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L’articolo 18 e le manie compulsive degli economisti neo-liberisti.

Il capitalismo in balia dei neo-liberisti.
La scacchiera di Adam Smith, di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

OLTRE un decennio è passato, e ancora in Italia si inveisce contro un articolo dello Statuto dei lavoratori che incendia gli animi come se possedesse vizi ferali, da cui deriverebbero tutti i mali.

Possibile che in piena recessione, con la disoccupazione giovanile salita al 32 per cento, l’infelicità e il malessere dipendano in modo così totale dalla tutela giuridica del lavoratore allontanato per falsi motivi economici, contemplata nell’articolo 18?

Possibile che i pochi casi di reintegrazione dei licenziati (un migliaio in 10 anni) siano a tal punto distruttivi della ripresa, della stabilità economica, della reputazione esterna, dell’interesse di investitori stranieri? Neppure la Confindustria pare crederci, tanto che il nuovo presidente, Squinzi, considera la burocrazia ben più devastante dell’articolo 18 (“Non è l’articolo a fermare lo sviluppo”).

Né si può abusare dell’Europa: la lettera della Bce non parla nei dettagli dell’articolo, ma di una “revisione delle norme che regolano assunzione e licenziamento (…), stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro”. Le autorità europee sono “indifferenti alle classi” (class-indifferent), ha detto un economista greco, Yanis Varoufakis: fissano obiettivi, non come raggiungerli.

Se i detrattori dell’articolo 18 sono così rigidi vuol dire che dietro la loro battaglia c’è un’ideologia forte, restia alle confutazioni. C’era in Berlusconi, ma c’è anche in quello che Ezio Mauro chiama “integralismo accademico”. Una norma dello Statuto diventa sineddoche, cioè la parte che spiega il tutto: come quando si dice vela e s’intende nave. Si dice articolo 18 ma s’intende la filosofia, la genealogia, la storia dell’incandescente articolo. Con questa filosofia e questa storia si regolano i conti, e più precisamente con alcuni principi base della socialdemocrazia: lo Statuto dei lavoratori del ’70, e la concertazione praticata nei primi ’90 tra governi, imprenditori, sindacati.

Ambedue sono la riposta che la nostra classe dirigente seppe dare al ribellismo sociale, nonché al terrorismo. Ambedue generarono un Patto sociale permanente che in Italia era inconsueto, che consentì ai sindacati di preferire le riforme alla rivoluzione o ai particolarismi rivendicativi. Che li spinse a unirsi, a rendersi autonomi dai partiti. Che diede loro un’inedita padronanza di sé, del destino nazionale (Amartya Sen parla di empowerment, di potere su di sé dato agli emarginati, perché diventino cittadini responsabili).

Tutto questo è socialdemocrazia, non comunismo o consociativismo: anche se da noi il nome era altro. Chi se la prende con tale patrimonio trucca un po’ le carte. La crisi del 2007-2008 non sembra passata da queste parti, intaccando vecchi dogmi e anatemi: per molti resta una storia raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che prodigiosamente colpevolizza non i mercati poco imbrigliati, ma le riforme socialdemocratiche e la carta d’identità dell’Europa postbellica che è stata la creazione (non a caso concepita durante la guerra) del Welfare.

È così che alcune parole decadono, annerite: la concertazione, il consenso o dialogo sociale. Perfino dialettica è parola invisa a chi, certo d’avere scienza infusa, non vede che il conflitto di idee e progetti è sale della democrazia.

Vale dunque la pena ripensare gli anni ’70-’90, che produssero la variante socialdemocratica italiana che è il patto sociale permanente. Lo Statuto dei lavoratori, divenuto legge nel ’70, viene approvato dal Senato il giorno dopo Piazza Fontana. La concertazione e la politica dei redditi furono perfezionate da Amato e Ciampi nel ’92 e ’93, quando un sistema politico infettato dalla corruzione e tanto più vulnerabile al terrorismo venne messo in riga da Mani Pulite.

Salvaguardare la coesione sociale d’un Paese così provato era prioritario, e per Buy Cialis ottenerla fu inventata non una democrazia più autoritaria ma più plurale, che del conflitto sapesse far tesoro “coinvolgendo (sono parole di Gino Giugni, ministro del lavoro di Ciampi) una platea di soggetti assai più ampia di quella uscita dal voto”.

Sin dal ’94 Berlusconi mise in questione tale eredità. La concertazione divenne il nemico, come testimonia il Libro Bianco sul lavoro presentato nel 2001 dal ministro del Welfare Maroni: la codecisione doveva finire, soppiantata da mere consultazioni. Che il bersaglio non fosse il comunismo ma la socialdemocrazia è attestato dalla biografia di Giugni: è nel partito socialdemocratico di Saragat che il padre della concertazione si fece le ossa.

