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Tredicesime leggere e tristi.

(fonte: blitzquotidiano.it)

Tredicesime piu’ leggere ma questo Natale gli italiani sarebbero ancora pronti a superare gli altri cittadini europei nello shopping delle feste. Mentre sull’Italia arriva un altro Natale di crisi con la previsione di dover pagare, per chi le paga, ancora piu’ tasse dal nuovo anno, la Cgia di Mestre ha calcolato di quanto si ridurra’ la tredicesima dei lavoratori dipendenti dovuta al calo del potere d’acquisto determinato dall’aumento dell’inflazione che ormai dal 1992 non viene piu’ calcolata in automatico nell’adeguamento degli stipendi. Questo comporta che quando l’inflazione comincia a correre, come e’ avvenuto quest’anno, gli stipendi reali si riducono.

La Cgia di Mestre ha calcolato che un operaio con una retribuzione lorda annua pari a poco piu’ di 20.000 euro, quest’anno portera’ a casa una tredicesima di 1.197 euro netti: 21 euro nominali in piu’ rispetto al 2010, ma per effetto dell’inflazione di fatto 10 euro in meno. Stesso destino per gli impiegati che, con una retribuzione lorda annua pari a poco meno di 24.700 euro, perderanno 12 euro reali di tredicesima (a fronte di un aumento nominale di 23). Nel caso di un quadro con un reddito di poco superiore ai 48.500 euro, la tredicesima mensilita’ di quest’anno si restringera’ di 25 euro ma la busta paga dara’ l’illusione di aver in tasca ben 38 euro in più.

Nonostante questo gli italiani, stando alle previsioni dell’organizzazione agricola Coldiretti, sarebbero disposti a buttarsi a capofitto nello shopping natalizio che apre la sua stagione questo week end. Sulla base dell’indagine ”Xsmas Survey 2011” di Deloitte le famiglie italiane avrebbero pianificato per le spese di Natale un budget medio di 625 euro (-2,3% rispetto al 2010), ampiamente sopra la media europea ferma a 587 euro a famiglia, per non parlare dei morigerati Olandesi dove, a fronte di stipendi medi di 2.000 euro al mese, per lo shopping di natale sacrificheranno solo 250 euro.

Il 40% del budget italiano sara’ comunque destinato al cibo. Pranzi, cene e regali culinari sono in cima ai pensieri di chi fa compere, subito dopo, 39%, arrivano i regali non commestibili, 13% per i viaggi e solo il 7% per le attivita’ di socializzazione. Sempre secondo le aspettative di Coldiretti, gli italiani acquisteranno per Natale prodotti alimentari tipici per un valore di piu’ di 2 miliardi di euro. Mentre il Gambero Rosso pubblica anche quest’anno la sua guida sui migliori vini sotto gli 8 euro.
Non e’ escluso infine che qualcuno approfitti degli scambi dei regali natalizi per tornare al primitivo baratto, trasformando il riciclo cafone nel suo cugino piu’ trendy. (Beh, buona giornata).

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Come fa chi ha provocato la crisi a farci uscire dalla crisi? Semplice: ci tolgono i soldi dalle tasche, ci tolgono il futuro del futuro dei figli. E’ il neo-liberismo, bellezza!

E’ cominciata: tutta l’Europa per sopravvivere “mette le mani nelle tasche” dei suoi cittadini-blitzquotidiano.it

Piaccia o no ai governi dei singoli Stati, l’Europa per sopravvivere e non fare bancarotta “metterà le mani nelle tasche” di greci, spagnoli, portoghesi, francesi, tedeschi, inglesi, italiani…I governi di tutta Europa se lo sono reciprocamente promesso, non avevano alternative. Si sono però “dimenticati” di dirlo con chiarezza ai rispettivi governati. Per questa “omissione” hanno una sola robusta ma insufficiente attenuante: i cittadini di ogni paese fanno fatica a capire prima ancora che a digerire. E quindi, poichè non c’è “miglior sordo di chi non vuol sentire”, i governi mormorano, borbottano ma non parlano chiaro. Ogni giorni i cittadini d’Europa leggono o sentono in tv: 700 e passa miliardi stanziati come scudo per la crisi finanziaria. Oppure: la Bce compra i titoli di Stato dei paesi in forte deficit. I cittadini leggono, sentono e archiviano il letto e il sentito nel “cestino” di ciò che non li riguarda direttamente, di ciò che non tocca le loro tasche. I cittadini pensano, ostinatamente vogliono pensare che quei miliardi e quei soldi siano soldi di “altri”, soldi degli Stati e delle Banche Centrali. Così non è, presto i cittadini d’Europa vedranno che sono soldi “loro” perchè i soldi degli “altri” non esistono se non nella fantasia.

