialità faceva bene alla crescita di uno spirito democratico. O almeno ci provava seriamente. Somigliava più alla satira – quella vera, non gli sfottò – che a un editoriale azzimato come Gianni Riotta. Esagerare consentiva di approssimarsi alla verità.

Non è esistita nessuna età dell’oro del giornalismo, sia chiaro. Eppure c’è come una memoria di un qualcosa di diverso che si oppone alla deriva di oggi e fa diffidare del giornalismo controllato e disinformativo, che ora crollerà.

Perciò, nel nostro piccolo, pensiamo un altro tipo di informazione, ad altri giornali e siti e blog, a un altro tipo di TV. Siamo qui ad aprire il vaso di Pandora. Una cosa che può nascere solo dal basso.

Il punto però è questo. A dispetto dell’ottimismo di chi si entusiasma del web non dobbiamo nasconderci le ombre.

Le continuità ideologiche con l’era apparentemente defunta del neoliberismo sono più forti di quanto si pensi. Il flusso delle comunicazioni è il nuovo luogo virtuale in cui si narra il mondo contemporaneo e si ridefiniscono le sovranità. L’esaltazione acritica di questo flusso, giudicato come lo spazio in cui avviene lo scambio “alla pari” tra soggetti trasmettitori e soggetti riceventi, appare come una nuova ideologia tesa a legittimare i nuovi poteri, tutti da sottrarre ad ogni vincolo. Per i neoliberisti il mondo è il mercato-mondo. La libertà è la libertà dei commerci. Il cittadino è il consumatore sovrano nelle sue scelte dentro il libero mercato. Come diceva quasi vent’anni fa il teorico dei media Armand Mattelart, «nella sua lotta contro tutte le forme di controllo (escluse le proprie, quelle della libera iniziativa), promanino esse dallo stato o dalla società civile organizzata, il neoliberismo si rivela una sorta di neopopulismo. Per questo esso ha il bisogno ricorrente di richiamarsi alla rappresentatività dei consumatori, che assumono così la veste di parti di mercato.» Mi sembrano considerazioni ancora fresche, e ritraggono con precisione i populisti di oggi, in buona e in malafede.

Saranno ancora le dottrine d’impresa ad avere molta più forza di tutti nella ristrutturazione dei mercati della comunicazione. Un’impresa che si muove in uno spazio in cui deve individuare segmenti transnazionali di consumo e forme culturali universali, ma anche nicchie di mercato locali e particolari alle quali parlare con il cosmopolitismo manageriale. Il mondo diventa solo uno spazio da gestire. La psicologia del cittadino consumatore viene già studiata a fondo. Si studia come spende, come reagisce alle campagne pubblicitarie, come si muove nel supermercato o nelle mall delle chincaglierie elettroniche, da quali luci e colori viene colpito, come rapporta i suoi valori personali alle offerte del mercato. Si taylorizza il consumo. È il trionfo del marketing. Con Facebook miliardi di agnelli vanno volontariamente al macello delle schedature. Sempre Mattelart afferma che «il fatto che l’impresa e la libertà d’intrapresa siano divenute il centro di gravità della società ha ridistribuito le gerarchie, le priorità e il ruolo degli altri soggetti. Ciò che è cambiato, in breve, è l’insieme dei modi di produrre il consenso, di cementare la volontà generale.» E aggiunge una citazione del sociologo Michel Vilette: «La dottrina management ha contaminato tutti i segmenti della società configurandosi come modello culturale universale.»

Si dispiega un’idea gestionale della politica in cui le imprese sono comunque al centro. Le nuove élites si autorappresentano e non delegano ad altri la mediazione politica. Non si pongono obiettivi democratizzanti, non sentono la necessità dei riequilibri territoriali, non pensano a forme di integrazione per i conflitti sociali ed etnici. Quando Grillo dice niente mediazioni loro annuiscono tranquillamente.

Per la dottrina management il controllo sociale non è più un problema politico. E’ un problema socio-tecnico. Più poliziotti privati a tutelare il quartiere ricco dalle rivolte dei quartieri degradati. Più telecamere nelle strade, più schedature elettroniche, più farmaci Prozac antitristezza. Ma anche più sorveglianza informatica nel lavoro, più strumenti di persuasione per “amministrare il pensiero”. Chi se ne frega dei quotidiani che muoiono.
I candidati occhieggiano dai loro spot: «Metti un manager alla guida della città».
«I liberali possono star tranquilli: anche il Grande Fratello sarà privatizzato», profetizzava Christian De Brie nel 1994.

Se ogni utopia si collegava a un archetipo di città ideale, la mancanza di utopie genera una nuova ecologia metropolitana. Non domina il Grande Fratello quanto il Micro Fratello: lo scanner alla cassa dell’ipermercato che misura la reattività del consumatore alle campagne di persuasione, gli automatismi diffusi e impersonali della burocrazia che possono decidere le condizioni di concessione del credito o l’ammissione a un impiego, le banche-dati che tramite controlli incrociati possono costruire rapide schedature dei nostri profili personali, i profili che spontaneamente sono regalati.
Il gioco sociale diventa così misurabile. I marketers fanno le loro scorrerie infliggendoci nuovi bisogni. Le banlieues intanto esplodono. L’assenza di quotidiani che parlino di tutto questo non pare ancora bilanciata da un’opinione pubblica in grado di raggiungere una consistenza collettiva altrettanto forte.

Il gioco politico si presta così al marketing plebiscitario e neopopulistico. «La libertà politica non può fermarsi al diritto di esercitare la propria volontà», asserisce Mattelart. «Il problema sempre più fondamentale è quello del processo di formazione di tale volontà.»

Le corporation diventano soggetto politico primario e proiettano la propria organizzazione-mondo come il tipo di organizzazione ideale, la propria comunicazione come l’unica proponibile, il proprio leader con il suo corredo mitologico aziendale come il solo leader universale. Mano a mano cadono gli ostacoli che separano le incarnazioni statuali del potere dalla concreta egemonia conquistata dall’impresa-mondo nelle casematte della società civile. I magnati della comunicazione raccolgono i frutti di un lungo lavoro di trasformazione della cultura operato da parte dei propri intellettuali organici.
E forse anche chi si innamora troppo della Rete lavora generosamente per il Re di Prussia, che nel frattempo sfronda anche lui le intermediazioni, decentralizza molto, ma centralizza le risorse strategiche, e un domani vorrà concentrare la censura tecnologica.

Perciò è urgente costruire strumenti forti di comunicazione per non regalare tutto alle oligarchie e alle false coscienze. (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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