In un libro-intervista del 2003, Giugni disse che con lo Statuto dei lavoratori “la Costituzione entrò in fabbrica”, e che la concertazione rese la democrazia più plurale, efficace: “Perché ci sia intesa bisogna partire dalla diversità”, scrisse, aggiungendo che la critica della concertazione in nome delle prerogative sovrane del Parlamento era infondata, anche quando veniva da economisti illustri come Mario Monti (Giugni, La lunga marcia della concertazione, Mulino).

Gino Giugni fu gambizzato nell’83 dalle Br. Altri economisti a lui vicini, riformatori del diritto del lavoro, furono assassinati (Tarantelli, D’Antona, Biagi). Tutti erano fautori della concertazione. Ricordiamo quel che disse D’Antona, sull’articolo 18 e la reintegrazione dell’operaio licenziato per fittizi motivi economici: “Il superamento delle forme più rigide di garantismo può portare a rivedere in cosa consiste un licenziamento legittimo, ma non a sottoporre a revisione i rimedi che si offrono nei confronti dei licenziamenti non rispondenti a tale requisito”. Il regolamento dei conti non è finito, con un’epoca che vide congiungersi concertazione, lotta alla corruzione, antimafia. Noi commemoriamo Falcone e Borsellino, e Tarantelli, D’Antona, Biagi. Ma volentieri ne dimentichiamo i metodi e le fedi.

Dicono che l’articolo 18 non ha da essere tabù, e certo i difetti non mancano: i processi sterminati sono fonte d’incertezza. Ma i tabù sono materia combustibile, non si spengono senza pericolo. Ci deve essere una ragione per cui all’articolo s’aggrappa anche chi – precario, disoccupato – non ne usufruisce. Anche chi, col tristo nome di esodato, non ha più lavoro e non ancora pensione. Esistono tabù civilizzatori, eretti contro future derive. I tabù non sono idoli, feticci. È colma di tabù, l’Europa uscita da guerre e dittature che fecero strame di antichi divieti (non ucciderai, non negherai giustizia alla vedova e all’orfano, ai deboli e diversi). Per Hitler era tabù intollerabile anche il Decalogo.

Gli economisti neo-liberali che denunciano mercati troppo regolati hanno forse in mente una società perfetta, che funziona senza lentezze né dubbi. Si dicono ispirati da Adam Smith. Ma Smith teorizzò la mano invisibile che in un libero mercato trasforma l’interesse egoista in pubblica virtù, restando il filosofo morale che era. In quanto tale se la prese con gli ideologi, chiamati “uomini animati da spirito di sistema”.

L’uomo di sistema, scrive nella Teoria dei sentimenti morali, “tende a essere molto saggio nel suo giudizio e spesso è talmente innamorato della presunta bellezza del suo progetto ideale di governo, che non riesce a tollerare la minima deviazione da esso. Sembra ritenere di poter sistemare i membri di una grande società con la stessa facilità con cui sistema i pezzi su una scacchiera.(…) Nella grande scacchiera della società umana ogni singolo pezzo ha un principio di moto autonomo, del tutto diverso da quello che la legislazione può decidere di imporgli”.

Forse vale la pena rileggere Smith il moralizzatore, oltre che l’economista: l’avversario di tutti coloro che “inebriati dalla bellezza immaginaria di sistemi ideali” si lasciano ingannare dai loro stessi sofismi, e alla società chiedono troppo, non ottenendo nulla. (Beh, buona giornata).

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La crisi? Non ne siamo ancora usciti.

«Siamo ancora dentro la crisi, e purtroppo il 2010 sarà ancora peggiore del 2009 dal punto di vista dell’occupazione: ci aspettano altri 10-12 mesi di grande sofferenza». Guglielmo Epifani, segretario generale della CGIL dixit. Ben buona giornata.

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Quanto fa paura il bossnapping.

Il sequestro non è mai un gioco
di BARBARA SPINELLI-La Stampa

E’ dagli inizi di marzo che sugli schermi televisivi, in Francia, va in onda un peculiare e ripetuto spettacolo: il sequestro dei manager, ormai comunemente chiamato bossnapping. È accaduto allo stabilimento della Sony e a Caterpillar, a 3M e Continental, a Molex e in una filiale della Peugeot. Il sequestro può durare ore o giorni, e in genere è presentato quasi fosse una fiaba a lieto fine: gli operai che l’hanno organizzato sono soddisfatti per l’aumento di stipendio ottenuto o il licenziamento evitato, il boss esce dalla prigionia sotto i fischi non solo dei sequestratori ma della gente che sta da quelle parti. Poco fiabeschi sono tuttavia i volti dei sequestrati: lo sguardo è sperduto, i capelli spettinati, si vede che la paura li ha abitati e un male è stato commesso.

