Categorie
Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La crisi della stampa: “Questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria.”

Intervista a Marco Benedetto, vice presidente del Gruppo Espresso di Paolo Madron- Il Sole 24 Ore.

La Cina è vicina. Nel senso che ti si struscia addosso per poi nascondersi tra le pile di libri e giornali accatastate. Cina è la gatta di Marco Benedetto, che si muove da padrona nella sua grande casa romana di Piazza in Piscinula, dove al piano terra l’ex amministratore delegato dell’Espresso (ora ne è vicepresidente) ha impiantato la piccola redazione dell’avventura online che sta per cominciare.
Fa coppia con U-boat, il maschio, che di giorno sovrintende al lavoro dei giornalisti. Insomma, gatto ci cova dietro a Blitz, il sito che non sarà un giornale ma, per dirlo con una brutta parola che tra gli adepti della rete spopola, un aggregatore di notizie. Si prende un po’ di qua un po’ di là, si rimanda ai vari blog, si condisce il tutto con qualche commento originale per affermare un tono editoriale. Nel tempo che gli resta, Benedetto ha anche cominciato un libro di memorie sul mondo che lo ha visto per tanto tempo protagonista, lo scrive «come se lo spiassi dal buco della serratura» dice, e che Mondadori si è già fatta avanti per pubblicare.

Questa è in assoluto la sua prima intervista, dopo che con puntiglio si era sempre sottratto alla curiosità di coloro,i giornalisti, che quotidianamente erano uno dei referenti del suo lavoro.

Si è buttato su internet perché i giornali sono morti o perché costa troppo farli?
Ma no, non siamo all’apocalisse. I giornali non moriranno e il bisogno d’informazione ci sarà sempre. A non esserci più sono i soldi. O meglio, non ci sono più tutti quelli che servono per fare un giornale di carta.

Neanche un giornale di quattro paginette, stile Foglio o vecchio Riformista?Ho studiato tanto l’idea di fare un Foglio di sinistra, ma la simulazione del conto economico era inesorabile: ci si perdevano milioni di euro. Internet è croce e delizia: rappresenta una minaccia per l’editoria tradizionale, ma serve la democrazia dell’accesso perché ha drasticamente abbassato i costi.

E Blitz come le è venuto, si è ricordato della vecchia trasmissione di Gianni Minà?
No. Mi sono seduto sul divano e, pensa e ripensa, mi è venuto di associare la velocità del mezzo al lampo…
Però Blitz sarà un giornale e non, come dicono i ragazzotti che se ne intendono, un blog di social network…
Ma io vengo da Genova, per il mio carattere i torinesi sono già troppo invasivi, cosa vuole che ne capisca di social network… Mi ricordo di quando rompevo le balle a Scalfari con le ricerche di mercato e lui mi mandava a stendere.

Ma Scalfari le pare uno da ricerche di mercato?
Una volta Eugenio che non ne poteva più delle mie indagini mi raccontò di quando lui faceva lo stesso con Arrigo Benedetti, che le prendeva e le buttava per terra strepitando: «Non mi rompa i co…, tanto io faccio il giornale che piace a me e ai miei amici». Poi sa, ognuno fa i conti con la struttura mentale che si ritrova.

La sua com’è?
Io vengo dall’informazione scritta, quello che conta è la notizia. Ero partito dall’idea di un quotidiano online, ma siccome lo finanzio coi miei soldi ho capito che non ce la facevo. Allora ho deciso di fare l’aggregatore di news. Segnalo ai miei amici che mentre loro dormono nel mondo è successo questo e quello. Non vado contro i giornali, ma nel mio piccolo aiuto a diffondere quello che pubblicano

Quanti soldi ci mette?
Per cominciare 100mila euro all’anno bastano e avanzano. Metà vanno ai ragazzi che lavorano con me: prendo studenti, disoccupati, precari. Ma sulla parte tecnica credo di aver scelto tra i più bravi. La grafica me l’ha studiata Remigio Guadagnino, l’impostazione internettiana 77Agency.

