di Giovani Sabbatucci da ilmessaggero.it
Il rituale è antico e collaudato. Gruppi di studenti protestano contro qualche decisione dei governi o delle autorità accademiche, organizzano cortei e occupazioni, lanciano slogan violenti, qualche volta occupano sedi universitarie, scuole o altri spazi pubblici.
Da qualche mese a questa parte, obiettivo della protesta sono i tagli alla spesa universitaria decisi dal ministro Gelmini, in parte ridimensionati e comunque contestati da un fronte abbastanza ampio che comprende anche docenti e organizzazioni sindacali. Ma le occasioni per protestare non sono mai mancate e verosimilmente non mancheranno in futuro.
L’impressione è che, in molti casi, la mobilitazione sia soprattutto fine a se stessa, che serva cioè a tenere in vita un “movimento” altrimenti destinato a esaurirsi: se poi, come è avvenuto ieri mattina alla Sapienza, parte una carica della polizia, l’obiettivo può dirsi per lo più raggiunto, visto che la repressione suscita ulteriore mobilitazione e così via all’infinito.
Fin qui tutto scontato e tutto già visto: ciò che colpisce è però la sproporzione sempre più evidente fra la consistenza numerica del movimento e la sua capacità di mobilitarsi e di occupare spazi. Ieri, davanti ai cancelli di piazzale Aldo Moro, c’erano poche centinaia di giovani, fronteggiati da un numero di poco inferiore di agenti di polizia in assetto antisommossa; dentro le facoltà, lo dico da testimone oculare, le lezioni e le altre attività accademiche si svolgevano regolarmente, senza che nessuno sapesse che cosa stava succedendo fuori.
L’“onda” evocata dalla protesta studentesca non aveva in realtà nulla di travolgente. Eppure gli incidenti (per fortuna non gravi), provocati dal rifiuto della polizia di lasciar partire un corteo non autorizzato, rischiano di mettere in moto altre agitazioni e di suscitare altre turbative della didattica, con inevitabile pregiudizio degli interessi dei più.
Nemmeno questa, a guardar bene, è una novità. Anche negli anni Sessanta e Settanta, e persino durante il mitico 76essantotto, gli studenti attivi nella contestazione erano una minoranza nel paese e nella stessa Università. Ma erano una minoranza consistente, collegata a un più generale e duraturo movimento di protesta sociale. Oggi i protestatari non solo sono espressione di un’area politica (la sinistra estrema) ridotta ai minimi termini, non solo rappresentano, come in passato, una minoranza della popolazione studentesca, ma appaiono sempre più isolati e arroccati nella difesa di spazi occupati non si sa bene a che titolo.
Anche le minoranze, naturalmente, hanno diritto di manifestare le loro opinioni in piazza, nei limiti stabiliti dalla legge (la normativa attualmente in vigore a Roma, come si sa, impone qualche restrizione, a tutela della libertà di movimento dei cittadini). Ciò che una minoranza protestataria – per quanto attiva, per quanto rumorosa, per quanto radicata in una tradizione ormai più che quarantennale – non può pretendere e attribuirsi una rappresentanza categoriale che nessuno le ha mai conferito (i risultati delle elezioni studentesche di qualche mese fa parlano chiaro in proposito), occupare spazi pubblici che nessuno le ha mai concesso, rifiutare ogni controllo di rappresentatività in base a una retorica assembleare che non ha nulla a che vedere con le procedure democratiche.
Fondandosi su queste premesse, il movimento potrà anche conoscere qualche giornata di gloria mediatica, guadagnare qualche generico e distratto sostegno in una parte (minoritaria) dell’opinione pubblica, e soprattutto centrare il suo obiettivo principale, ossia la perpetuazione di se stesso. Ma al prezzo di esaurirsi nella sua autoreferenzialità, di sopravvivere come fenomeno residuale, tollerato più per abitudine che per convinzione. Non ne trarrà vantaggio la funzionalità di un’istituzione universitaria di per sé già abbastanza disastrata. E, paradossalmente, non se ne gioverà nemmeno l’efficacia della protesta. (Beh, buona giornata).