Per il sequestrato la piccola rivoluzione non è stata un pranzo di gala: fatto di serena cortesia. I sequestratori insistono su questa delicata serenità, si definiscono non maoisti ma pragmatici – volevamo solo esser riconosciuti, non c’era in noi risentimento – ma dal punto di vista del sequestrato il distinguo è insensato.

Dal loro punto di vista la violenza è stata inaudita: se ti chiudono in una stanza per strapparti concessioni non sai come andrà a finire e chi deciderà l’epilogo. La frontiera che separa il gioco dal processo e dall’esecuzione è labilissima. Jean Starobinski racconta come in un attimo si passò, nel ’700, dalle graziose altalene di Fragonard alla ghigliottina.

Questa labile frontiera svanisce, nei racconti dei carcerieri. Marx aveva detto che «la storia si ripete sempre due volte: la prima in tragedia, la seconda in farsa». E i carcerieri pur volendo esser seri usano scientemente il vocabolario della farsa giocosa. Dopo il sequestro di quattro dirigenti alla Scapa, un sindacalista ha dichiarato: «Li abbiamo solo trattenuti, non sequestrati. Il nostro atteggiamento era zen. I sequestrati potevano uscire dalla stanza a fumare, bere il caffè. La mattina gli portavamo il croissant, anche se ovviamente dalla fabbrica non potevano uscire». Ecco il peculiare, nelle rivolte di questi tempi di crisi: sono certo violente – come definire altrimenti una prigionia che esordisce con un cornetto ma non sai come finisce? – e però son presentate addirittura come zen. Nell’epoca di Mao la rivoluzione non era un pranzo di gala o un ricamo, ma un atto di violenza. Oggi è proprio questo: croissant, ricamo cortese. Tutto ciò sarebbe plausibile e non sinistro se non fosse per quei volti visti in televisione, impalliditi. Per loro non è stato ricamo ma violenza illegale, gioco che impaura. Prima ti danno il cornetto poi magari qualcuno perde la pazienza e non gioca. La storia che si ripete in farsa è una delle inanità dette da Marx. La violenza non è meno lesiva se la chiami farsa.

Tuttavia è l’elemento farsesco a esser sottolineato, con effetti insidiosi perché la leggerezza facilita il contagio. Oskar Lafontaine (ex ministro delle Finanze, oggi leader della sinistra radicale tedesca) è giunto fino a sollecitare l’imitazione, il 24 aprile: «Quando i lavoratori francesi in collera sequestrano i padroni, desidererei che accadesse anche qui». Più allarmato, Epifani teme le emulazioni e mette in guardia contro un sindacato che dovesse esser debole come in Francia, e tanto più corrivo. È la corrività diffusa che impressiona in Francia. Corrività estesa ai politici, che sembrano come confortati da quel che accade: non è lo Stato il Leviatano sotto tiro. Il Leviatano è l’astratto, inafferrabile Mercato.

Il sociologo Carlo Trigilia ha detto cose pertinenti in proposito. Ha scritto che il fenomeno francese deve suscitare più inquietudine vera, e perciò più azioni. Che bisogna riconoscere gli effetti sociali della crisi, esporli con maggiore trasparenza, e dare ai minacciati maggiore giustizia e sicurezza. Gli operai dopo decenni di latitanza tornano a lottare con mezzi illegali, e questo rende i sequestri un evento di grande rilievo (Il Sole-24 Ore, 2 aprile 2009)

Ma c’è qualcosa di più negli eventi francesi, ed è la scherzosa popolarità di cui godono, non solo in Francia, le violenze anti-manager. Specialmente premonitorio è il film Louise-Michel di Kervern e Delépine, adorato anche in Italia. La storia narra di lavoratori che un mattino s’accorgono che la fabbrica è delocalizzata. Sperduti ma battaglieri, decidono che la via a questo punto è una sola: buter le chef, far fuori il capo. Probabilmente ogni azione violenta comincia così, con una freddura buttata lì a casaccio. Tutto è buttato lì a casaccio e si trasforma in comica, nel film. Il killer ingaggiato è un asso di maldestra idiozia, e il pubblico ride: quasi troppo. La violenza è edulcorata, ordinaria: proprio così si fa epidemica.