A volte, in questa tristezza generale, penso che in fondo siamo l’unica categoria che da viva si è già fatta il funerale.Magari si esagera. Certo che se mettiamo insieme la crisi della pubblicità con quella economica…
Perché il crollo è soprattutto della pubblicità. Prenda in America, dove internet sta mangiando ai giornali tutta la classificata. Lì il nemico non è Google che ha ucciso le pagine gialle…

Chi è il nemico?
Più di Google ai giornali fa male Craigslist, il sito degli annunci. Se cerchi una segretaria attraverso il New York Times ti costa 300 dollari, lì te la cavi con 50.

A proposito del New York Times, che impressione: nel 2007 guadagnava 200 milioni di dollari, l’anno dopo ne ha presi 50.
In America il primo cliente dei giornali è l’auto,il secondo l’immobiliare. Non mi pare che per loro le cose vadano a gonfie vele.

E la diminuzione dei lettori è colpa di internet?
No, diminuiscono per effetto dell’offerta televisiva. E delle fotocopie.

Le fotocopie?
Sì, Repubblica e Corriere ne sono vittime illustri. Non c’è rassegna stampa dove manchino. Ha idea di quante copie si perdono così? Tanto che gli editori volevano mettere una tassa sulle fotocopie, ma non se ne fece mai nulla.

Ci sono però editori che a internet come media di news non credono. Mondadori ha deciso di investire sull’online solo come marketing complementare dei femminili.
Fanno bene, loro non hanno il quotidiano. Fare di Panorama un sito di news comporterebbe investimenti sul cui ritorno non c’è certezza. Guardi lo Spiegel: ha un fior di sito internet, con 80 giornalisti che ci lavorano, ma non è stato un successo travolgente.

Sicuro che la carta non muore?
La carta non muore, se mai potrà cambiare il modo in cui la si mette in mano ai lettori. Oggi vanno all’edicola, domani gliela si porta a casa. Sul mio sito ad esempio con un clic ti stampi la pagina, e gratis.

Non crede che gli editori, cullandosi sulla cuccagna dei collaterali, si siano accorti tardi del cataclisma che stava arrivando?
Un po’ sì, anche perché le ristrutturazioni non sono neutre e uno se può cerca di procrastinarle. Però è curioso che in America i giornali che vanno peggio sono quelli che hanno fatto i tagli più radicali. E poi c’è Murdoch che resta un mito.

Un mito che però ha appena perso in trimestrale 6 miliardi di dollari.
Un mito perché nonostante questo ha detto ai suoi: «Signori, dobbiamo avere i coglioni. Tutti taglieranno i costi per favorire i dividendi, noi dobbiamo privilegiare i contenuti».

Uno squalo intelligente. Lui, per ora, non taglia, altri lo fanno. Mentre qui da noi uno spettro si aggira per le redazioni: il prepensionamento.
All’epoca pre-pensionando i poligrafici abbiamo ristrutturato il settore e tutti erano contenti, perché andavano a casa guadagnando bene. Con i giornalisti è diverso.

A spanne ci perdono un sacco sullo stipendio.
Sì, uno che guadagna 10 rischia di andare in pensione con 5. E il giornalista non ce la fa perché solitamente è un big spender: ha due famiglie, l’amante, i figli, e magari un mutuo contratto a cinquant’anni. Secondo me l’idea di De Benedetti che gli editori dovrebbero versare all’Inpgi un contributo proporzionale al livello di pensione del giornalista è perfetta.

E se prepensionassimo anche gli editori e i manager che invece d’innovare il prodotto vanno a farfalle? L’idea, giusto per non rubare niente, è di Tina Brown.

Beh, non mi risulta che alla Condé Nast si ricordino con entusiasmo dei profitti del New Yorker, per non parlare di Talk che ha addirittura chiuso.

Un editore internettiano quale si accinge ad essere dove si abbevera?
I miei siti di riferimento sono Drudge Report, un misto di cattiveria e veleno. The DailyBeast di Tina Brown, che è una brava giornalista. E HuffingtonPost, esempio da seguire perché è partito con quattro lire per poi diventare il più importante blog americano.

