di Marcello Villari – Megachip
Dice il proverbio: “mal comune mezzo gaudio”. Dal momento che, date le circostanze, di gaudio non ce n’è per niente, resta solo il mal comune e cioè il fatto che i governi di tutto il mondo appaiono in difficoltà nel gestire una crisi di queste dimensioni, che non si aspettavano e che si presenta più dura e di più lunga durata rispetto alle previsioni degli ottimisti.
Da Barack Obama a Gordon Brown, da Angela Merkel al nostro presidente del consiglio, passando per Nicolas Sarkozy il panorama non cambia molto nella sostanza: si procede per tentativi, cercando di tamponare qua e là le falle più grandi e pericolose rovesciando sul mercato quantità mai viste in passato di denaro pubblico. O tentando, come sta facendo il presidente americano, di mettere in campo un piano di intervento statale da economia di guerra, con elementi di redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e dei ceti più deboli.
Certamente tutto questo è servito a evitare un crollo sistemico di proporzioni inimmaginabili: «a settembre e ottobre siamo arrivati molto vicino al collasso finanziario globale, una situazione in cui sarebbero fallite molte delle più importanti istituzioni mondiali…»: sono parole del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, pronunciate nella sua audizione al Congresso degli Stati Uniti del 25 febbraio scorso. All’accorato e drammatico racconto di Bernanke si potrebbe aggiungere – tanto per non dimenticare – che il “Washington Consensus” – di cui la FED è stata uno dei pilastri – cioè l’espansione globale del modello americano, ha portato l’economia mondiale a un passo dal baratro.
E il fatto che i governi abbiano difficoltà serie a delineare politiche in grado di fronteggiare efficacemente la crisi deriva anche dalla circostanza che nessuno sa esattamente a quanto ammontino i “titoli tossici”, cioè la spazzatura in giro per il mondo frutto di quella “finanza creativa”, un tempo non molto remoto segno di modernità e di successo. Si tratta comunque di cifre da capogiro.
Pur nei limiti ristretti consentiti da un alto debito statale e aiutato dalla circostanza che le banche italiane si sono esposte di meno con la “finanza creativa” anche il nostro governo ha messo in campo le sue risposte. Rottamazioni per aiutare i settori in crisi, i “Tremonti bond” per aiutare le banche a fornire liquidità alle imprese e 8 miliardi di euro per i prossimi due anni per finanziare gli ammortizzatori sociali.
Con in più una particolarità tutta nazionale: mentre Obama e gli altri leader europei avvertono i loro concittadini che avranno di fronte mesi di lacrime e sangue, che bisogna rimboccarsi le maniche, riconoscendo – chi più chi meno – pubblicamente che la festa è finita e che bisogna cercare altre strade – Obama lo sta facendo – e insomma non hanno nascosto la triste realtà, il nostro presidente del consiglio trasuda ottimismo da tutte le parti… consumate e andrà tutto bene: sarebbe comico se non fosse tragico.
Il fatto è che anche queste misure – più o meno analoghe a quelle di altri paesi – sono certamente meglio che niente, forse tamponeranno qualche falla, ma non molto di più.
E sono, inoltre, drammaticamente insufficienti sul piano della protezione sociale: entro la fine di quest’anno vengono a scadenza i contratti a termine di 2 milioni e 400 mila lavoratori precari che quasi sicuramente non verranno rinnovati.
Intanto a febbraio (dati Confindustria) la produzione industriale è caduta, su base annuale, del 29,9 per cento, cresce fortemente il ricorso alla cassa integrazione e l’occupazione cala. Migliaia di lavoratori immigrati rischiano il posto di lavoro e con esso l’espulsione dal paese. Drammi sociali di vasta portata che possono aprire conflitti interni fra i lavoratori, come è già accaduto in Gran Bretagna, o un’agitazione sociale che il tentativo di limitare il diritto di sciopero non riuscirà a nascondere.
All’origine di questa visione “leggera” – per così dire – della crisi probabilmente non c’è solo il modo di essere di Berlusconi o la concezione un po’ furbesca tipica di una certa destra italiana che nei momenti di difficoltà, invece di cercare coesione nazionale o porsi il problema di far uscire tutto il paese dalle difficoltà ricorre al classico “che ognuno si arrangi come può”.
Il professor Tito Boeri ha fatto notare come siano stati drasticamente ridotti – del 24 per cento, con punte del 50 per cento nel Sud – i controlli degli ispettorati del lavoro sulla regolarità delle imprese. Nella circolare del Ministero si legge: «La criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su un’azione selettiva e qualitativa, diretta a eliminare ostacoli al sistema produttivo». Insomma – come nota il professor Boeri – si preferisce chiudere un occhio di fronte a forme di lavoro sommerso e irregolare: «la distruzione creativa che avviene nelle recessioni avrà così luogo all’inverso: sopravvivenza garantita alle imprese a bassa produttività, mentre si tartassano le imprese in regola e quelle che hanno maggiore potenziale di sviluppo» («la Repubblica», 25 febbraio 2009).
Come dire: siate furbi, licenziate e poi riprendete i vostri dipendenti in nero, vi costeranno meno e lo stato farà finta di non vedere. Ma appunto la lungimiranza e l’idea di sforzo comune non fanno parte del bagaglio politico e culturale degli eterni “ottosettembristi”, quel male oscuro che continua a corrodere la nostra Repubblica.
Ma non è solo questo. Nel nostro governo probabilmente credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera. È vero, solo che questa “superiorità” si potrà vedere solo quando saremo usciti dalla crisi, non certo adesso. Nel senso che a differenza di paesi come la Gran Bretagna e la Spagna che hanno basato la loro crescita su finanza e edilizia (per restare in Europa perché il caso degli Stati Uniti è più complesso), l’Italia (come la Germania) potrà ripartire con una struttura economica più solida, ma solo se si metterà mano a quel salto tecnologico, sempre invocato e mai attuato con politiche statali all’altezza del problema.
In questa situazione di crisi invece i paesi manifatturieri come il nostro rischiano di sopportare conseguenze non meno ma più pesanti degli altri. La spiegazione è semplice: quella che sta stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria, ma una vera e propria crisi di sovrapproduzione, nel senso che nel mondo c’è una capacità produttiva enorme che non ha una domanda in grado di assorbirla. Come dimostra anche il crollo delle nostre esportazioni, a gennaio, nei confronti dei paesi extra UE: meno 29,9 per cento (rispetto al gennaio 2008), conseguenza del crollo del commercio mondiale.
Fin quando gli Stati Uniti sono riusciti a sostenere i consumi – permettendo alle famiglie di indebitarsi e alla finanza creativa di guadagnarci su – il meccanismo è andato avanti. Quando è scoppiata la bolla dei subprime l’intero castello di carte è crollato, e senza fare debiti i lavoratori (o la classe media, si chiami come si vuole) non sono in grado con i redditi da lavoro di consumare tanto da produrre profitti per le imprese manifatturiere.
Quando, indebitandosi, gli americani consumavano alla grande (i consumi costituiscono circa il 60 per cento del Pil degli Stati Uniti) i cinesi vendevano i loro prodotti a basso costo, italiani e tedeschi fornivano loro i macchinari per fabbricarli, i giapponesi lo stesso e via discorrendo… attraverso le mille connessioni della globalizzazione il meccanismo alimentato dal debito girava… ma adesso?
In questi anni tutte le statistiche hanno documentato con abbondanza di dati (non solo in Italia) la concentrazione della ricchezza in mano di pochi e l’impoverimento relativo della classe media. «Il reddito che spetta ai lavoratori viene espropriato in una misura che avrebbe scioccato persino Karl Marx», scriveva nel lontano marzo del 1996 il «New York Times». La quota dei redditi da lavoro sulla ricchezza nazionale si è ridotta ovunque in modo impressionante. Nel caso italiano poi il passaggio all’Euro ha aggravato ulteriormente la situazione, con il raddoppio di fatto dei prezzi al consumo mentre salari e stipendi restavano allo stesso livello dei tempi della lira.
Oggi, di fronte al dramma sociale della crisi e ai problemi di mercato delle imprese l’opposizione parlamentare chiede misure forti di sostegno dei redditi. Verrebbe da dire: dove eravate quando avvenivano quegli impressionanti spostamenti di ricchezza? A sostenere la vulgata corrente sulla “sovranità del consumatore” (a debito), sui prezzi che dovevano scendere per effetto delle liberalizzazioni come se il basso costo di una merce non lo stesse pagando in termini salariali qualcuno da qualche parte del mondo (Italia compresa).
Bastava fare un sforzo di analisi per capire che questa corsa al ribasso in nome del consumatore prima o poi sarebbe finita perché il Consumatore – con la C maiuscola – era anche un lavoratore, un impiegato, un percettore di reddito fisso.
E bastava non credere all’altra favola di “quelli-che-la–globalizzazione-risolve-tutto” e cioè che la formazione di classi medie in paesi in pieno sviluppo come Cina, India o Brasile avrebbe potuto compensare, sul piano dei consumi e quindi dell’assorbimento della capacità produttiva, l’impoverimento relativo dei lavoratori dei paesi ricchi.
Ecco perché la crisi sarà lunga e di difficile soluzione e perché salvare le banche – intervento ovviamente giusto per evitare il baratro – non ha impedito un suo aggravamento e i timori di una deflazione…
Ford negli anni Venti aveva trovato una soluzione, gli alti salari, ma allora non c’erano la globalizzazione e i cinesi…
Oggi bisogna inventarsi qualche altra cosa – come sta appunto tentando di fare Obama – ma il problema non è molto diverso da quello di allora, adesso che i consumatori, ritornati a essere, come d’incanto, di nuovo lavoratori non hanno i soldi per esercitare la loro sovranità e per far girare l’economia… (Beh, buona giornata).