di Luca Lippera da ilmessaggero.it
ROMA (5 marzo) – «Vede? Sta ancora lì, appeso… E non ho mai capito perché la polizia non è più venuta a prenderlo. Eppure io gliel’ho detto che sta qui…». Tra le tante stranezze del caso della Caffarella, la più strana, ma davvero strana, è rimasta pietrificata nel “Simon Bar” di via Crivellucci 6. È l’impermeabile, sporco di sangue e di chissà cos’altro, in cui la vittima dello stupro di San Valentino fu avvolta la sera del 14 febbraio dalla titolare della tavola calda. Sulla fodera interna, ci sono, ben visibili, almeno quattro macchie che potrebbero rivelare, oltre ai liquidi organici della vittima, quelli degli assalitori tuttora sconosciuti. «La ragazzina tremava racconta Alessandra Bruni, 24 anni, contitolare del “Simon Bar” e aveva sangue lungo le gambe. Così la avvolsi nel mio trench. Quando arrivò la polizia, segnalai il fatto, ma l’abito, nella foga, è rimasto qui. Ora non so se chiamare qualcuno, perché non vorrei dare l’impressione di forzare la mano…».
Lo “spolverino”, beige scuro, un modellino tipo Sherlock Holmes, è tuttora appeso insieme ad altri soprabiti accanto all’ingresso della cucina del “Simon Bar”. Il locale, un posto carino e tranquillo, proprio davanti al Parco della Caffarella, è stato il primo approdo dei ragazzini dopo quello che vissero nella boscaglia. «Non mi azzardo neppure a toccarlo continua la Alessandra Bruni, un bel bambino di un anno in braccio, toscana d’origine, poi cresciuta a Milano Non vorrei “inquinare” una cosa che potrebbe tornare utile. Sono passati i giorni. Pensavo che prima o poi gli agenti della polizia sarebbero venuti a prenderlo. Ma non non s’è visto nessuno. Per carità: non voglio assolutamente permettermi di suggerire a chi indaga cosa va fatto. Però non so come comportarmi. Così l’ho lasciato lì. Se è un oggetto utile, prima o poi me lo chiederanno…».
Sentirle, certe parole, e vederlo lì l’impermeabile sporco di sangue fa davvero riflettere. Alexandru Isztoika, 19 anni, e Karol Racz, 36, i romeni, sono in Carcere a Regina Coeli accusati di una violenza che ha scosso nel profondo la città per la ferocia e l’età della vittima. Sul corpo della ragazzina seviziata nel giorno di San Valentino non ci sono tracce del loro Dna: perfino il liquido seminale non porta ai due immigrati. Ma sull’attaccapanni di un bar dell’Appio riposa, mentre la Procura e la Questura difendono l’inchiesta, un indumento che magari potrebbe aiutare le indagini in un senso o nell’altro. Sembra però che la cosa non interessi. «Non vorremmo aver rivelato un fatto inopportuno si preoccupa Roberto, 50 anni, contitolare del “Simon Bar” è solo che veramente, specie dopo le ultime notizie che si sono sentite, il Dna e tutte queste storie, non sappiamo cosa fare».
I titolari del bar la sera del 14 febbraio scorso se la ricordano bene. Un racconto, il loro, che apre altri scenari e ulteriori riflessioni. «Ero qui ricorda Roberto e il ragazzino ce l’ho ancora davanti agli occhi. Alessandra li aveva fatti sedere tutti e due. Lui stringeva la mano alla fidanzatina e diceva: “Erano un arabo e uno zingaro, un arabo e uno zingaro…”. L’ha ripetuto non so quante volte. Quella era, a caldo, la sua prima impressione, forse quella più netta. Quando mi hanno convocato in Questura, l’ho ripetuto agli agenti che mi hanno sentito: “Un arabo e uno zingaro”, lui diceva così. Tra l’altro, da quello che ho capito, il ragazzo ci aveva parlato e aveva avuto modo di rendersi conto di chi aveva di fronte. Ci raccontò, insieme alla ragazza, che uno dei violentatori, prima che la situazione precipitasse, si era avvicinato alla panchina chiedendogli una sigaretta. Dunque l’aveva visto in faccia e credo che ne avesse percepito l’accento. Non siamo certo noi a poterlo dire. Ma forse era un dettaglio importante…».
Forse. Come un impermeabilino sporco di sangue che evidentemente non merita attenzione. Tanto, prima del Dna, c’erano i romeni. (Beh, buona giornata).