Vedo che si abbevera solo all’estero.
Da noi oltre ai siti dei grandi giornali ce ne sono alcuni di eccellenti. E non penso solo al bravissimo Dagospia. Ci sono Affaritaliani, il Velino, Informazione…

Pensi al giorno in cui, come è successo ad Arianna Huffington, un fondo busserà alla sua porta con 25 milioni di euro.
Qualcuno mi aveva offerto dei soldi, ma io voglio essere prudente. Cominciare a 40 anni è un conto, ma io ne ho 64 e se fallisco sono morto. Ora che ci penso, c’è un altro sito che mi piace, si chiama Gawker, fa gossip sul mondo dei media. Di recente ho letto tutti i pettegolezzi sul tycoon dei media Summer Redstone che ha lasciato la moglie per mettersi con la hostess del suo aereo.

E chi lo fa?
Nick Denton, un ex giornalista omosessuale del Financial Times, e lo fa benissimo. Adesso si è messo a prendere in giro Roubini, sa l’economista che aveva previsto la catastrofe, perché ha tappezzato le pareti di casa sua con quadri di donne nude.

Ma a giudicare la montagna di giornali che invade casa sua la carta le piace ancora. Cosa legge la mattina?
Repubblica.

Troppo facile.
Il Corriere, il Sole, il Messaggero e molto la Stampa. Giulio Anselmi ha un carattere di m…, ma lo ha fatto diventare un gran bel giornale.

E i settimanali?
Guardo l’Espresso, anche perché confesso un’adorazione per Daniela Hamaui, una che nel giornale sa sempre mettere qualcosa che non ti aspetti e ti sorprende. E poi guardo con attenzione Chi.

«Chi» è il vero news magazine dei nostri tempi, un compendio di antropologia del potere cafonalotto e trionfante.
E guarda caso Chi non ha sito internet.

Provocazione. La tivù si ristruttura meglio dei giornali. Vedi Mediaset che diversifica dalla tv generalista.
Non è vero. Parliamo dell’America, dove è già successo tutto. Lì la tivù ha ucciso i giornali. Non i tre network, ma i cento canali via cavo che sono arrivati fin nelle lande più desolate del Paese. Allora i giornali, specie quelli della sera, hanno cominciato a chiudere.

È per questo che qualcuno ha avanzato l’idea di farne una specie protetta da sottrarre ai condizionamenti del conto economico?
Qualcuno lo pensa, ma non ci credo. E poi sarebbe come la Jugoslavia. Guardi in Gran Bretagna The Guardian, l’unico di sinistra in un mercato di giornali tutto di destra. Fa capo a una fondazione, perché il vecchio Scott non aveva eredi. Dopodiché il giornale è gestito da una Spa.

A un grande manager editoriale non si può non chiedere di dire una prece al capezzale dell’Unità. Si ricorda di quando alla domenica col porta a porta vendeva un milione di copie?
Sì, peccato che allora i comunisti avessero il 30% dei voti. È un giornale troppo legato alla sua storia per poterlo tirare su.

Anche se a dirigerlo c’è una sua ex dipendente?
L’Unità è entrata in crisi ancora prima della caduta del Muro. Mario Lenzi, quando ne era presidente, commissionò una ricerca da dove venne fuori che il lettore tipico era sessantenne e stalinista. Mi disse: «Sai, ogni vecchio compagno che muore per noi è un lettore in meno che non viene sostituito ». Si ricorda di quando Togliatti non volle inaugurare la sede di Milano perché diceva che era una megalomania?

No. Declino irreversibile?
Il declino non lo fermi con una ragazza brava, simpatica e carina, ma nemmeno prendendo le migliori firme del mondo. Se non altro perché ti toccherebbe pagarle.

Eppure alla fine si trova sempre qualcuno che sui giornali è disposto a mettere soldi.
Giorgio Fattori, che per me è stato come un vecchio zio, mi diceva: «Gli industriali si sono rovinati di più con i giornali che con le donne e i cavalli». I padroni sono affascinati dal mestiere, dicono al giornalista di dargli del tu, e i giornalisti accettano così si sentono importanti. Ha mai visto un capo azienda dare del tu al suo direttore amministrativo? Romiti dava del lei a tutti, persino a Paolo Mattioli che si è comportato con lui più che da figlio. Ma da una sua intervista apprendo che con Concita De Gregorio si danno del tu.

