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Mentre l’Europa va a destra, l’economia va a fondo.

Quali prospettive per l’economia mondiale? – Economiadi Stefano Sylos Labini – da eticaeconomia.it/megachip.info

Oggi ci troviamo in un momento cruciale nell’evoluzione dell’economia mondiale. Da un lato il sistema capitalistico è precipitato in una gigantesca crisi di sovrapproduzione la quale è scoppiata per effetto del crollo della domanda aggregata.

Dall’altro lato le politiche keynesiane di spesa in deficit, che in questo periodo sono affiancate da una fortissima espansione monetaria attuata dalle Banche Centrali di tutto il mondo, rappresentano nel breve periodo l’unico sistema di intervento in grado di trainare la ripresa della domanda, della produzione e dell’occupazione. Così l’espansione del debito può far crescere il Pil e il gettito fiscale esercitando una spinta verso il contenimento del rapporto tra debito e reddito. La ripresa dell’economia a sua volta è una condizione fondamentale per riattivare il credito bancario e più in generale la creazione di moneta (potere di acquisto) da parte del mercato.

Nel modello di sviluppo che ha prevalso a partire dagli anni di Reagan e della Thatcher (inizio degli anni ’80) e che ci ha fatto precipitare nell’attuale crisi finanziaria ed economica, la crescita dei salari, della spesa sociale e dell’offerta di moneta pubblica (base monetaria) è stata sostituita con un’espansione eclatante dell’indebitamento privato . Così la domanda di beni di consumo, di abitazioni e di attività finanziarie è stata alimentata in larga misura dal credito bancario e da strumenti derivati[1].

Oggi il modello di sviluppo fondato su una crescente divaricazione nella distribuzione della ricchezza mostra tutti i suoi limiti perché l’eccesso di indebitamento privato può avere degli effetti nefasti nel momento in cui la crescita dell’economia tende a rallentare, si creano delle aspettative negative ed inizia a ridursi il prezzo degli immobili e delle azioni che garantivano i debiti privati. Nel settembre del 2008 tali fenomeni hanno provocato il crollo della fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento e la paralisi del credito bancario all’economia. Si è determinata così una violentissima restrizione monetaria che ha prodotto un’enorme vuoto di domanda e quindi la caduta della produzione e dell’occupazione.

Si tratta perciò di rivedere il modello di sviluppo che si è imposto negli ultimi 30 anni perché senza un nuovo consumatore che prenda il posto del consumatore americano iper-indebitato, il mondo rischia di andare incontro ad un periodo prolungato di rallentamento economico.

In altri termini, la crisi che il mondo attraversa non è ciclica ma strutturale ed è legata all’eccessiva dipendenza dal consumatore americano. Il pianeta ha bisogno di maggior consumo in India, Cina ed Europa altrimenti, sarà difficile che ci sia una domanda adeguata in grado di assorbire le enormi potenzialità produttive che oggi esistono nei paesi avanzati e nei paesi di recente industrializzazione come Cina e India. E una maggiore domanda la si può ottenere solo puntando sull’espansione dell’occupazione e sulla crescita dei salari di centinaia di milioni di persone. Ciò significa che gli interventi pubblici attuati nel breve periodo vanno accompagnati con politiche per la redistribuzione del reddito che si devono fondare su una decisa lotta all’evasione fiscale e su una maggiore tassazione dei redditi alti, dei beni patrimoniali e delle attività finanziarie.

Nei paesi avanzati la creazione di occupazione e l’aumento dei salari rappresentano delle condizioni fondamentali non solo per il sostegno dei consumi, ma anche per la riduzione del lavoro precario e per eventuali riforme volte ad innalzare l’età pensionabile. Quest’ultima è una richiesta che proviene in primo luogo dalle Associazioni degli Industriali, le quali durante le fasi di crisi si comportano esattamente al contrario poiché ricorrono alla cassa integrazione e ai pensionamenti anticipati delle unità di lavoro più anziane con i livelli retributivi più alti.

L’eccesso di offerta in rapporto alla domanda e la disponibilità di forza lavoro abbondante e a basso costo a livello mondiale hanno determinato la continua perdita di forza contrattuale dei lavoratori sul piano economico e la crisi delle forze di sinistra sul piano politico. I salari dei lavoratori dei paesi avanzati con il procedere della globalizzazione e con la comparsa di nuove aree produttive sulla scena mondiale hanno subito una concorrenza fortissima da parte dei lavoratori immigrati a basso costo in patria e dei prodotti a basso costo realizzati nei paesi in via di sviluppo. A questo si aggiunge una tendenza verso la frantumazione delle attività produttive determinata dai fenomeni di esternalizzazione e del sub-appalto oltre ad un abnorme espansione del lavoro precario e ad un aumento rilevante della disoccupazione. Per tali motivi oggi è molto difficile mettere in pratica politiche redistributive in grado di far crescere i redditi più bassi nei paesi avanzati.

Per cercare di rompere questa situazione negativa la prima cosa da fare sarebbe quella di creare un salario minimo al di sotto del quale non si può scendere. E’ vero che questo intervento potrebbe determinare il ricorso al lavoro nero, per questo il salario minimo deve essere composto da una quota che viene pagata dall’impresa a cui si aggiunge una quota che deve essere corrisposta dallo Stato sottoforma di affitti agevolati, tariffe elettriche, telefoniche e del gas scontate, detassazioni sui beni di prima necessità, servizi a prezzo sociale (scuola, spese mediche, ecc.).

Ma come fare se i paesi avanzati hanno un deficit pubblico e delle spese per interessi sul debito molto elevate ? Probabilmente un intervento di sostegno potrebbe essere effettuato attraverso la creazione di base monetaria per assorbire quote rilevanti di debito pubblico. Ciò significa che anche le Banche Centrali dovrebbero svolgere un ruolo attivo nello sviluppo dell’economia, un ruolo che non deve essere solo difensivo e rivolto principalmente a sostenere il sistema bancario come sta avvenendo nel periodo attuale. Come abbiamo visto, in questi mesi la Federal Reserve ha prodotto un’eclatante espansione della base monetaria per cercare di arginare il crollo della domanda, della produzione e dell’occupazione e per evitare il fallimento di gran parte del sistema finanziario americano. E allora perché gli interventi delle Banche Centrali devono essere limitati solo ai periodi di crisi violenta e non devono proseguire sino a che non si raggiungono livelli di piena occupazione e di salari dignitosi per tutti ?

Secondo le concezioni dominanti una tale linea di intervento alimenterebbe l’inflazione, ma se i salari corrisposti dalle imprese crescono con la stessa velocità della produttività non si produce alcuna tensione sui prezzi al consumo, e se esiste capacità produttiva inutilizzata difficilmente si avrà un eccesso di domanda sulla produzione. In effetti oggi l’unico rischio di inflazione proviene dalla crescita del prezzo del petrolio per un aumento troppo rapido dei consumi rispetto all’offerta, per le tensioni geopolitiche e per i fenomeni di speculazione finanziaria. La possibilità di scongiurare l’“inflazione da petrolio” dipende in primo luogo dalla capacità del pianeta di riuscire a sviluppare nel lungo periodo fonti energetiche diverse rispetto ai combustibili fossili. Cioè dipende dalle strategie di politica energetica e industriale che saranno perseguite per aumentare le spese in ricerca, gli investimenti e la produzione di nuove tecnologie energetiche.