Due cose colpiscono innanzitutto nei bossnapping, rivelatrici ambedue dello spirito del tempo. In primo luogo: la distinzione che vien fatta tra legale e legittimo. Il sequestro è certo illegale, in Francia è punito severamente. Ma il legale s’appanna, completamente sommerso dalla categoria della legittimità come da quella, dichiarata superiore alle norme, dei valori. Può non esser legale il mio agire, ma il contesto e i valori lo rendono comprensibile e poi giustificato. La distinzione è antica vena francese: le mobilitazioni per Cesare Battisti o altri ex terroristi italiani hanno questa radice.

Il secondo aspetto riguarda la figura del ribelle. È una figura che s’è banalizzata, contaminando la politica oltre all’escluso. Ci sono leader che su tale caratteristica hanno edificato un carisma, meticolosamente coltivato. Sarkozy e Berlusconi si sono costruiti come ribelli, sovrapponendo spesso il legittimo al legale. In qualche modo son figli del ’68 che tanto esecrano, e della cultura Do It Yourself che secondo lo studioso Xavier Crettiez nasce dal ’68. La cultura DIY significa: fai le cose a modo tuo, null’altro ti servirà e tanto meno rispettare le leggi e il «teatro della politica». Quel che è legale, sono io a dirlo. Il mio scopo è realizzarmi, senza badare ad altri. Se sei licenziato trovati qualcosa da fare, dice Berlusconi. Trovati un marito ricco. La chiamano ribellione del futile: fuck off è il suo motto.

La banalizzazione della violenza spinge il politico e gli stessi manager a passarci sopra, illudendosi che la furia si spenga per stanchezza o noia. Quasi nessun sequestrato ha sporto denuncia e Sarkozy, che tiene a esser uomo forte, è imbarazzato. Lo è ancor più perché è sotto influenza dei sondaggi, e questi sono al momento univoci. Il più significativo è quello dell’istituto Csa, all’inizio di aprile. Quasi la metà dei francesi approva i sequestri, e la cosa impressionante è la divisione per età. È la generazione di mezzo – quella del ’68 – che antepone la legittimità alla legalità. I più favorevoli ai sequestri hanno tra 40 e 64 anni (la percentuale più alta, 52 per cento, è fra i 50 e 64. In questa generazione c’è il numero più basso di contrari). Tra i giovanissimi, invece (18-24 anni), i favorevoli ai sequestri sono il 38 per cento, e quelli che li giudicano inaccettabili sono la cifra più alta in tutte le età: 62.

Il nuovo ribelle esprime risentimento ma anche altre passioni. L’uomo in rivolta di Albert Camus lo descrive come qualcuno che in prima linea invoca riconoscimento: «Non difende solo un bene che non possiede e la cui privazione lo frustra. Chiede che sia riconosciuto qualcosa che possiede, e che per lui è più importante di quel che potrebbe invidiare»: il lavoro, uno statuto riconosciuto nella società. Quel che il ribelle moderno dimentica di Camus è il senso della misura che deve correggere il vitalismo ribellista. In Camus è scritto: «Per esser uomo, bisogna rifiutare di essere Dio»: una frase che suscitò l’ira di Sartre e Breton. Sartre ha oggi di nuovo seguaci, ma chi vede lontano resta pur sempre Camus. (Beh, buona giornata).

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“Il nuovo progetto deve portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro.”

La rivincita del lavoro italiano
di MARIO DEAGLIO-La Stampa

E’ ragionevole che dall’Italia si guardi alle tormentate vicende della Chrysler essenzialmente nell’ottica dei riflessi sul settore automobilistico italiano e quindi sulla Fiat. Per comprenderne bene il senso, tali vicende vanno però prioritariamente collocate nell’ambito di un radicale mutamento delle politiche del governo americano nei confronti delle industrie in crisi nell’attuale, difficilissimo passaggio dell’economia mondiale. La strategia adottata nei confronti della Chrysler non rientra infatti negli schemi di intervento pubblico a sostegno di imprese in difficoltà ai quali siamo abituati da oltre settant’anni. Siamo in presenza di tre fattori, di portata ancora incerta che segnano però in ogni caso una netta rottura con il passato.

Il primo fattore riguarda la forma del sostegno pubblico. Non si è deliberato un sussidio generico a un’industria privata, non c’è alcuna nazionalizzazione e neppure si può parlare di «irizzazione», in quanto la partecipazione pubblica diretta sarà molto limitata. Il governo americano compare invece in due vesti diverse: quella di finanziatore di uno specifico e imponente piano industriale di innovazione e di crescita.

E quella di «ispiratore autorevole» di un indirizzo generale (auto meno ingombranti, meno inquinanti e meno care, da realizzarsi con un partner straniero specificamente indicato) entro il quale i privati si assumono tutta la responsabilità operativa.