Sbaglio o adesso Repubblica sembra un po’ in affanno sul Corriere?
Ma quando mai, in edicola vende di più. La differenza è nelle copie regalate.

Venendo da lei non ho potuto fare a meno di alzare lo sguardo all’ultimo piano del palazzo di fronte. Ci si immagina ancora Carlo Caracciolo seduto sul divanetto del soggiorno.
Sua figlia Jacaranda mi ha portato una suo foto con una bella dedica. E Montezemolo continua ancora a chiedermi dei quadri che mi ha lasciato in eredità.

Se è per questo anche Ciarrapico è fiero del suo bastone da passeggio col pomello in argento. L’impressione comunque è che per età o l’uscita di scena di alcuni suoi protagonisti sia venuto meno quel patto che ha permesso a Repubblica di prosperare.
Non sono d’accordo. Se mai Repubblica ha altri problemi, in primis quello di essere troppo romanocentrico. Scrive ogni giorno della Caffarella, ma a Verona o Mantova sanno cos’è la Caffarella? E soprattutto cosa gliene importa?

Francamente mi sembra più problematico essere un giornale di sinistra quando la sinistra non c’è più.
Il giornale ha avuto un momento di difficoltà quando Eugenio si è buttato su Occhetto, meno male che ha vinto D’Alema. La bravura di Ezio Mauro è stata quella di aver dato spazio a tutti. Prima Repubblica si occupava di Bertinotti come dello scemo del villaggio, Ezio invece lo ha assurto al rango di protagonista importante. E così anche per molta della destra. Secondo lei se Fini vuole spazio lo trova su Repubblica o sul Giornale?

Repubblica è un caso interessante. Le incomprensioni in casa De Benedetti rivelano un non banale dilemma tra ragioni del cuore e quelle del conto economico.
Siamo stati tutti figli…

Magari non di padri così ingombranti.
Per fortuna, se no uno non ha alternative: o lo uccide o scoppia. Invece Rodolfo per me è stato un bravissimo azionista, e lo dico da manager che ha lavorato con lui per quindici anni.Quando ho deciso di partire col «D» di Repubblica mi sostenne in tutto e per tutto.

Tra dieci anni, a parte il suo sito che sarà fortissimo, cosa vede?
Vedo che sarà meglio che tra cinque, questo è il momento della transizione, ovvero il peggiore. Gli editori si ritrovano con un vecchio apparato dai costi sproporzionati alle diffusioni e alla raccolta pubblicitaria. Bisognerà ridimensionare tutto senza far morire il mestiere. E poi ci sarà internet, che adesso ancora non spopola perché il mercato non lo riconosce. A proposito, ha visto la campagna online di Danacol?

Le pare che si possa perdere Little Tony in versione anti colesterolo?
Alla Danone c’è una signora brava che si chiama Bergamini…

Ma non stava in Parlamento con Forza Italia…
Questa è Marcella Bergamini, viene dalla Rcs e, pur sapendo che i suoi datori di lavoro hanno la televisione in cima ai pensieri, prova a sperimentare mezzi nuovi e meno costosi. Quando la signora Bergamini paga un decimo di quello che paga l’inserzione sul Corriere e magari funziona anche, è un buon segno.

La nuova avventura non cancella però il passato.
Un lungo passato: quarant’anni di editoria di cui 28 come manager.

Siccome le piace il gossip, mi corre l’obbligo di dirle che girano voci su un suo ritorno alla plancia di comando dell’Espresso.
Quale migliore occasione di avere a disposizione l’interessato per smentirle?

E la sua fama di mastino delle redazioni a cosa si deve?
Forse al fatto che ho pronunciato spesso dei no in un ambiente dove dire sì è molto più facile, e ti risparmia un sacco di grane. E poi perché ho fatto tante ristrutturazioni, ma pensando sempre a salvaguardare il lavoro, non a distruggerlo.