Accanto ad un sostegno immediato dei salari e delle fasce sociali più deboli, è augurabile anche un intervento per la creazione di occupazione attraverso grandi progetti tecnologici e infrastrutturali, come sta già avvenendo negli Stati Uniti. In Europa questi progetti potrebbero essere finanziati con gli “eurobonds”. La riduzione della disoccupazione oltre ad alimentare i consumi permetterebbe di far ottenere ai lavoratori un maggiore potere contrattuale e quindi consentirebbe di portare avanti politiche incisive per la redistribuzione del reddito, condizione fondamentale per garantire uno sviluppo sostenibile nel lungo periodo.

Inoltre, è necessario che il settore bancario, in cui vi sono gigantesche concentrazioni di potere, sia messo sotto un controllo politico e sociale molto più stringente di quanto possano fare oggi le autorità antitrust e gli organismi di regolazione internazionali proprio per canalizzare le risorse finanziarie verso gli investimenti produttivi e le spese sociali.

Per concludere, i paesi avanzati hanno altre grandi responsabilità oltre a quelle di offrire salari dignitosi e un’occupazione per tutti i cittadini residenti nei propri territori. Come detto, devono trainare una rivoluzione energetica per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e l’impatto ambientale della produzione e dei consumi sul clima del pianeta. Inoltre, è nell’interesse dei paesi avanzati promuovere lo sviluppo dei paesi poveri. Si tratta di decisioni non più rinviabili per ridurre i fenomeni migratori che stanno mettendo sempre più a rischio la coesione sociale nei paesi avanzati e che non sono moralmente accettabili per le popolazioni povere le quali vengono sradicate dai loro territori e sono costrette ad emigrare in ambienti ostili con dei costi umani altissimi. (Beh, buona giornata).

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[1] E’ importante sottolineare che l’enorme espansione della massa monetaria creata dal mercato sino alla crisi di settembre del 2008 non ha determinato una crescita significativa dei prezzi dei beni di consumo, mentre ha alimentato l’inflazione dei prezzi degli immobili e delle quotazioni azionarie. L’inflazione immobiliare e finanziaria a sua volta attraeva masse sempre più grandi di capitali in questi settori finché i prezzi non hanno iniziato a diminuire.

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Duemilioni di lavoratori senza tutele: “Sarebbe stato bello se, nello studio di “Porta a porta” o in quello di “Radio anch’io”, qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l’inconsistenza dei suoi seducenti “annunci” e l’incongruenza delle sue sedicenti “verità”.

Welfare, le bugie del governo, senza tutele 2 milioni di lavoratori di MASSIMO GIANNINI-Repubblica.it

NELL’archetipo berlusconiano, il “principio della realtà immaginata” è il cuore della politica. La propaganda non lascia spazio alla verità e alla responsabilità. Neanche su una frontiera dolorosa, come la vita agra dei disoccupati e dei precari.

Tutto si gioca sempre e soltanto sulla manipolazione semantica del reale e nella rimozione psicologica dei fatti. Nella “realtà immaginata” dal Cavaliere, dunque, l’Italia è il Paese che “resiste meglio di tutti gli altri alla crisi”. E’ la patria dell’equità sociale, dove un magnifico Welfare “copre tutti quelli che ne hanno bisogno” e dove un governo magnanimo “non lascia indietro nessuno”.

Da almeno due giorni Silvio Berlusconi va ripetendo queste clamorose bugie dai microfoni del servizio pubblico radiotelevisivo. Aveva cominciato due sere fa nel solito salotto di Bruno Vespa, smerciando agli italiani le “meraviglie” del nostro sistema di ammortizzatori sociali, debitamente rimpinguati dal centrodestra, al punto di garantire “a tutti, ma proprio a tutti”, una degna protezione.

Ha continuato ieri mattina nel felpato studio di “Radio anch’io”, smentendo il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, “colpevole” di aver sostenuto l’esatto contrario solo sette giorni fa. “La sua informazione sui precari – lo ha accusato – non corrisponde alle cose che emergono dalla nostra conoscenza della società italiana”. Un concetto un po’ oscuro nella forma, ma chiarissimo nella sostanza: non credete alla realtà empirica descritta da Draghi, europessimista e antitaliano, ma credete alla “realtà immaginata” che vi racconto io, superottimista e salvatore della Patria.

Solo una settimana fa il premier, compiaciuto, aveva definito “berlusconiane” le “Considerazioni finali” del governatore. Se le aveva lette, mentiva allora. Se non le ha lette, sta mentendo adesso. Basta ricostruire i fatti, per svelare la frottola scandalosa pronunciata sulla pelle dei veri “invisibili” (i reietti del lavoro) e per far cadere ancora una volta la maschera circense indossata dal Cavaliere (qui, come sul Casoria-gate o sul dopo-terremoto).

A “Porta a porta” Berlusconi ha dichiarato: “Oggi come mai i cittadini pensano che lo Stato è vicino. Non ho notizia di qualcuno che dica “abbiamo fame”… Abbiamo, ed è già operativo, accorciato le pratiche per la cassa integrazione, e tutti coloro che perdono il lavoro hanno il sostegno dello Stato. Copriamo fino all’80% dell’ultimo stipendio, ma la gente che segue anche dei corsi può arrivare quasi al 100% dell’ultimo stipendio… I “co. co. pro.” possono avere una percentuale rispetto a quello che hanno introitato rispetto all’anno precedente… Ne ho parlato con il ministro Sacconi, ed è tutto già operativo”.

Delle due l’una. O il presidente del Consiglio non sa di cosa parla. O specula politicamente sulla vita della povera gente. E non lo dicono i pericolosi “bolscevichi” del Pd. Lo ha detto, appunto, il governatore di Bankitalia: “Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% dei nostri partner. Il nostro sistema di protezione sociale rimane frammentato. Lavoratori identici ricevono trattamenti diversi solo perché operano in un’impresa artigiana invece che in una più grande. Si stima che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non abbiano diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento. Tra i lavoratori a tempo pieno del settore privato oltre 800 mila, l’8% dei potenziali beneficiari, hanno diritto a un’indennità inferiore ai 500 euro al mese… La Cassa integrazione ordinaria è stata diffusamente usata… la sua copertura potenziale è tuttavia limitata – interessa un terzo dell’occupazione dipendente privata – e fornisce al lavoratore un’indennità massima inferiore, in un mese, alla metà della retribuzione media dell’industria… Per oltre 2 milioni di lavoratori temporanei il contratto giunge a termine nel corso di quest’anno. Più del 40% è nei servizi privati, quasi il 20 nel settore pubblico. Il 38% è nel Mezzogiorno”.