Il tutto avverrà – dopo una parentesi che si profila brevissima di amministrazione controllata che riguarda i partecipanti americani all’accordo e non muterà in nulla l’aspetto industriale – in un quadro di proprietà che vede la maggioranza in mano al sindacato attraverso fondi pensionistici e sanitari per tutto il periodo del risanamento, in un sostanziale rivolgimento degli schemi di controllo delle grandi industrie e della tradizionale dialettica tra le parti sociali. Ed è questo il secondo fattore di rottura al quale gli europei devono guardare con speciale attenzione. Il terzo fattore di rottura è rappresentato dal più generale tramonto del tradizionale potere dei manager industriali americani, fino a pochi mesi fa sostanzialmente incontrollato, in presenza di una proprietà molto frazionata e interessata principalmente al rendimento finanziario immediato.

Oltre alla volontà innovativa del governo americano, il ruolo operativo della Fiat rappresenta l’elemento catalizzatore del cambiamento. La società torinese è stata scelta per fattori oggettivi e soggettivi. I fattori oggettivi riguardano le dimensioni e il carattere complementare delle due aziende automobilistiche che fa ragionevolmente sperare in rapide sinergie; quelli soggettivi derivano dal fatto che la cura di cui il gigante malato americano ha bisogno è analoga a quella che l’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, ha messo in atto con successo e con estrema rapidità a Torino. Tutto ciò spiega perché alla Fiat non si chieda alcun impegno finanziario ma un impegno molto intenso, di tipo organizzativo, umano e tecnologico che coinvolge direttamente proprio i vertici aziendali.

In questo contesto è appropriato domandarsi quali possono essere i vantaggi per la Fiat, per l’industria e per l’intera economia italiana. Nel breve periodo vi saranno forniture tecnologiche con qualche ricaduta produttiva; inoltre, anche se i due partner continueranno essenzialmente a produrre auto diverse per mercati diversi, l’inserimento di alcuni modelli prestigiosi della Fiat sul mercato americano attraverso una rete di vendita estesa e molto collaudata non potrà non avere effetti positivi in Italia. Più in generale, non ci dovrebbero essere aspetti positivi per uno dei due partner a scapito dell’altro; gli unici vantaggi non potranno che essere congiunti e, per quanto il ridisegno organizzativo di Chrysler debba essere estremamente rapido, saranno visibili soprattutto in tempi medi.

Il nuovo progetto deve infatti portare sia Fiat sia Chrysler oltre i tempi della crisi che stiamo vivendo e quindi introduce una dimensione di lungo termine su un orizzonte lavorativo costretto in questi mesi a vivere da un periodo di cassa integrazione a un altro. La posta del «grande gioco» che Fiat-Chrysler dovrà affrontare è niente meno che l’automobile del futuro; un’automobile poco inquinante, poco ingombrante poco costosa e forse più sobria, costruita in molte varianti attorno a poche piattaforme di base. Da «giochi» mondiali di questo tipo l’industria italiana era stata gradualmente esclusa con la forte riduzione della sua presenza nell’informatica, nella chimica e nella farmaceutica. L’accordo Fiat-Chrysler riporta l’industria italiana a una presenza di alto profilo che negli ultimi due decenni era stata messa in forse. /Beh, buona giornata).

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Crisi: «Oggi si licenzia per migliorare il rendimento degli azionisti».

di Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine»

«Mi rivolto, dunque siamo. La storia prodigiosa qui evocata è la storia dell’orgoglio europeo». Le parole di Albert Camus sembrano tornare d’attualità con l’escalation di sequestri che stanno bersagliando i dirigenti d’azienda in Francia. L’istinto individuale che trova sbocco nell’altrettanto spontanea rabbia collettiva. Non si può fare, beninteso: il rapimento all’interno dell’impresa è severamente punito dal codice penale transalpino. Sta di fatto che accade, con illustri ed estesi precedenti nel paese, dall’Alto Medioevo agli anni ‘70. E risuccede per la disperazione dei tagli motivati dalla crisi, nonché per la presa d’atto dell’assenza di esiti dal ricorrente modello negoziale.

Il primo episodio ha coinvolto un paio di mesi fa il patron di Sony France, a Pontonx sur l’Adour, nel dipartimento sud-occidentale delle Landes, tenuto in ostaggio per ventiquattr’ore, l’identico trattamento riservato qualche giorno più tardi al direttore dell’azienda farmaceutica 3M di Pithiviers, a Sud di Parigi.