E’ fresca d’inchiostro la nuova ipotesi di “Patto economico” elaborata dalla Commissione Europea che i governi nazionali dovranno sottoscrivere la prossima settimana. C’è scritto che bisogna “prevenire” i casi di eccessivo defcit e debito pubblici. Che tutti i paesi devono sottostare ad esame e verifiche semestrali di quanto spendono, che chi sfora incassa “sanzioni automatiche”, che le sanzioni sono di fatto multe in denaro che finiscono in “depositi fruttiferi” che i songoli governi non amministrano più. C’è scritto insomma che la politica economica e finanziaria dei singoli paesi deve essere “coerente” con quella di tutti gli altri Stati. C’è scritto che italiani, francesi, tedeschi, spagnoli, portoghesi, greci e tutti gli altri devono reciprocamente rendersi conto di come spendono i loro euro. Diminuzione di sovranità per ogni paese? Certamente sì. Ma, se non piace, Barroso, presidente della Commissione Europea, parla chiaro: “Se i governo non vogliono l’unione economica, tanto vale dimenticarsi dell’unione monetaria e rinunciarvi”. Se non piace, addio euro, ciascun per sè e dio per tutti. I paesi deboli svaluteranno la moneta e avranno la maxi inflazione, i paesi debolissimi avranno default e bancarotta, quelli forti si faranno male ma sopravviveranno.

Vale la pena di “tradurre” cosa significhi il nuovo “Patto economico”, quello senza il quale l’Europa si scioglie e l’euro si squaglia e ciascuno resta solo con i suoi debiti. Significa che entro il 2012/2013 tutti i paesi d’Europa devono avere un deficit annuo rispetto al Pil intorno al tre per cento (l’Italia è sopra il cinque, la Grecia intorno al 15, Gran Bretagna e Spagna intorno al dieci…). Significa anche che chi ha un debito pubblico pari o superiore al cento per cento del Pil, qui purtroppo l’Italia guida la classifica dei debitori, deve smetterla di accumulare debito. Deve smetterla se vuole che dei suoi debiti rispondano e siano garanti anche gli altri Stati, governi e cittadini europei.

In Spagna Zapatero ha già “tradotto”: meno cinque per cento di stipendio ai dipendenti pubblici. Ha “tradotto” a denti stretti Zapatero, ma non poteva non “tradurre”. “Traduzione” portoghese: meno sei per cento sugli stipendi pubblici e privatizzazione di grandi compagnie pubbliche, cioè meno soldi per i dipendenti e meno dipendenti. Traduzione francese: meno dieci per cento complerssivo della spesa pubblica, regola del pensioni due e assumi uno nella Pubblica amministrazione, cancellazione di 500 esenzioni e agevolazioni fiscali per le aziende private. Traduzione tedesca: addio al calo delle tasse promesso in campagna elettorale. Traduzione greca: via la tredicesima e la quattordicesima per i pubblici dipendenti, stipendi congelati per i dipendenti privati, aumento dell’Iva. La traduzione inglese ancora non c’è, Cameron si è appena insediato ma tutti sanno che i Conservatori taglieranno le spese per il Welfare britannico, nè i laburisti avrebbero potuto fare diversamente se avessero vinto le elezioni.

E la “traduzione” italiana qual è? Per ora suona come 26 miliardi di minor spesa in due anni, per ora. Due miliardi in meno tra Sanità e spesa farmaceutica, circa dieci miliardi in meno di spesa tra ministeri ed Enti locali, probabile blocco dei contratti, cioè niente aumenti di stipendio per i dipendenti pubblici. E niente calo delle tasse, neanche a parlarne. Forse addirittura un rinvio del federalismo se federalismo dovesse significare maggior spesa immediata prima dei vantaggi futuri.