Così stanno le cose nel Paese reale, fuori dal mondo virtuale immaginato da Berlusconi. Perché non è poi così difficile stabilire chi stia mentendo, tra un premier che alla vigilia del voto europeo chiede al “suo” popolo di rinnovare e rafforzare il plebiscito, e un’istituzione neutrale e autorevole come la Banca d’Italia che non chiede niente a nessuno ma esige solo ascolto e rispetto.

Per averne conferma basta interrogare un po’ più a fondo il ministro del Welfare. Chi ha ragione, tra Berlusconi e Draghi? “A modo loro – è la sorprendente risposta di Maurizio Sacconi – possono avere detto tutti e due una cosa vera. Noi abbiamo esteso a tutti i lavoratori subordinati, “potenzialmente”, quella protezione del reddito che oggi, in assenza di queste misure straordinarie, sarebbe limitata solo a una parte dei lavoratori dipendenti: a quelli delle industrie sopra i 15 dipendenti, a una piccola parte del terziario. E questa operazione, da 32 milioni di euro nel biennio 2009-2010, “potenzialmente” copre tutti i lavoratori subordinati, anche quelli con contratti a termine, apprendisti o lavoratori interinali…”.

Il problema è capire cosa significhi quel “potenzialmente”, ripetuto due volte dal ministro. “Si tratta di vedere se il lavoratore ha maturato i requisiti di accesso – è la sua risposta – non si può accedere ai sussidi avendo lavorato solo un giorno. Da sempre, con unanime consenso delle forze politiche e sociali, il sussidio dev’essere responsabilmente gestito sulla base di un periodo già lavorato. Non a caso noi non proteggiamo un giovane in attesa della prima occupazione. Dobbiamo dargli servizi, opportunità di apprendimento, di congiunzione tra la scuola e lavoro, non certo un salario garantito…”. E dunque, per quanti lavoratori la coperta del nostro Welfare sarà inevitabilmente corta, tanto da lasciarli del tutto scoperti? “E’ impossibile dirlo”, conclude Sacconi.

Detto altrimenti: nell’irrealtà berlusconiana tutti sono “potenzialmente” coperti. Nel realtà italiana molti sono “concretamente” scoperti. Quanti siano gli uni e gli altri, in ogni caso, il governo non lo sa. Sacconi, che è persona onesta, ha almeno il coraggio di riconoscerlo. Il Cavaliere, cui manca il pregio minimo della “dissimulazione onesta”, spergiura il suo “tutti”, e la chiude lì. Lo dice Lui, dunque va creduto a prescindere.

Sarebbe stato bello se, nello studio di “Porta a porta” o in quello di “Radio anch’io”, qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l’inconsistenza dei suoi seducenti “annunci” e l’incongruenza delle sue sedicenti “verità”. Ma ancora una volta, in quelle “dependance” mass-mediatiche di Palazzo Grazioli è risuonato solo il Verbo del Cavaliere. L'”irresponsabilità delle parole”, secondo Max Weber, coniugata all'”inverificabilità degli eventi”, secondo Karl Popper. (Beh, buona giornata).

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Secondo Bankitalia Pil a-5%, disoccupazione a +10%. Questa è la crisi degli italiani, questo è il governo dell’Italia.

La terapia della verità di MASSIMO GIANNINI-Repubblica

SERVE l’asciutto neorealismo post-moderno di Mario Draghi, per rompere il finto orizzonte di cartapesta sul quale Silvio Berlusconi proietta il suo personale Truman Show, a beneficio di un “pubblico” che si vuole ormai trasformato in “popolo”. Dopo la Confindustria di Emma Marcegaglia, tocca ora al governatore della Banca d’Italia il compito di raccontare qualche amara verità a un’opinione pubblica sedata dal prozac della psico-politica governativa.

La prima verità è che l’Italia è un Paese in crisi profonda. Quest’anno il Pil crollerà del 5%. Solo nel semestre ottobre-marzo la caduta è stata pari al 7%. La famosa “ripresa”, sbandierata da Palazzo Grazioli, non esiste in nessun luogo. E persino i “recenti segnali di affievolimento” della recessione, secondo Draghi, esistono solo nei “sondaggi d’opinione”.

La seconda verità è che tanti, troppi italiani stanno male. Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% della Ue. La flessione della domanda e dei consumi nasce da un cedimento del reddito e dell’occupazione che si acuirà nei prossimi mesi. Due quinti delle imprese con oltre 20 addetti licenzieranno personale. Due milioni di lavoratori temporanei vedranno scadere il loro contratto entro la fine dell’anno.

La terza verità è che la “coperta” del nostro Welfare, con buona pace dei ministri Sacconi e Brunetta che la considerano la migliore del mondo, è corta e piena di buchi. Oltre 1 milione e mezzo di lavoratori, se licenziati, non hanno diritto ad alcun sostegno, e circa 800 mila lavoratori possono contare su un’indennità che non raggiunge i 500 euro al mese. Serve “una riforma organica e rigorosa” degli ammortizzatori sociali, e “una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti”. Non i pannicelli caldi della Cassa integrazione in deroga, o le pezze a colori dei fondi Fas.

La quarta verità è che anche la straordinaria virtù delle imprese del Quarto Capitalismo rischia di non reggere l’urto delle ristrutturazioni. Nelle prospettive sugli investimenti delle imprese manifatturiere permane “un forte pessimismo” per tutto il 2009. E tra le 500 mila piccole aziende con meno di 20 addetti, che danno lavoro a oltre 2 milioni di persone, è spesso “a rischio la stessa sopravvivenza”. Purtroppo una Fiat che vince in America, o una Tod’s che sbarca in Fifth Avenue, non bastano a fare primavera.

La quinta verità è che una politica economica attendista e rinunciataria ci sta regalando un doppio maleficio: nessuna crescita dell’economia reale, ma nessun risanamento dei conti pubblici. Il governo fa poco per arginare la crisi, ma deficit, debito e spesa primaria corrente continuano a lievitare ugualmente a ritmi vertiginosi. Non è solo l’eredità immane del passato, ma è anche il paradosso italiano del presente. Per questo servono riforme strutturali immediate e “prospettiche”, che ci permettano di rafforzare le manovre anti-cicliche oggi in cambio di un sicuro risanamento di bilancio domani. Dalle pensioni alla pubblica amministrazione, dalla scuola alle infrastrutture. C’è l’imbarazzo della scelta, se solo il governo passasse dalla rappresentazione all’azione.

La sesta verità è che il sommerso, eterna risorsa dell’Italietta furba e irresponsbile, non ci tirerà mai più fuori dal gorgo. L’economia irregolare che pesa per il 15% della ricchezza nazionale è un’anomalia insopportabile anche per un Paese di poeti, di santi e di evasori come il nostro. L’occultamento di una parte così alta di basi imponibili accresce ulteriormente l’onere di chi è ligio al dovere, riduce la competitività delle imprese, accresce le iniquità e “disarticola il tessuto sociale”. E anche qui, il governo non fa quel che deve. Non è un caso che Draghi segnali il collasso delle entrate tributarie. Un gettito Iva che diminuisce dell’1,5%, anche quando i consumi crescono del 2,3%, vuol dire una cosa sola: l’area dell’evasione fiscale si sta allargando.

Sta tutto qui, nel divario tra verità e finzione, l’abisso analitico e “terapeutico” che separa il governo e il governatore. Per Berlusconi la crisi è un “dato psicologico”, virtuale e “percepito”. Per curarla, quindi, basta una tambureggiante psico-terapia collettiva, impartita attraverso il verbo suadente del premier o il titolo compiacente di un tg, per attivare nel cervello del cittadino- consumatore- imprenditore-risparmiatore le endorfine di un “positivismo ad ogni costo”.

Per Bankitalia (come già per Confindustria) la crisi è invece un “fatto economico”, reale e vissuto. Per curarla, dunque, servono riforme vere, qui ed ora, che incidano sull’esistenza quotidiana delle persone, delle famiglie, delle imprese. Usa lo straordinario consenso che hai per cambiare e modernizzare questo Paese, era stata la sfida lanciata al Cavaliere dalla Marcegaglia. Draghi, con parole più sfumate, dice esattamente la stessa cosa. È significativo che a convergere su questa “piattaforma” riformista, contrapposta al “format” populista, stavolta ci siano anche i sindacati.

Sarà anche vero – come sostiene Giulio Tremonti in un’irrituale intervista “a orologeria” uscita ieri sul Sole 24 Ore, guarda caso proprio nel giorno delle Considerazioni finali – che la Banca d’Italia è solo “un’autorità tecnica”, che la vera e unica “sovranità appartiene al popolo” e che “la responsabilità politica è del governo che ne risponde”. Ma resta il fatto che Berlusconi sembra essere rimasto il solo a non capire che il puro galleggiamento, per questo Paese, è inutile. Non ci sarà nessuna quiete, dopo la “tempesta perfetta” che ha travolto noi, e che prima o poi rischia di travolgere anche lui. (Beh, buona giornata).

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L’Italia nella crisi:”sembrerebbe quasi la fine di una lunga fase di imborghesimento della società italiana e l’inizio, per il ceto medio, della paura di perdere terreno.”

Censis: colpiti dalla crisi la metà degli italiani, il 60% riduce i consumi-sole24ore.com
La crisi ha avuto «ripercussioni significative» su un italiano su due, ma ha consentito ai consumatori di «fare pace con l’euro».

Sono le conclusioni a cui arriva la quarta e ultima edizione del “Diario della crisi”, redatto dal Censis, secondo il quale il 47,6% degli italiani è stato «toccato concretamente» dalle difficoltà economiche, «anche se con intensità differenti: quasi il 40% ha subito perdite nei propri investimenti, mentre il 30% ha subito una riduzione del reddito». Allo stesso tempo, «circa il 60% ha cercato di ridurre i consumi, senza grandi differenze tra chi è intervenuto sulle spese in generale e chi solo su quelle voluttuarie», mentre si è ridotta ulteriormente la già modesta tendenza ad indebitarsi: il ricorso al credito al consumo è infatti sceso del 10% nei primi tre mesi dell’anno rispetto al 2008.

Il Censis sottolinea però che «uno degli effetti più imprevedibili della crisi è quello di aver avviato una fase meno risentita nel rapporto tra gli italiani e la moneta unica europea». In particolare, «il mondo dei salariati a reddito fisso ha conosciuto una piccola rivincita su tutti coloro che erano riusciti a speculare con l’euro. Grazie ad un’inflazione sostanzialmente ferma, al calo dei mutui e dei prezzi del carburante, vi è stato un recupero del potere d’acquisto di questa categoria».

Nonostante ciò, rimarca ancora il Censis, al momento resta «la confusione del ceto medio», che sta pagando la fine delle certezze passate, come la crescita costante, il welfare e la sicurezza del lavoro «specialmente per i figli». Secondo l’istituto di ricerca, «sembrerebbe quasi la fine di una lunga fase di imborghesimento della società italiana e l’inizio, per il ceto medio, della paura di perdere terreno». Una paura ancora forte, tanto che per il 68,3% degli intervistati «non è affatto vero che ormai abbiamo toccato il fondo». Per il 55% degli italiani «il soggetto pubblico non ha fatto qualcosa di concreto per famiglie e imprese», il 15% dei cittadini ha mostrato apprezzamento per il lavoro svolto da Comuni, Province e Regioni. (Beh, buona giornata).

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L’Italia non è un paese per giovani.

di ROSARIA AMATO da repubblica.it

L’età giusta per un ingresso adeguato nel mondo del lavoro? Trentacinque-quarant’anni. E per una stabile affermazione professionale? Dai 50 ai 60. Non si tratta di una boutade, ma dei risultati del rapporto del Forum Nazionale dei Giovani e del Cnel, in collaborazione con Unicredit Group, dal titolo ” Urge ricambio generazionale – Primo rapporto su quanto e come il nostro Paese si rinnova”.

Già i titoli dei vari capitoli del rapporto la dicono lunga sulle conclusioni dei ricercatori: “Non è un Paese per giovani: l’emarginazione politica di una generazione”. Oppure “In paziente attesa del proprio turno. Diventare medico in Italia”. O ancora: “L’odissea dei giovani avvocati tra la libera professione e la trappola del precariato”. I vari percorsi professionali analizzati nel corso dell’indagine differiscono tra loro per le caratteristiche, ma non per le enormi difficoltà incontrate in misura sempre maggiore dai giovani, soprattutto negli ultimi anni.

“Il quadro che emerge non è incoraggiante – osservano gli autori del rapporto – e lo spaccato della gioventù italiana è permeato da una forte sicurezza individuale e sociale: i giovani italiani, seppur capaci e meritevoli, a fatica riescono ad affermarsi professionalmente e ad emanciparsi dalla propria famiglia prima dei quarant’anni. Non a caso si è andata affermando una nuova categoria sociale: quella dei giovani-adulti. Né tanto meno i giovani italiani sono nelle condizioni di poter incidere sulle scelte politiche, economiche e sociali della nazione, essendo esclusi da tutti i cosiddetti “circuiti” del potere”.

Under-35: precario uno su due. Prima ancora che dalla politica, tuttavia, l’emarginazione dei giovani italiani nasce nel mondo del lavoro. “Incertezza, disoccupazione, bassi salari sono tre dei principali fattori di disagio con cui i giovani guardano al problema del lavoro”, dice il presidente del Cnel Antonio Marzano. I dati: oltre un collaboratore su due ha meno di 35 anni. Ma non si tratta di contratti d’ingresso: secondo l’Istat, il 73,1% dei giovani che alla fine del 2006 erano assunti con un contratto di collaborazione, a distanza di un anno erano ancora nella stessa posizione. Naturalmente chi lavora per 10 anni a progetto, come collaboratore, o a tempo determinato “ogni volta è costretto a ricominciare dalla base della piramide, rimanendo di fatto escluso dalle posizioni di vertice”.