Poi è arrivato il turno dell’illustre magnate del lusso François-Henri Pinault, grande collezionista d’arte e proprietario tra l’altro del veneziano Palazzo Grassi, per un patrimonio stimato a quattordici miliardi di euro, un gruzzoletto da tenere ben al riparo dai piani di “ristrutturazione” da lui imposti alle proprie imprese, che prevedono il licenziamento di almeno millequattrocento persone. Dopo una riunione dei vertici del gruppo (la Pinault-Printemps-Redoute, fondata dal padre) nel quindicesimo arrondissement parigino, i dipendenti dei magazzini Fnac e Conforama hanno tenuto sotto assedio, a calci e spintoni, il taxi su cui era a bordo. E’ durato una lunga ora, fino all’intervento della polizia.

E infine il fatto più clamoroso, ossia il sequestro di cinque dirigenti delle due fabbriche dell’americana Caterpillar nella regione di Grenoble, incluso il direttore Nicolas Polutnick, al seguito dell’annunciato licenziamento di settecentotrentatre operai, ossia quasi un terzo della forza lavoro in Francia. L’azienda si difende denunciando un crollo del cinquantacinque per cento delle ordinazioni, con la conseguenza che gli “esuberi” costituirebbero la sola possibilità per evitare di cacciare tutti e di chiudere gli stabilimenti.

La crisi tuttavia, qui come altrove, puzza di pretesto, trattandosi del più grande produttore al mondo di veicoli e macchinari per costruzioni ed estrazioni, di motori diesel e a gas naturali, nonché di turbine a gas industriali. Non è insomma un’azienda in rosso, bensì realizza tuttora utili. E’ suonato allora inaccettabile il rifiuto padronale di qualsiasi negoziato con i sindacati sulle esistenti controproposte di riduzione salariale e di indennità di licenziamento.

«Oggi si licenzia per migliorare il rendimento degli azionisti», spiega Nicolas Benoît, delegato della Confédération Générale du Travail nell’impresa.
La rabbia è allora quantomeno comprensibile. Comandano ancora gli interessi azionari, gli stessi che hanno portato al crack l’economia reale. E quando si tratta non degli spiccioli del trattamento di fine rapporto dei lavoratori ma di buonuscite milionarie per la casta dei propri dirigenti le imprese non battono ciglio e l’Eliseo va poco al di là di dichiarazioni populistiche. Il decreto recentemente varato dal governo riguarda solo le sei banche interessate dagli aiuti di Stato e due case automobilistiche, e limita il proprio orizzonte temporale all’anno prossimo.

E’ stato in realtà lo stesso Sarkozy a intervenire per calmare le acque a Caterpillar ricevendone i dipendenti e spingendo per riaprire la trattativa. Le parole però non bastano ai lavoratori, che tengono dissotterrata l’ascia di guerra, consapevoli che una promessa presidenziale pronunciata l’anno scorso per evitare la chiusura dell’acciaieria dell’Arcelor-Mittal si è risolta nel nulla di fatto, ovvero nel licenziamento dei suoi cinquecentosettantacinque operai.
«Nichilista la rivolta? – si è chiesto allora Adriano Sofri – Beh – si è risposto – le avete tolto tutto, anche la lepre (ideologica) della rivoluzione».

La Francia rivendica quella lepre. E ai sondaggi, metà dei suoi cittadini si dice oggi favorevole all’arma del sequestro. (Beh, buona giornata).

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Aumentano le importazioni dalla Francia: manager italiano assediato per ore dagli operai.

Manager assediato per ore dagli operai
Alla Benetton di Piobesi dopo l´annuncio dei tagli: salvato dai carabinieri
di Stefano Parola

«A Bruxelles hanno sequestrato tre manager della Fiat per colpa di 24 licenziamenti? Almeno nel nostro caso erano 143 persone a perdere il posto». Giuseppe Graziano, segretario della Uilta-Uil piemontese, ora quasi ci scherza su. Quelli che ha vissuto a Piobesi, nello stabilimento della Olimpias, sono stati momenti tutt´altro che facili. Ancor meno per Tullio Leto, direttore del personale dell´azienda tessile del gruppo Benetton: quando hanno saputo che l´azienda non avrebbe concesso la minima apertura, i lavoratori lo hanno tenuto in assedio per tre ore e lui è uscito dallo stabilimento attraverso una porta sul retro, grazie all´intervento dei carabinieri.

È il 25 febbraio. Le trattative tra azienda e sindacati proseguono ormai da settimane, ma sono del tutto insabbiate, serve un ennesimo incontro. Di solito le aziende torinesi conducono le trattative all´Unione industriale di Torino, in via Fanti, ma la Olimpias è associata a Unindustria Treviso, città in cui ha la sede principale. Quindi è necessario riunirsi direttamente nello stabilimento di Piobesi. Alle 14 iniziano le trattative, i 143 dipendenti cominciano uno sciopero spontaneo e attendono novità appena fuori dagli uffici.