Tutti dunque “metteranno le mani nelle tasche” dei loro cittadini. E lo faranno perchè altrimenti quelle tasche si “sfondano” o restano piene di soldi svalutati o di debiti impossibili da garantire. Sarà dura, amara, inevitabile e sarà meglio di ogni possibile alternativa. Sarebbe anche meglio che ce lo dicessero, con coraggio politico e civile. Più ce lo nascondono e più allevano una reazione isterica delle pubbliche opinioni, quella reazione che vogliono evitare. (Beh, buona giornata).

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Il capolinea del governo Berlusconi.

(fonte: blitzquotidiano.it)
A Berlusconi non far sapere…ma la crisi bussa tre volte in un giorno solo. Alla porta del suo governo ma, quel che più importa, anche alla porta di casa nostra. Come il premier, anche ciascuno di noi preferisce tenerla fuori dell’uscio, ignorare i rintocchi, aspettare che si stufi e si stanchi di importunarci. Però la crisi non se ne va, anzi bussa, tre volte in un giorno.

La prima volta suona per chi i soldi li ha: 102 miliardi di quotazioni azionarie come si dice “in fumo” in un giorno. Miliardi che un giorno vanno e un giorno vengono, non è il caso di farne un dramma. E poi riguarda appunto chi ha azioni e chi ce l’ha più tra la gente normale? Solo i matti.

Se non fosse che le Borse sentono odore di bruciato. Dopo settimane e mesi di risalita perché annusavano la fatidica uscita dalla crisi, adesso sono giorni che si vende, si vende. Si vende perché non si crede che molte aziende, quelle che fabbricano cose e non finanza ce la facciano ad arrivare a fine anno. A leggere tra le righe delle cronache dei giornali si vede che molte chiusure per ferie quest’anno rischiano di essere chiusure e basta. Storie di piccole aziende, comunque la prima bussata è per investitori e azionisti, il più di noi può non sentirla.

La seconda bussata riguarda chi lavora a stipendio e a salario. Un po’ di più, parecchia più gente. La seconda bussata dice che in Europa la disoccupazione è arrivata al 9,5 per cento. Altissima. Traduzione: chi ha un lavoro rischia di perderlo, chi non ce l’ha un lavoro è quasi sicuro che non lo trova. Almeno fino al 2010, arrivarci al 2010.

La terza bussata è per i nostri figli e nipoti: il deficit dello Stato italiano nei primi tre mesi dell’anno ha viaggiato a quota 9,3 per cento della ricchezza prodotta. Una volta il tre per cento era il limite, il 4 segnale d’allarme. Ora quel nove e passa dice che lo Stato si indebita sempre più e pagheranno i figli e i nipoti nei prossimi anni e decenni. Tasse? Non ce ne sarà bisogno: sarà una tassa chiamata inflazione ad asciugare l’alluvione del debito.

Tre colpi alla porta in un solo giorno, uno per chi i soldi li ha, uno per chi vive di lavoro, l’altro per il futuro delle famiglie. Meglio non sentirli, accendiamo la tv. Beh, buona giornata.

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Lavoro

E’ ufficiale: in Italia stipendi da fame.

Gli italiani incassano ogni anno uno stipendio che è tra i più bassi tra i Paesi Ocse. Con un salario netto di 21.374 dollari, l’Italia si colloca al 23/o posto della classifica dei 30 paesi dell’organizzazione di Parigi. Buste paga più pesanti non solo in Gran Bretagna, Stati Uniti, Germania, Francia, ma anche Grecia e Spagna. E’ quanto risulta dal rapporto Ocse sulla tassazione dei salari, aggiornato al 2008 e appena pubblicato.

La classifica riguarda il salario netto annuale di un lavoratore senza carichi di famiglia. E’ calcolato in dollari a parità di potere d’acquisto. Gli italiani guadagnano mediamente il 17% in meno della media Ocse. Salari italiani penalizzati anche se il raffronto viene fatto con la Ue a 15 (27.793 di media) e con la Ue a 19 (24.552). Beh, buona giornata.

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La solitudine dei manager.

Assedio al manager
di Stefano Livadiotti e Maurizio Maggi-da l’Espresso.
Additati come causa di ogni male dai dipendenti. Usati come capri espiatori dagli azionisti. In pochi mesi hanno perso stipendi, potere e status. Radiografia dei dirigenti ai tempi della recessione Josef AckermannEbbene sì, “sono un manager. Uno di quei mostri sbattuti in prima pagina come incapaci, incompetenti e dediti al facile guadagno… Per colpa di qualche approfittatore, devo sentirmi annoverato tra la feccia di questa società. No, non ci sto”. La lettera, pubblicata il 31 marzo nella rubrica della posta su ‘La Stampa’, fotografa alla perfezione lo stato d’animo prevalente nel mondo dei dirigenti d’azienda italiani.