Per i giovani retribuzioni più basse. Lavori meno importanti, retribuzioni più basse. “Se nel 2003 il guadagno medio lordo di un giovane d’età compresa tra i 24 e i 30 anni – si legge nel rapporto – era di 20.252 euro, rispetto ai 25.032 euro percepiti dagli over50, nel 2007 il divario si è significativamente ampliato: a fronte dei 22.121 euro corrisposti agli under30, i 51-60enni hanno percepito una retribuzione media lorda di 29.976 euro”.

E i disoccupati sono in forte aumento. Ma tra gli under-35 non ci sono solo i precari malpagati, ci sono anche i disoccupati, e ce ne sono molti di più che nelle altre fasce di età. “Tra il 2006 e il 2007 crescono di circa 200.000 i giovani inattivi, cioè ragazzi che non lavorano e non cercano lavoro. Questi giovani hanno avuto un brusco cambiamento di status: nel 2006 erano formalmente inseriti nelle forze di lavoro (come occupati o persone in cerca), mentre nel 2007 hanno deciso di non provare nemmeno a cercare un lavoro”. A questi si aggiungono 430.000 giovani che nel 2006 erano in cerca di prima occupazione, e l’anno successivo sono risultati inattivi.

Classi dirigenti sempre più vecchie. Visto che i giovani sono tenuti fuori dal mondo del lavoro, o al più lavorano in posizione marginali, guadagnando poco, le classi dirigenti negli ultimi anni sono invecchiate inesorabilmente. Da un’analisi condotta sulla banca dati del Who’s who (il database dei top manager pubblici e privati) risulta “un sensibile aumento dell’età delle classi dirigenti italiane: si è passata da una media di 56,8 anni a una di quasi 61 (60,8 anni). Un sistema di potere che invecchia di anno in anno, quello italiano, in tutti gli ambiti: anche i neoparlamentari hanno un’età media di 51 anni. Dal 1992 a oggi i deputati under35 non hanno mai raggiunto la soglia del 10% degli eletti alla Camera, fatta eccezione per la XII Legislatura (nella quale costituivano il 12,4%). Infatti negli anni ’90 sembrava essersi instaurata, almeno nel Parlamento, una dinamica favorevole ai giovani, ma nell’attuale decennio si è decisamente interrotta. E quindi i giovani dai 25 ai 25 anni, che costituiscono il 18,7% della popolazione maggiorenne, hanno una rappresentanza pari solo a un terzo dell’incidenza effettiva sugli elettori.

La Lega Nord il partito più “giovane”. La rappresentanza giovanile è scarsa in tutti i partiti, con l’unica eccezione della Lega Nord, che presenta nell’ultima legislatura un 20,1% di eletti tra gli over35 contro l’11,4% tra i 25-35enni; per gli altri partiti la percentuale di eletti in età matura è quasi il triplo (47,4%). Anche nelle amministrazioni comunali, sostengono gli autori del rapporto, “nell’ultimo decennio gli under35 hanno perso terreno: finanche a livello locale le oligarchie di partito tendono ad estromettere le nuove generazioni dal governo del territorio”.

L’Università: nessun ricambio generazionale. Il rapporto analizza poi alcune professioni in particolare. Si comincia dal mondo accademico, sclerotizzato in misura inimmaginabile: tra i professori ordinari l’età media è di 59 anni. “Nel dettaglio, la metà dei professori di prima fascia ha superato i 60 anni e circa 8 docenti su 100 (7,6%) hanno compiuto i 70 anni”. Non va meglio per le fasce più basse: l’età media dei professori associati è di 52 anni, e quella dei ricercatori è di 45. Solo il 3,4% di chi ottiene un dottorato di ricerca, infine, ha meno di 28 anni.

Ma va male anche nelle libere professioni. Non va meglio nelle libere professioni. Il giornalismo, la medicina, l’avvocatura e il notariato hanno tempi di accesso lunghissimi: “Per i più stage, tirocini gratuiti e condizioni di estremo precariato o sotto-occupazione di susseguono senza soluzione di continuità fino a oltre 40 anni. Qualche esempio: l’età media dei praticanti giornalisti è di 36 anni. I medici con non più di 35 anni sono poco meno del 12%, mentre i 35-39enni, rispetto a 11 anni fa, sono diminuiti del 13,8%. Mentre gli avvocati, pur iscritti all’albo, sono costretti per anni e anni a un ruolo umiliante di garzoni di bottega, e tra i notai due su dieci sono figli d’arte.

I padri tolgono in pubblico e restituiscono in privato. In questo scenario desolante il ruolo delle famiglie è ambiguo. Infatti in Italia ci sarebbero tutte le condizioni perché esploda un feroce conflitto generazionale tra i padri che mantengono il potere fino alla tomba e i figli esclusi, ma non esplode un bel niente perché, rilevano gli autori dell’indagine, “i genitori italiani sono tra i più generosi d’Europa quando è necessario dare un aiuto ai propri figli”, mentre “nel momento in cui sono chiamati a pensare ai giovani in quanto tali (e quindi ai figli degli altri) diventano molto egoisti”. In pratica, conclude il rapporto, “ci troviamo di fronte a una vera e propria legge del contrappasso: ciò che i genitori tolgono ai propri figli nella vita pubblica, è restituito (e con interessi molto alti) all’interno dei nuclei familiari”. Ma le conseguenze non sono positive: “Il rischio è che i giovani, rassegnati a questo immobilismo sociale, continuino ad accettare la propria condizione di emarginati in una società organizzata per caste e al cui vertice si trova una gerontocrazia inamovibile”.

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“L’idea che la crisi sia destinata dopo un po’ a risolversi “da sola” e che quindi si tratti solo di aspettare, è sbagliata”.

di Paolo Ferrero da liberazione.it

Le centinaia di migliaia di lavoratori che hanno perso il lavoro nei primi mesi di quest’anno rappresentano plasticamente la gravità della crisi. Una crisi che non è caduta dal cielo, non è il frutto di qualche cattivo banchiere che ha falsato le regole del gioco; una crisi che è il frutto proprio di quelle politiche liberiste che i capitalisti hanno portato avanti dagli anni ’80 e che sono state condivise a livello politico sia dal centro destra che dal centro sinistra.

Al centro di queste politiche abbiamo avuto la finanziarizzazione dell’economia e la sistematica compressione dei salari, delle pensioni e dello welfare. Politiche tutte orientate all’esportazione e alla speculazione finanziaria a breve hanno prodotto la situazione attuale: le banche sono piene zeppe di titoli che non valgono nulla e milioni di lavoratori non hanno i soldi per arrivare a fine mese, cioè per comprare le merci e i servizi che producono.

Questa crisi è quindi una crisi del meccanismo di accumulazione capitalistico, non solo una crisi economica ma ambientale e alimentare. Da una crisi di questa natura non è possibile uscire senza una radicale messa in discussione della distribuzione del reddito e del potere e senza riprogettare il modello di sviluppo: cosa, come, per chi produrre.