Gli animi sono caldi fin da subito. Dopo un paio d´ore i funzionari dei sindacati escono e comunicano che l´azienda non fa passi indietro: conferma i 143 licenziamenti, nega la cassa integrazione per ristrutturazione e qualsiasi forma di incentivo, concede un solo anno di ammortizzatore sociale. Ai dipendenti è come se crollasse il mondo addosso. C´è chi urla, chi piange, chi batte pugni suoi vetri. Entrano in massa nell´ufficio delle trattative. In un attimo il direttore Leto e il suo segretario sono assediati. «Una sensazione molto brutta, una situazione del tutto anomala in una trattativa sindacale», ricorda Assunta De Caro, segretaria della Filtea-Cgil Piemonte. La tensione raggiunge il suo apice verso le 18: «A un certo punto abbiamo deciso di chiamare i carabinieri».

Dalla caserma di Moncalieri il capitano Domenico Barone parte con una buona quantità di uomini: «Arrivati sul posto – spiega il capitano – abbiamo cercato di placare gli animi e abbiamo creato una cornice di sicurezza attorno al direttore Tullio Leto. Nel frattempo sono volate parole grosse ma non è successo nulla di grave». Ci vogliono due lunghe ore di diplomazia prima che la situazione si sblocchi: «Abbiamo creato un diversivo – racconta il capitano dei carabinieri di Moncalieri – e abbiamo fatto uscire il direttore e il suo segretario da una porta secondaria». È così, alle 22.30, finisce la lunghissima giornata di lavoro di Tullio Leto.

«L´episodio comunque ha cambiato il corso della trattativa – dice il sindacalista Graziano – perché ha fatto capire all´azienda che i lavoratori erano disposti a tutto pur di ottenere qualcosa dalla trattativa». In effetti, così è stato. Perché una serie di proteste all´insegna della civiltà, tra cui un presidio davanti al negozio Benetton di piazza San Carlo, hanno portato a un salvataggio in corner. La trattativa è stata chiusa da pochi giorni: non un solo anno di cassa ma due, più un incentivo per l´uscita e l´impegno della Olimpias a ricollocare una parte dei dipendenti. Si chiude comunque, ma la disperazione di quel 25 febbraio è un po´ più distante. (Beh, buona giornata).

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La rabbia contro la crisi è un Caterpillar

Il direttore del personale e altri quattro manager della Caterpillar sono tenuti sotto chiave dagli operai nella sede dell’azienda a Grenoble. I lavoratori impediscono loro di uscire dall’ufficio e chiedono di riaprire le trattative arenatesi sulla decisione dell’azienda di licenziare 733 delle 2.500 persone che lavorano in Francia per la multinazionale statunitense leader nella costruzione di macchinari per il movimento terra. “Una scelta – sostengono i dirigenti – dettata dal calo delle vendite del 55%”.

“Libertà in cambio di trattativa”. “Li tratteniamo per discutere con loro”, ha detto Benoit Nicolas, delegato del sindacato Cgt. “Chiediamo che fissino una riunione coi rappresentanti del personale per sbloccare i negoziati. Loro sostengono che non ci sono margini di trattativa perché non hanno tutti i poteri – ha aggiunto il sindacalista – ma penso che si possa arrivare a qualcosa”. Caute le dichiarazioni fatte filtrare oltre la cortina di operai dal direttore “sequestrato” della sede di Grenoble, Nicolas Polutnick: “Un piano di ristrutturazione è un procedimento complesso. Senza la libertà di movimento sarà difficile poter arrivare ad un negoziato”.

Caccia al manager. Non è la prima volta che succede. Qualche settimana fa, sempre in Francia, nella caccia al manager sono incappati l’amministratore delegato della Sony France, tenuto in ostaggio una notte, e il direttore della filiale 3M, liberato solo dopo la firma di un protocollo d’accordo e l’apertura dei negoziati sul taglio di 110 posti di lavoro su 235.

Assalto alla casa del banchiere. E la Francia non è l’unico Paese europeo in cui la crisi economica provoca episodi del genere. A Edimburgo pochi giorni fa è stata assaltata la villa di sir Fred Goodwin, ex amministratore delegato della Royal Bank of Scotland, ridotta al fallimento dal management. La responsabilità dell’azione è stata rivendicata dal gruppo “Bank bosses are criminals” (“I dirigenti di banca sono criminali”). (Beh, buona giornata).

