Crisi del consumo o crisi del consumismo? di Daniela Ostidich* e Cabirio Cautela*-Il Manifesto
La crisi, ci dicono alcuni ottimisti, non ultimo il nostro Ministro dell’Economia, passerà presto. Sarà anche vero – speriamo – ma l’impressione di chi per professione si confronta quotidianamente con le dinamiche del consumo, è che i riflessi di questa crisi sugli atteggiamenti delle persone non saranno passeggeri. Senza il supporto di particolari ideologie, e trasversalmente per livelli sociali e nazioni diverse, le persone sono state particolarmente colpite (psicologicamente se non finanziariamente) da una crisi che ha messo in evidenza la fragilità di una economia basata sull’acquisto del superfluo, sul precario equilibrio del crescente indebitamento, sulla velocità degli scambi e sull’idea di innovazione e crescita continua.
Ma che relazione esiste tra la crisi – che qualcuno addebita alla “finanziarizzazione” dell’economia reale – e lo shopping, argomento in precedenza bistrattato, oramai entrato nelle aule accademiche sotto domini disciplinari come la sociologia dei consumi, il marketing, l’antropologia culturale? Sicuramente lo shopping – come ci insegnano i sociologi – affascina con molteplici seduzioni le persone, sin dalle origini dell’umanità – nelle sue differenti forme – ma questo momento storico ci offre l’opportunità di analizzarlo in modo più distaccato, fermando il fotogramma e consentendo una riflessione che vada alle radici del suo significato più profondo. È un momento di lutto, insomma, che impone una riflessione seria. Per questo colpisce il modo ancora splendidamente ottimista, quasi fatalistico, e comunque sempre molto – troppo – lontano dalla realtà, con cui certi sociologi guardano al fenomeno del consumo oggi (si veda l’articolo di Vanni Codeluppi su Il Manifesto del 20 marzo 2009).
La nostra convinzione è che lo shopping si configuri come una rete, sia che lo si veda dal punto di vista dello scambio (atto/luogo di acquisto), che della destinazione (i regali, i doni, gli acquisti per altri), che negli aspetti di auto percezione e costruzione della propria identità (rispetto ad una rete sociale esterna), che nella struttura urbanistica del territorio (che diventa tramite le strutture del commercio anche rete di mobilità e direzioni di socialità). La merce è il tramite attraverso cui s’innestano, si sviluppano e si attivano reti di relazione. Attività che viviamo quotidianamente, dal lavoro, alla cura di sé, dallo sport alla mobilità sono universi reticolari di cui le merci costituiscono spesso le infrastrutture, i nodi, la materia che quelle reti abilitano, supportano, condizionano, affermano.
Tutto ciò diventa ancora più fondante in epoche di crisi dove la rete è ancora di salvezza.
In questa visione la “merce” è accesso a reti di relazioni e svela qualcosa del momento storico in quanto ne incarna – almeno in parte – i miti e le preoccupazioni.
La visione più interessante del consumo attuale è quella che lo definisce “liquido”; di merce quindi che appare anch’essa “liquida”, nel senso in cui la intende Zygmunt Bauman: acquista valore per perderlo immediatamente dopo l’acquisto, destino seguito dallo stesso acquirente – “liquido” – che è spinto a livelli di consumo ulteriori dal fatto di spartire con l’oggetto dei suoi desideri – momentanei – la stessa caduca appetibilità.
Se cerchiamo invece le radici più profonde, e quindi più umane, e più vere, delle merci, ci si rende conto come non tutto è riducibile a liquidità. Esistono infatti – ed è impossibile negarlo, se non disegnando una società ben diversa dalla realtà – anche dei consumi “solidi”, con contenuti valoriali ben radicati nelle necessità delle persone: la mela acquistata e mangiata per fame, il regalo fatto o ricevuto da chi si ama – e consumi “gassosi”, che pur non scambiando merci materiali si strutturano su scambi di informazioni, conoscenze, esperienze. Come definire, altrimenti azioni che pur sempre rientrano nella categoria dei consumi come quelli legati alle community e ai social network sul web?
La complessità dello shopping è tale da non poterla semplificare in variabili prospettiche o sottili: è elemento politico – da qualsiasi prospettiva lo si guardi. Insomma, ci sembra di dover lanciare un appello, sfruttando proprio questo momento economico caratterizzato da una straordinaria crisi che riguarda proprio i consumi. Innanzitutto che per la tensione verso l’interpretazione delle tendenze future non si dimentichi l’analisi della bieca realtà, considerando tutte le dimensioni che lo shopping riveste nella quotidianità delle persone.
Lo shopping in quanto attivatore di reti, per il tramite di merci, è oggetto d’analisi poliedrico che richiede un intervento congiunto di quei domini disciplinari che studiano fenomeni reticolari: le scienze sociali, il design dei servizi, l’urbanistica. La dimensione esperienziale è sicuramente importante e rivelatrice ma non può avocare a sé solamente la capacità di dare significato all’atto del consumo.
In secondo luogo che per amore della materia (la sociologia dei consumi) non ci si scordi di chi consumare non può. L’inferno dei consumi esiste – che Codeluppi se ne renda conto: purtroppo, non è una visione apocalittica che fa dire a Censis che il 13% degli italiani (2008) sono sotto la soglia di povertà. Ed è questo il punto cruciale che segna il salto della crisi – da congiunturale a strutturale – come direbbero gli economisti “vecchia maniera”. Il sistema attuale non solo non garantisce a certi strati sociali l’acquisizione materiale di merci; ma a ciò si aggiunge l’impossibilità di attivare, attraverso gli acquisti, quelle reti (sociali, logistiche, commerciali, relazionali) che sono alla base del funzionamento del sistema di scambio capitalistico. Chi non consuma non accede e non attiva reti relazionali, dirette e derivate, che vivono per il tramite delle merci acquistate.E’ compito di chi governa i sistemi economici e di distribuzione dei redditi garantire questo diritto di accesso – definibile anche in termini di dignità della persone – ma è anche compito di chi studia i consumi tener conto che non è eticamente e metodologicamente proponibile proporre una lettura del sociale che partendo dal presupposto che lo shopping sia rivelatore di dinamiche condivise neghi la rilevanza (o non riconosca l’esistenza) anche di coloro che accesso al consumo non hanno.(Beh, buona giornata).
* Co-autori di “Hell-Paradise Shopping”, L’inferno e il paradiso degli acquisti e del consumo, Franco Angeli, 2009