Se non si affrontano tali nodi, l’idea che la crisi sia destinata dopo un po’ a risolversi “da sola” e che quindi si tratti solo di aspettare, è sbagliata.

Da questo punto di vista è evidente che la politica che sta facendo il governo Berlusconi non è finalizzata all’uscita dalla crisi da piuttosto all’uso della crisi a fini politici.(Beh, buona giornata).

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Bernanke: “il rischio in questo momento è quello di non avere la volontà politica di risolvere il problema e lasciare che le cose seguano il loro corso.”

(Fonte:ilmessaggero.it)

Il presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, ha detto che la recessione «finirà probabilmente entro l’anno». In una rara intervista al programma televisivo 60 Minutes domenica sera Bernanke ha espresso un cauto ottimismo: «Abbiamo un piano. Ci stiamo lavorando. Penso che riusciremo a stabilizzare la situazione e che vedremo la fine della recessione probabilmente entro la fine dell’anno».

Secondo il capo della Federal Reserve «vi sarà una ripresa all’inizio del prossimo anno che andrà ad accelerare col passare del tempo».

Bernanke ha poi affermato che gli Stati Uniti hanno «evitato il rischio» di piombare in una Grande depressione come quella del 1929. «Sono convinto che abbiamo già superato quel punto – ha detto – si tratta adesso di fare funzionare la macchina in modo corretto». Secondo Bernanke il maggior rischio in questo momento sarebbe «quello di non avere la volontà politica di risolvere il problema e lasciare che le cose seguano il loro corso».

Bernanke ha ammesso infine che il sistema finanziario mondiale è stato in autunno «molto, molto vicino» al collasso: «si era creata una situazione molto pericolosa», ha detto. (Beh, buona giornata).

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“Nel nostro governo credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera.”

di Marcello Villari – Megachip

Dice il proverbio: “mal comune mezzo gaudio”. Dal momento che, date le circostanze, di gaudio non ce n’è per niente, resta solo il mal comune e cioè il fatto che i governi di tutto il mondo appaiono in difficoltà nel gestire una crisi di queste dimensioni, che non si aspettavano e che si presenta più dura e di più lunga durata rispetto alle previsioni degli ottimisti.

Da Barack Obama a Gordon Brown, da Angela Merkel al nostro presidente del consiglio, passando per Nicolas Sarkozy il panorama non cambia molto nella sostanza: si procede per tentativi, cercando di tamponare qua e là le falle più grandi e pericolose rovesciando sul mercato quantità mai viste in passato di denaro pubblico. O tentando, come sta facendo il presidente americano, di mettere in campo un piano di intervento statale da economia di guerra, con elementi di redistribuzione del reddito a favore dei lavoratori e dei ceti più deboli.

Certamente tutto questo è servito a evitare un crollo sistemico di proporzioni inimmaginabili: «a settembre e ottobre siamo arrivati molto vicino al collasso finanziario globale, una situazione in cui sarebbero fallite molte delle più importanti istituzioni mondiali…»: sono parole del presidente della Federal Reserve, Ben Bernanke, pronunciate nella sua audizione al Congresso degli Stati Uniti del 25 febbraio scorso. All’accorato e drammatico racconto di Bernanke si potrebbe aggiungere – tanto per non dimenticare – che il “Washington Consensus” – di cui la FED è stata uno dei pilastri – cioè l’espansione globale del modello americano, ha portato l’economia mondiale a un passo dal baratro.

E il fatto che i governi abbiano difficoltà serie a delineare politiche in grado di fronteggiare efficacemente la crisi deriva anche dalla circostanza che nessuno sa esattamente a quanto ammontino i “titoli tossici”, cioè la spazzatura in giro per il mondo frutto di quella “finanza creativa”, un tempo non molto remoto segno di modernità e di successo. Si tratta comunque di cifre da capogiro.

Pur nei limiti ristretti consentiti da un alto debito statale e aiutato dalla circostanza che le banche italiane si sono esposte di meno con la “finanza creativa” anche il nostro governo ha messo in campo le sue risposte. Rottamazioni per aiutare i settori in crisi, i “Tremonti bond” per aiutare le banche a fornire liquidità alle imprese e 8 miliardi di euro per i prossimi due anni per finanziare gli ammortizzatori sociali.
Con in più una particolarità tutta nazionale: mentre Obama e gli altri leader europei avvertono i loro concittadini che avranno di fronte mesi di lacrime e sangue, che bisogna rimboccarsi le maniche, riconoscendo – chi più chi meno – pubblicamente che la festa è finita e che bisogna cercare altre strade – Obama lo sta facendo – e insomma non hanno nascosto la triste realtà, il nostro presidente del consiglio trasuda ottimismo da tutte le parti… consumate e andrà tutto bene: sarebbe comico se non fosse tragico.

Il fatto è che anche queste misure – più o meno analoghe a quelle di altri paesi – sono certamente meglio che niente, forse tamponeranno qualche falla, ma non molto di più.
E sono, inoltre, drammaticamente insufficienti sul piano della protezione sociale: entro la fine di quest’anno vengono a scadenza i contratti a termine di 2 milioni e 400 mila lavoratori precari che quasi sicuramente non verranno rinnovati.

Intanto a febbraio (dati Confindustria) la produzione industriale è caduta, su base annuale, del 29,9 per cento, cresce fortemente il ricorso alla cassa integrazione e l’occupazione cala. Migliaia di lavoratori immigrati rischiano il posto di lavoro e con esso l’espulsione dal paese. Drammi sociali di vasta portata che possono aprire conflitti interni fra i lavoratori, come è già accaduto in Gran Bretagna, o un’agitazione sociale che il tentativo di limitare il diritto di sciopero non riuscirà a nascondere.

All’origine di questa visione “leggera” – per così dire – della crisi probabilmente non c’è solo il modo di essere di Berlusconi o la concezione un po’ furbesca tipica di una certa destra italiana che nei momenti di difficoltà, invece di cercare coesione nazionale o porsi il problema di far uscire tutto il paese dalle difficoltà ricorre al classico “che ognuno si arrangi come può”.

Il professor Tito Boeri ha fatto notare come siano stati drasticamente ridotti – del 24 per cento, con punte del 50 per cento nel Sud – i controlli degli ispettorati del lavoro sulla regolarità delle imprese. Nella circolare del Ministero si legge: «La criticità del momento contingente rafforza la scelta di investire su un’azione selettiva e qualitativa, diretta a eliminare ostacoli al sistema produttivo». Insomma – come nota il professor Boeri – si preferisce chiudere un occhio di fronte a forme di lavoro sommerso e irregolare: «la distruzione creativa che avviene nelle recessioni avrà così luogo all’inverso: sopravvivenza garantita alle imprese a bassa produttività, mentre si tartassano le imprese in regola e quelle che hanno maggiore potenziale di sviluppo» («la Repubblica», 25 febbraio 2009).

Come dire: siate furbi, licenziate e poi riprendete i vostri dipendenti in nero, vi costeranno meno e lo stato farà finta di non vedere. Ma appunto la lungimiranza e l’idea di sforzo comune non fanno parte del bagaglio politico e culturale degli eterni “ottosettembristi”, quel male oscuro che continua a corrodere la nostra Repubblica.

Ma non è solo questo. Nel nostro governo probabilmente credono alla favola messa in giro dal ministro Tremonti che l’Italia sta meglio degli altri perché nella sua struttura economica c’è meno finanza e più industria manifatturiera. È vero, solo che questa “superiorità” si potrà vedere solo quando saremo usciti dalla crisi, non certo adesso. Nel senso che a differenza di paesi come la Gran Bretagna e la Spagna che hanno basato la loro crescita su finanza e edilizia (per restare in Europa perché il caso degli Stati Uniti è più complesso), l’Italia (come la Germania) potrà ripartire con una struttura economica più solida, ma solo se si metterà mano a quel salto tecnologico, sempre invocato e mai attuato con politiche statali all’altezza del problema.

In questa situazione di crisi invece i paesi manifatturieri come il nostro rischiano di sopportare conseguenze non meno ma più pesanti degli altri. La spiegazione è semplice: quella che sta stiamo vivendo non è solo una crisi finanziaria, ma una vera e propria crisi di sovrapproduzione, nel senso che nel mondo c’è una capacità produttiva enorme che non ha una domanda in grado di assorbirla. Come dimostra anche il crollo delle nostre esportazioni, a gennaio, nei confronti dei paesi extra UE: meno 29,9 per cento (rispetto al gennaio 2008), conseguenza del crollo del commercio mondiale.

Fin quando gli Stati Uniti sono riusciti a sostenere i consumi – permettendo alle famiglie di indebitarsi e alla finanza creativa di guadagnarci su – il meccanismo è andato avanti. Quando è scoppiata la bolla dei subprime l’intero castello di carte è crollato, e senza fare debiti i lavoratori (o la classe media, si chiami come si vuole) non sono in grado con i redditi da lavoro di consumare tanto da produrre profitti per le imprese manifatturiere.
Quando, indebitandosi, gli americani consumavano alla grande (i consumi costituiscono circa il 60 per cento del Pil degli Stati Uniti) i cinesi vendevano i loro prodotti a basso costo, italiani e tedeschi fornivano loro i macchinari per fabbricarli, i giapponesi lo stesso e via discorrendo… attraverso le mille connessioni della globalizzazione il meccanismo alimentato dal debito girava… ma adesso?

In questi anni tutte le statistiche hanno documentato con abbondanza di dati (non solo in Italia) la concentrazione della ricchezza in mano di pochi e l’impoverimento relativo della classe media. «Il reddito che spetta ai lavoratori viene espropriato in una misura che avrebbe scioccato persino Karl Marx», scriveva nel lontano marzo del 1996 il «New York Times». La quota dei redditi da lavoro sulla ricchezza nazionale si è ridotta ovunque in modo impressionante. Nel caso italiano poi il passaggio all’Euro ha aggravato ulteriormente la situazione, con il raddoppio di fatto dei prezzi al consumo mentre salari e stipendi restavano allo stesso livello dei tempi della lira.

Oggi, di fronte al dramma sociale della crisi e ai problemi di mercato delle imprese l’opposizione parlamentare chiede misure forti di sostegno dei redditi. Verrebbe da dire: dove eravate quando avvenivano quegli impressionanti spostamenti di ricchezza? A sostenere la vulgata corrente sulla “sovranità del consumatore” (a debito), sui prezzi che dovevano scendere per effetto delle liberalizzazioni come se il basso costo di una merce non lo stesse pagando in termini salariali qualcuno da qualche parte del mondo (Italia compresa).
Bastava fare un sforzo di analisi per capire che questa corsa al ribasso in nome del consumatore prima o poi sarebbe finita perché il Consumatore – con la C maiuscola – era anche un lavoratore, un impiegato, un percettore di reddito fisso.
E bastava non credere all’altra favola di “quelli-che-la–globalizzazione-risolve-tutto” e cioè che la formazione di classi medie in paesi in pieno sviluppo come Cina, India o Brasile avrebbe potuto compensare, sul piano dei consumi e quindi dell’assorbimento della capacità produttiva, l’impoverimento relativo dei lavoratori dei paesi ricchi.

Ecco perché la crisi sarà lunga e di difficile soluzione e perché salvare le banche – intervento ovviamente giusto per evitare il baratro – non ha impedito un suo aggravamento e i timori di una deflazione…

Ford negli anni Venti aveva trovato una soluzione, gli alti salari, ma allora non c’erano la globalizzazione e i cinesi…

Oggi bisogna inventarsi qualche altra cosa – come sta appunto tentando di fare Obama – ma il problema non è molto diverso da quello di allora, adesso che i consumatori, ritornati a essere, come d’incanto, di nuovo lavoratori non hanno i soldi per esercitare la loro sovranità e per far girare l’economia… (Beh, buona giornata).

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Crisi globale: “ci muoviamo in direzione di un cambiamento delle priorità del sistema economico o per restaurare la dominanza delle vecchie posizioni di rendita?”

di Tommaso De Berlanga-Il Manifesto.

Il più attento analista del capitalismo britannico – Martin Wolf, sul Financial Times – mette in dubbio la sensatezza dell’attuale strategia di intervento del governo inglese nel salvataggio del sisema bancario “basato in Gran Bretagna” (ma con infinite propaggini in tutto il mondo). Così procedendo, infatti, lo stato si va trasformando in “assicuratore di ultima istanza”. Ma con diversi problemi. Molto concreti.

Al 31 dicembre 2008, infatti, il patrimonio totale del sistema bancario assommava a quasi 9.000 miliardi di euro, cinque volte e mezzo il pil d’Albione. Soltanto gli asset di Royal Bank of Scotland (di fatto ormai nazionalizzata) valevano in quel momento il 166% del pil. L’ultima tegola su Gordon Brown è solo di ieri: i Lloyds non ce la fanno a incorporare Hbos, altra enorme banca internazionale battente bandiera inglese, e lo stato potrebbe essere costretto a prendere una partecipazione di quasi il 70% dell’istituto risultante da questa mega-fusione. Accollandosi anche l’”assicurazione” di circa 300 miliardi di euro in titoli tossici.

Molto semplicemente, queste cifre non sono nelle disponibilità dello stato britannico. Che si espone così a un rischio sistemico diverse volte più grande di se stesso. La metafora usata da Wolf è del resto pertinente: un pitone che ingurgita un ippopotamo.

Negli Usa o in Germania si va fin qui procedendo su una strada simile, al di là delle misure nazionali elaborate. Al dunque, questo intervento pubblico si concretizza nell’accollare ai contribuenti ogni perdita possa ancora verificarsi, senza alcuna contropartita reale (non è detto, infatti, che queste banche così generosamente salvate continuino ad operare come prestatori al sistema delle imprese e alle famiglie).
Con l’aggravante, spiega il recente Nobel per l’economia, Paul Krugman, che quando ad esempio l’amministrazione Obama prova davvero a mettere le mani sulle “disfunzioni bancarie”, si mostra in realtà troppo esitante. Favorendo così l’opposizione conservatrice (e le relative lobby) che non vuole condizionamenti pubblici all’iniziativa economica privata, a dispetto dello scatafascio che ha lasciato dopo 30 anni di neoliberismo.

Non c’è dunque soluzione? Sul piano strettamente economico si tratta di stabilire chi è che paga per i debiti accumulati: se gli azionisti delle istituzioni finanziarie a rischio fallimento oppure i contribuenti (ovvero, soprattutto il lavoro dipendente e i pensionati). Se gli stati prendono “partecipazioni” nelle banche e nelle assicurazioni “a prezzo di mercato”, accollandosi anche la garanzia di prodotti “derivati” ormai senza valore, la crisi viene fatta pagare a chi non ne è stato responsabile. Se, invece, lo stato – meglio ancora una comunità di stati, come l’Unione europea – prende possesso delle banche mediante espropriazione senza indennizzo, allora il cumulo di debiti viene fatto scontare a chi l’ha materialmente e immaterialmente messo insieme: finanzieri, speculatori, gestori del risparmio, ecc.

Neppure questa è una soluzione indolore per lavoratori e pensionati (basti pensare all’imposizione criminale dei “fondi pensione privati” come destinatari del tfr), ma non li vede in prima fila tra i donatori di sangue e – soprattutto – mette le basi per la ricostruzione di un sistema del credito globale funzionale alla riproduzione sociale. E non, com’è stato da Reagan in poi, viceversa.

Da questa crisi – ci dicono tutti – non si uscirà uguali a prima. Bene, si tratta allora di fare una scelta di natura politica (e sociale), non astrattamente “tecnica”: ci muoviamo in direzione di un cambiamento delle priorità del sistema economico o per restaurare la dominanza delle vecchie posizioni di rendita? (Beh, buona giornata).

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Crisi globale: “Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano soldi finti.”

di TITO BOERI da La Repubblica

AL TERMINE dell’ ennesimo deludente vertice della Ue, Berlusconi ha trovato modo di chiudere ogni spiraglio all’ ipotesi di un accordo con l’ opposizione per varare la riforma degli ammortizzatori sociali. M ENTRE così l’ inconcludenza dei leader europei aggrava la crisi, il nostro Presidente del Consiglio sceglie di farne pagare il conto ai disoccupati che sono oggi privi di alcuna tutela.

“La riforma costa circa un punto e mezzo di pil, è finanziariamente insostenibile”: questo il giudizio lapidario di Berlusconi, che ha voluto così reagire alla disponibilità offerta dal neo-segretario del Pd, Dario Franceschini, a sostenere in Aula una riforma organica degli ammortizzatori sociali. Il fatto che il premier si sia sentito in dovere di intervenire da Bruxelles, ai margini di una riunione che aveva ben diverso ordine del giorno, dimostra che, per la prima volta in questa legislatura, è stata l’ opposizione a dettare l’ agenda dell’ esecutivo.

Il messaggio recapitato da Bruxelles era probabilmente diretto a quanti nell’ esecutivo, come il ministro Brunetta, avevano chiesto al Pd di mettere le carte sul tavolo, formulando proposte più concrete di quelle avanzate da Franceschini sabato a Bari, che aveva genericamente parlato di un “assegno ai disoccupati”. In verità una riforma che estenda ai lavoratori del parasubordinato (oggi privi di qualsiasi protezione) la copertura dei sussidi ordinari di disoccupazione e che ne allunghi la durata per i lavoratori dipendenti delle piccole e medie imprese (oggi esclusi dall’ accesso alle ben più generose Cassa integrazione guadagni ordinaria e straordinaria, indennità di mobilità e, infine, mobilità lunga) costerebbe anche meno di quegli 8 miliardi che il governo ha più volte dichiarato di aver già messo a disposizione di un allargamento della platea dei beneficiari degli ammortizzatori sociali.

A differenza degli interventi in deroga che il governo intende finanziare con questi 8 miliardi, la riforma avrebbe solo un costo una tantum. Dal secondo anno in poi, infatti, l’ erogazione dei sussidi verrebbe finanziata dai contributi di lavoratori e datori di lavoro a favore del fondo che eroga i sussidi. Anche questo costo iniziale per le casse dello Stato, inevitabile nella fase di messa a regime di una nuova assicurazione, è limitato.

Ci sono tante diverse ipotesi allo studio, ma alcune di queste, quelle che prevedono interventi sui soli parasubordinati (identificati come lavoratori con un unico committente) costano attorno ai 4-5 miliardi di euro, la metà delle risorse che il Governo sostiene di avere già in mano.

L’ allungamento della duratae irrobustimento dei sussidi ordinari di disoccupazione (oggi durano mediamente cinque mesi e pagano 23 euro al giorno) costerebbe altri quattro miliardi. Quindi i soldi per la riforma ci sarebbero già tutti o quasi.

Le frettolose dichiarazioni di Berlusconi alimentano perciò il sospetto che anche gli 8 miliardi annunciati trionfalmente a metà febbraio siano, come tanti altri soldi messi virtualmente sul piatto dal governo dall’ inizio della crisi (a partire dai 120 miliardi elargiti sulla carta da Tremonti a Washington nell’ ottobre scorso), dei soldi finti.

Si tratterebbe, in altre parole, di una generica disponibilità delle Regioni a mettere a disposizione questi fondi solo per misure di estensione della Cassa integrazione sul loro territorio, come avvenuto sin qui. In effetti, se si dovessero davvero utilizzare le risorse oggi attribuite dal Fondo sociale europeo alle Regioni per finanziare sussidi ai disoccupati, si dovrebbe attuare un massiccio trasferimento di risorse (stimato da Paolo Manasse su lavoce. info in circa un miliardo di euro) dal Mezzogiorno alle Regioni del Nord, dove la maggioranza dei disoccupati è concentrata.

Importante notare che le risorse per i fondi in deroga sono state utilizzate sin qui, con il concorso delle Regioni, quasi solo in proroga, vale a dire estendendo la durata (soprattutto della Cassa integrazione ordinaria) a chi già vi accedeva e non offrendo assistenza a chi non aveva niente. La ragione è semplice: quando è la politica a decidere a chi dare e a chi no, i beneficiari sono sempre i lavoratori delle grande aziende, la cui ristrutturazione o chiusura fa notizia, al contrario di quanto accada per i milioni di microimprese che alimentano la nostra struttura produttiva. Il 14 febbraio scorso, il ministro del Lavoro Sacconi, dopo aver raggiunto l’ accordo con le Regioni, aveva annunciato: «Non è la riforma degli ammortizzatori sociali, ma forse qualcosa di più».

Con le parole di ieri di Berlusconi sappiamo che questo “qualcosa di più” non sarà certo riservato né ai lavoratori delle piccole imprese, né ai quattro e più milioni di lavoratori temporanei oggi presenti in Italia. (Beh, buona giornata).

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