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Romano Prodi: il G20 ha messo sotto torchio il governo, non il Paese.

di Romano Prodi-Il Messaggero
Il G20 di Cannes era partito con un obiettivo ed è finito con un altro. Per mesi la roboante regia francese ci aveva annunciato che questo sarebbe stato il vertice delle grandi riforme del sistema finanziario internazionale. Un obiettivo più volte ripetuto anche se politicamente impossibile perché le grandi riforme non si fanno in un periodo in cui nessuno ha interesse a farle. Non gli Stati Uniti perché con qualsiasi riforma perderebbero i loro ingiustificati privilegi, non la Cina perché ha tutto l’interesse a rinviare le riforme a quando sarà più forte e più pronta, non l’Europa perché a Bruxelles non comanda nessuno e nelle diverse capitali ognuno la racconta per conto suo. Tolto ogni grande progetto di riforma è rimasta in agenda l’emergenza della zona euro. In teoria il G20, rappresentando tutti i grandi Paesi del mondo, avrebbe dovuto aiutare il confezionamento di un paracadute per l’attuale crisi europea ma tutti i grandi, a cominciare dalla Cina, hanno fatto marcia indietro quando si sono resi contro che nemmeno i Paesi europei erano disposti ad aumentare il proprio contributo nei confronti del Fondo salva-Stati (Efsf).

Di fronte all’impossibilità di accordo su nuove regole e di fronte al rifiuto di raccogliere nuove risorse per fare fronte all’emergenza, l’unica strada rimasta al G20 è stata quella di fare la voce grossa di fronte ai Paesi devianti. A questo punto si è snodato l’aspetto per noi drammatico e inatteso: il processo cominciato nei confronti della Grecia si è trasformato in un serrato dibattimento contro l’Italia, con tanto di condanna ad un lungo periodo di libertà vigilata. E per essere sicuri che i comportamenti del condannato non si discostino dagli obblighi contenuti nella sentenza è stato deciso un doppio controllo sia da parte della Commissione Europea che del Fondo Monetario Internazionale.

Un’umiliazione nei confronti dell’Italia del tutto inedita e, da parte di molti osservatori, ritenuta eccessiva anche tenendo conto delle difficoltà oggettive della nostra economia. A Cannes non è stata tuttavia processata l’economia italiana ma la mancanza di credibilità del nostro governo e la sua incapacità sia nel prendere le decisioni necessarie per porre rimedio alle nostre anomalie, sia nel dare attuazione agli impegni faticosamente e tardivamente assunti.

Più che un processo contro l’Italia abbiamo assistito ad un processo contro il governo italiano, ritenuto da tutti gli organismi internazionali non credibile e perciò non degno di fiducia. Un fatto estremamente dannoso perché riportato e ossessivamente ripetuto in tutti i media del pianeta, forse perché dal vertice di Cannes non vi era null’altro da riportare o forse anche perché il folklore del nostro primo ministro fa notizia ovunque. Il primo ministro, durante la conferenza stampa conclusiva, si è difeso descrivendo l’immagine di un’Italia prospera, spendacciona e felice, che potrebbe navigare serena nelle acque tempestose della crisi se non fosse entrata nell’euro con un tasso di cambio sbagliato. