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Crisi globale: “ci muoviamo in direzione di un cambiamento delle priorità del sistema economico o per restaurare la dominanza delle vecchie posizioni di rendita?”

di Tommaso De Berlanga-Il Manifesto.

Il più attento analista del capitalismo britannico – Martin Wolf, sul Financial Times – mette in dubbio la sensatezza dell’attuale strategia di intervento del governo inglese nel salvataggio del sisema bancario “basato in Gran Bretagna” (ma con infinite propaggini in tutto il mondo). Così procedendo, infatti, lo stato si va trasformando in “assicuratore di ultima istanza”. Ma con diversi problemi. Molto concreti.

Al 31 dicembre 2008, infatti, il patrimonio totale del sistema bancario assommava a quasi 9.000 miliardi di euro, cinque volte e mezzo il pil d’Albione. Soltanto gli asset di Royal Bank of Scotland (di fatto ormai nazionalizzata) valevano in quel momento il 166% del pil. L’ultima tegola su Gordon Brown è solo di ieri: i Lloyds non ce la fanno a incorporare Hbos, altra enorme banca internazionale battente bandiera inglese, e lo stato potrebbe essere costretto a prendere una partecipazione di quasi il 70% dell’istituto risultante da questa mega-fusione. Accollandosi anche l’”assicurazione” di circa 300 miliardi di euro in titoli tossici.

Molto semplicemente, queste cifre non sono nelle disponibilità dello stato britannico. Che si espone così a un rischio sistemico diverse volte più grande di se stesso. La metafora usata da Wolf è del resto pertinente: un pitone che ingurgita un ippopotamo.

Negli Usa o in Germania si va fin qui procedendo su una strada simile, al di là delle misure nazionali elaborate. Al dunque, questo intervento pubblico si concretizza nell’accollare ai contribuenti ogni perdita possa ancora verificarsi, senza alcuna contropartita reale (non è detto, infatti, che queste banche così generosamente salvate continuino ad operare come prestatori al sistema delle imprese e alle famiglie).
Con l’aggravante, spiega il recente Nobel per l’economia, Paul Krugman, che quando ad esempio l’amministrazione Obama prova davvero a mettere le mani sulle “disfunzioni bancarie”, si mostra in realtà troppo esitante. Favorendo così l’opposizione conservatrice (e le relative lobby) che non vuole condizionamenti pubblici all’iniziativa economica privata, a dispetto dello scatafascio che ha lasciato dopo 30 anni di neoliberismo.

Non c’è dunque soluzione? Sul piano strettamente economico si tratta di stabilire chi è che paga per i debiti accumulati: se gli azionisti delle istituzioni finanziarie a rischio fallimento oppure i contribuenti (ovvero, soprattutto il lavoro dipendente e i pensionati). Se gli stati prendono “partecipazioni” nelle banche e nelle assicurazioni “a prezzo di mercato”, accollandosi anche la garanzia di prodotti “derivati” ormai senza valore, la crisi viene fatta pagare a chi non ne è stato responsabile. Se, invece, lo stato – meglio ancora una comunità di stati, come l’Unione europea – prende possesso delle banche mediante espropriazione senza indennizzo, allora il cumulo di debiti viene fatto scontare a chi l’ha materialmente e immaterialmente messo insieme: finanzieri, speculatori, gestori del risparmio, ecc.

Neppure questa è una soluzione indolore per lavoratori e pensionati (basti pensare all’imposizione criminale dei “fondi pensione privati” come destinatari del tfr), ma non li vede in prima fila tra i donatori di sangue e – soprattutto – mette le basi per la ricostruzione di un sistema del credito globale funzionale alla riproduzione sociale. E non, com’è stato da Reagan in poi, viceversa.

Da questa crisi – ci dicono tutti – non si uscirà uguali a prima. Bene, si tratta allora di fare una scelta di natura politica (e sociale), non astrattamente “tecnica”: ci muoviamo in direzione di un cambiamento delle priorità del sistema economico o per restaurare la dominanza delle vecchie posizioni di rendita? (Beh, buona giornata).

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Di Marco Ferri

Marco Ferri è copywriter, autore e saggista, si occupa di comunicazione commerciale, istituzionale e politica.

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