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Gli operai della Continental in Francia: «Hanno avuto il nostro sudore, vogliono il nostro sangue, non avranno il nostro culo».

Rabbia operaia
di Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine» (fonte: megachip.info)

Per l’Europa l’11 marzo evoca l’incubo del più grave attentato terroristico del dopoguerra, cinque anni fa a Madrid. Per la Francia la stessa data rimarrà probabilmente nella storia come l’emblema del cataclisma economico e dell’esplosione della rabbia sociale. In quel giorno i vertici della tedesca Continental annunciavano la chiusura dello stabilimento di Clairoix, nel nord-ovest della Francia, ossia il licenziamento entro un anno di tutti i suoi millecentoventi lavoratori, che si aggiungeranno ai settecentottanta messi in strada ad Hannover. La risposta operaia è stata di una virulenza inedita, espressione del resto prevedibile di chi versa nell’assoluta disperazione.

Molti di loro sono giovani, sotto i quarant’anni, e la maggioranza rifiuta etichette ideologiche. Tutti sono arrabbiati, e “pronti a tutto”. Perfino a impiccare i manichini di due dirigenti, quelli del capo della fabbrica e della società, non senza il rogo di decine di pneumatici – di cui la multinazionale è il quarto produttore mondiale – e copiosi lanci di scarpe e di uova. Le stesse uova sono state anche protagoniste di assalti verso dirigenti in carne e ossa.
In un caso gli operai hanno così messo in fuga il direttore dello stabilimento nell’atto del terribile annuncio. In un altro, qualche giorno più tardi, si sono recati in trasferta nella vicina Reims, riuscendo a penetrare nell’albergo dove i delegati della società stavano a colloquio coi rappresentanti dell’amministrazione locale.

La rabbia tra i “Conti” (così apostrofati i dipendenti Continental) è alimentata anche dal senso del tradimento. Solo pochi mesi fa avevano accettato un compromesso che prevedeva l’allungamento dell’orario lavorativo e altri sacrifici contrattuali in cambio della rassicurazione scritta del mantenimento del posto almeno fino al 2012. L’impresa si difende illustrando il calo del trenta per cento della domanda nei primi due mesi dell’anno, correlata al crollo del settore auto.

Il vicepresidente della Continental Bernhard Trilken aggiunge poi che «la sovrapproduzione è arrivata alla fine del 2008 a sette milioni e mezzo di pneumatici» e che Clairoix è «la fabbrica meno competitiva al mondo», in quanto eroga salari da almeno millesettecento euro, superiori a quelli degli altri stabilimenti. Cifre rilevanti, non meno tuttavia di quella, riferita da «Le Monde», di un utile netto, generato l’anno scorso da Clairoix stessa, di ben ventisette milioni.

La solidarietà verbale agli operai sembra essere quasi unanime, ma raramente è gradita. Gelida è stata la risposta alle dichiarazioni in ordine sparso dei socialisti. Peggio ancora nei confronti di alcuni deputati dell’Ump, il partito di Sarkozy (“il presidente del potere d’acquisto”), allontanati a spintoni dalla fabbrica, dove si erano presentati per esprimere la loro vicinanza.

La novità dell’azione dei ‘Conti’ sta in effetti proprio nella loro esplicita minaccia di un “conflitto violento”. «Non abbiamo nulla da perdere, e la polizia lo sappia: non siamo infermiere, non ci faremo fregare», ha detto ai media un operaio anziano, nonostante la prossimità della pensione. I sindacati, offesi dal dietrofront della multinazionale, stavolta appoggiano. «Hanno avuto il nostro sudore, vogliono il nostro sangue, non avranno il nostro culo», è il colorito monito di Xavier Mathieu, vertice della Cgt. E secondo il segretario di Force Ouvrière Jean-Claude Mailly «questa violenza è legittima difesa». Una violenza che esce dai confini di Clairoix.

A Pontnox-sur-l’Adour, l’amministratore delegato di Sony France Serge Foucher è stato trattenuto in ostaggio per una notte all’interno dell’impianto, anch’esso prossimo alla chiusura, e rilasciato solo dopo aver accettato riaprire la trattativa sulla cassa integrazione.

Ed è un paese intero a schierarsi a fianco degli operai. Lo si è visto nello sciopero generale del 19 marzo scorso, indetto per protesta contro il piano anticrisi dell’Eliseo – sbilanciato sulle banche e paragonabile per esiguità, nei paesi industrializzati, solo alle misure del governo italiano – con una partecipazione quasi senza precedenti dei lavoratori privati. E col sostegno, secondo i sondaggi, di tre francesi su quattro. (Beh, buona giornata).

acisilin@yahoo.it

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