Additati da una parte crescente dell’opinione pubblica come una casta di intoccabili che provoca le crisi e non ne paga le conseguenze, inchiodati a responsabilità spesso non riconducibili a loro, i manager oggi appaiono allo sbando.

Il fatto è che si sentono tra l’incudine e il martello. Sanno di non poter contare sulla difesa dei vertici aziendali, cinicamente pronti a far di loro un capro espiatorio. Mentre dal basso, dalla platea operaia e impiegatizia chiamata a tirare la cinghia, vedono salire la marea di quanti chiedono che anche i ricchi piangano, come diceva uno sciagurato slogan elettorale della sinistra antagonista. Così, sempre più spesso, un po’ per tacitare la protesta e un po’ per tenersi stretta la scrivania, accettano di tagliarsi stipendi, bonus e fringe benefit.

La crisi è arrivata fino a loro scendendo per i rami. Da principio furono gli Stati Uniti. Secondo il ‘Wall Street Journal’, nel 2008 le retribuzioni complessive dei Ceo delle prime 200 società americane hanno lasciato sul campo il 3,4 per cento. Ma è stato solo un assaggio, rispetto a quello che accadrà quest’anno. L’indignazione popolare per i 165 milioni di dollari di premi concessi ai dipendenti del colosso assicurativo Aig ha spinto il governo a vietare i bonus e fissare un tetto ai premi in azioni per i dirigenti di società che hanno ricevuto aiuti federali. E un sondaggio condotto dalla società di consulenza Watson Wyatt Worldwide tra 145 grandi imprese dice che il 33 per cento intende ridurre gli incentivi di lungo termine. L’entità media dei tagli in cantiere è del 35 per cento. Alla Goldman Sachs i dirigenti si sono visti imporre un tetto di 20 dollari per la fattura dei ristoranti e il diritto a farsi riportare a casa dalla limousine aziendale è stato limitato a chi si ferma in ufficio fino alle 10 di sera. Gli avvocati del celebre studio legale Liner Yankelevitz Sunshine & Regenstreif di Los Angeles hanno perso, invece, il benefit del massaggio shiatsu.

Sulla scia degli Stati Uniti, è poi toccata ai top manager europei. Josef Ackermann, il numero uno della Deutsche Bank che con i suoi quasi 20 milioni era stato a lungo il banchiere più pagato, l’anno scorso s’è dovuto accontentare di un milione e 400 mila euro. In Italia, l’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, ha annunciato la sua rinuncia alla parte variabile dello stipendio. Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne, presidente e amministratore delegato della Fiat, si sono dimezzati i compensi per il 2008. Come, del resto, ha fatto Dieter Zetsche della Daimler.

Il fuoco sulle seconde e terze linee è iniziato in Francia, con il sequestro dei dirigenti delle aziende in crisi da parte delle maestranze. Finora in Italia, per fortuna, significativi episodi di ‘bossnapping’ non si sono visti. Ma la polemica s’è immediatamente incendiata davanti alle tesi giustificazioniste di alcuni esponenti sindacali, come i leader dei metalmeccanici Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi. Il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, ha accusato il suo pari grado della Cgil di soffiare sul fuoco. Guglielmo Epifani gli ha risposto per le rime. E ‘l’Unità’, passando in rassegna la casistica francese, è arrivata a scrivere: “Almeno finora, sequestrare paga”. Se è per questo, anche rapinare le banche.

“C’è una ricerca del colpevole rispetto a un gioco in cui sono tutti collusi”, dice Marco Ghetti, professore all’università confindustriale Luiss (il suo corso di chiama ‘Leadership for change’). Il risultato è che oggi i 120 mila manager privati italiani, gente che guadagna in media 103 mila e 424 euro lordi l’anno, sono sul chi vive. Secondo una ricerca di Manageritalia, che ne associa 23 mila sparsi in 8 mila e 700 aziende, il 57,3 per cento è preoccupato. Il 10,4 per cento teme per la propria incolumità sul luogo di lavoro e il 13,7 non si sente sicuro neanche fuori dall’ufficio. Oltre la metà di loro (il 50,7 per cento) ritiene possibile un ritorno del terrorismo e nove su cento pensano che i principali responsabili della caccia al manager siano i media. “Il bossnapping è un fenomeno che preoccupa, perché potrebbe aprire la strada a comportamenti ben più pericolosi”, dice Claudio Pasini, presidente di Manageritalia. “Le paure dei manager”, aggiunge Paolo Legrenzi, ordinario di psicologia cognitiva a Venezia, “non rappresentano un sentimento inventato, ma risultano quanto mai attuali e giustificate: dal privilegio siamo passati alla berlina, alla gogna”. E alla stretta economica.Una indagine ancora fresca di inchiostro del Gidp (Gruppo intersettoriale direttori del personale) rivela che il 31,5 per cento dei responsabili delle risorse umane ha ricevuto dal vertice dell’azienda un input a ridurre la parte variabile della retribuzione di direttori e dirigenti. Uno su tre ha già impugnato le forbici, tagliando i bonus di oltre il 20 per cento. Uno su quattro c’è andato con la mano più leggera, ma ha comunque limato i premi tra il 15 e il 20 per cento. Loro hanno fatto buon viso a cattiva sorte: solo il 17 per cento ha abbozzato una qualche forma di resistenza.

Secondo Federmanager, nel 2008 sono stati licenziati 5 mila dirigenti e a fine 2009 i disoccupati saranno tra gli 8 e i 9 mila. E per chi resta a spasso sono dolori. Gli ultrancinquantenni hanno un sussidio di 1.500 euro lordi per 12 mesi, che si riducono a otto per i più giovani. E le statistiche dicono che a un anno dalla perdita della poltrona quelli che ne trovano un’altra sono l’82,1 per cento, ma il 69,7 si deve accontentare di un inquadramento inferiore al precedente, o addirittura precario. “La vita si è fatta assai più dura per i dirigenti, alcuni dei quali stanno cedendo sotto i colpi della crisi”, ha scritto il sociologo Enrico Finzi. Il caso del colosso Telecom la dice lunga: più spesso di prima i dirigenti, pur di non perdere il posto, accettano il declassamento. Un fenomeno ancora insignificante dal punto di vista numerico, ma comunque in crescita rispetto al passato.

I casi di aziende che chiedono ai loro dirigenti di seconda o terza linea di ridursi gli stipendi sono sempre più frequenti. Una delle prime è stata la Ducati. A febbraio, il presidente e amministratore delegato della cassa motociclistica di Borgo Panigale, Gabriele Del Torchio, ha fatto saltare il 10 per cento della retribuzione fissa dei 36 dirigenti, che hanno perso pure il bonus. Austerità anche per chi segue la squadra corse in giro per il mondo: si dorme in camere doppie e addio ai biglietti di business class in aereo. Ma la Ducati ha solo aperto una strada. Seguita poi da molti altri. Alla filiale di Avezzano della multinazionale americanaMicron Technology, specializzata in sensori di immagini per i telefonini, la crisi s’è mangiata il 60 per cento del giro d’affari. Negli stabilimenti degli Stati Uniti hanno tagliato del 5 per cento gli stipendi di tutti: operai, impiegati, quadri e dirigenti. In Italia, dove questo non è possibile, è scattata la cassa integrazione per 1.400 dipendenti su 2 mila.

Il direttore generale, Sergio Galbiati, s’è ridotto il compenso a 800 euro, tanto quanto prende un cassintegrato. Ai 60 dirigenti è stato proposto un taglio del 30 per cento. Hanno accettato tutti, senza fiatare. Come alla Indesit, il colosso degli elettrodomestici di Vittorio Merloni che fattura 3,2 miliardi, ma è alle prese con un calo delle vendite del 15 per cento. Tremilacinquecento operai sono finiti in cassa integrazione, subendo un taglio della busta paga del 10 per cento. L’amministratore delegato, Marco Milani, ha chiesto agli 80 dirigenti italiani e ai 40 sparsi in Europa di accettare una riduzione dei compensi del 7 per cento e si è tagliato il suo del 10 per cento.

Stessa storia alla Elica di Fabriano, leader mondiale nelle cappe per cucine, con 400 milioni di giro d’affari e 5 milioni di pezzi venduti in tutto il mondo. Nell’ultimo trimestre il business ha fatto segnare un calo del 20 per cento e 100 operai e 50 impiegati sono finiti in cassa integrazione. Il presidente, il senatore forzista Francesco Casoli, ha convocato i suoi 80 manager, ha annunciato che si sarebbe autoridotto la retribuzione del 30 per cento e chiesto loro di rinunciare al bonus, che vale tra il 10 e il 30 per cento del trattamento economico complessivo. Alla Wurth, 3.500 dipendenti che fatturano 450 milioni commercializzando bulloni, i dirigenti hanno accettato invece un taglio del 9 per cento della retribuzione fissa, lo stesso imposto agli operai dai contratti di solidarietà. Come alla Telit, la società di telecomunicazioni romana quotata a Londra, dove i 30 dirigenti hanno accettato di sacrificare il 10 per cento della retribuzione fissa e ricercatori e impiegati il 5 per cento. AllaNerviano Medical Sciences di Milano, ricerca e prodotti oncologici, una crisi di liquidità ha imposto il taglio al monte retribuzioni del 6 per cento: a farne le spese saranno anche i 40 dirigenti, per i quali la parte dello stipendio legata ai risultati è congelata per tutto il 2009. I 23 manager della Cerim di Imola, 20 milioni di metri quadrati di prodotti in ceramica l’anno, con 330 milioni di fatturato, i 23 dirigenti hanno deciso di fare a meno del 10 per cento dello stipendio per alimentare un fondo a favore degli operai più a lungo colpiti dalla cassa integrazione: l’obiettivo è portare il loro introito mensile da 850 a mille euro.

Alla Cefin Systems di Torino (gestione di flotte di veicoli) il titolare-amministratore s’è azzerato gli emolumenti. E il personale tutto, dirigenti compresi, lavorerà al minimo sindacale. Per l’intero 2009. Incrociando le dita e sperando che basti. (Beh, buona giornata).

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La crisi economica mette in luce la lotta di classe al contrario.

da ilmessaggero.it

Gli stipendi sono fermi mentre il fisco sembra inarrestabile. In 15 anni, ogni lavoratore ha perduto 6.738 euro come minore capacità di acquisto. Lo sostiene il quarto rapporto dell’Ires-Cgil presentato oggi alla stampa, su salari, produttività e distribuzione dei redditi. Insieme alla perdita di potere d’acquisto, nel rapporto si legge, che nello stesso pericodo esaminato (1993-2008) lo Stato ha beneficiato di 112 miliardi di euro tra maggiore pressione fiscale e fiscal drag. Dall’analisi dei dati Istat – sempre secondo la Cgil – emerge come le retribuzioni di fatto dal 2002 al 2008 abbiamo accumulato una perdita del potere di acquisto pari a 2.467 euro, di cui circa 1.182 di mancata restituzione del drenaggio fiscale.

Proposta Cgil: 100 euro al mese sullo stipendio. La proposta del sindacato guidato da Guglielmo Epifani rivolta al governo, è che vengano erogati 100 euro medi di aumento mensile in busta paga, aumentando le detrazioni fiscali per lavoratori dipendenti, pensionati e collaboratori.

Più profitti per le imprese. Sempre secondo i dati diffusi dall’istituto di ricerca della Cgil, dal 1995 al 2006 i profitti netti delle maggiori imprese industriali sono cresciuti di circa il 75% a fronte di un aumento delle retribuzioni di solo il 5%.

Il reddito degli italiani. E ancora: in base alle dichiarazioni dei redditi presso i Caf Cgil, si ha che circa 13,6 milioni di lavoratori guadagnano meno di 1.300 euro netti al mese. Circa 6,9 milioni meno di 1.000, di cui oltre il 60% sono donne. Oltre 7,5 milioni dei pensionati prende meno di 1.000 euro netti mensili. Il reddito disponibile famigliare fra il 2000-2008 registra una perdita di circa 1.599 euro nelle famiglie di operai e 1.681 euro nelle famiglie con “capo famiglia” impiegato a fronte di un guadagno di 9.143 euro per professionisti e imprenditori.

Cig: penalizzate le donne. Riguardo alla cassa integrazione, un lavoratore a “zero ore” per un mese vede il suo stipendio abbassarsi dai 1.320 euro netti in busta paga ad appena 762 euro. Una lavoratrice in Cig, sempre a zero ore, con uno stipendio mensile di 1.100 euro netti passa a 634 euro netti. (Beh, buona giornata).

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