Il mestiere le ha dato molto, compresa questa imponente casa.
Merito della lotteria delle stock option. È una questione di tempistica, se le avessi adesso sarei povero in canna.

Lei ha cominciato come giornalista alla Stampa, che era il suo mito.
In Liguria c’era la Stampa. Luigi Russo scrisse su Belfagor un saggio che comparava il Corriere diretto da Alfio Russo alla Stampa di Giulio De Benedetti. Il primo lo definiva il giornale dei cotonieri lombardi, il secondo il giornale della classe operaia più colta. Insomma, la Stampa era l’innovazione, il Corriere la tradizione.

Ai suoi tempi alla Stampa c’era una bella squadra di giovani.
Sì, e Fattori è stato un perfetto direttore. Ma Montezemolo e io dovemmo sudare per convincere l’Avvocato a prenderlo.

Non gli piaceva?
Diceva che era vecchio, anche se aveva solo 51 anni. Ma poi si parlarono e lì nacque l’amore. Fattori era anche amico di Romiti, poi non so perché litigarono, questioni di donne o di figli. Alla fine, poveretto, si ammalò per le vicende di Gemina.

Lei è sempre stato di sinistra?
Sinistra centro. Anche se, non raccontiamocela, l’Italia è sempre stata democristiana. Berlusconi ha detto ai suoi di stare attenti a Franceschini mica per altro, perché è un ex democristiano. Per questo il Giornale gli sta facendo la campagna contro.
De Benedetti l’ha conosciuto in Fiat?
No, l’ho conosciuto prima, quando era presidente dell’Unione industriali. Carlo in Fiat ha avuto l’enorme merito di aver spalleggiato Giovannini durante i 25 giorni di sciopero dei poligrafici della Stampa nel 1976.

Era molto legato a Giovannini.
Nella storia dell’editoria ha avuto uno straordinario merito: far passare la legge sull’editoria grazie alla quale lo Stato diede agli editori almeno 300 miliardi di lire. Invece che comprarsi ville o barche, ebbero il buon gusto di reinvestirli nelle loro aziende. Senza quella legge non ci sarebbero molti giornali, tra cui parecchi del gruppo Espresso.

Poi l’Ingegnere la chiamò all’Espresso.
No, mi ha chiamato Caracciolo e mi ha portato da lui. Da lì è nato il sodalizio.

Lei era in sella quando Berlusconi voleva prendersi Repubblica.
Non ci ho mai creduto. Ha ragione Ciarrapico: Andreotti non avrebbe mai consentito un’operazione che avvantaggiava in quel modo Craxi.

E se invece fosse successo?
Berlusconi avrebbe fatto fuori Caracciolo, non Scalfari. Una delle prima volte che lo vidi ai tempi della trattativa mi disse: «Io ho bisogno dell’alleanza di Eugenio». Detto questo continuo a pensare che Berlusconi sia uno che arriva prima di tutti, è uno che mentre ti dice ci vediamo al bar è già là che ti aspetta. Però editorialmente ha commesso solo due errori.

Quali?
All’epoca ha sottovalutato Caracciolo, poi non ha capito le potenzialità e la capacità di Murdoch.

Siamo alla fine. Le sue cose più significative oltre, buon per lei, alle sue stock option?
Beh, qualcosa di buono mi sembra di averlo fatto. Penso al «D»di Repubblica, all’introduzione del colore sul quotidiano, alla fiducia data a Linus quando Claudio Cecchetto uscì dalla radio.

E gli errori?
Su quelli stendiamo un velo pietoso. L’inferno è la contemplazione per l’eternità delle cazzate fatte. In fondo ho solo 64 anni, un po’ presto per iniziare a contemplare no? (Beh, buona giornata).

Share this nice post:
Share this nice post:
Share and Enjoy:
  • Print
  • Digg
  • StumbleUpon
  • del.icio.us
  • Facebook
  • Yahoo! Buzz
  • Twitter
  • Google Bookmarks
Share

Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: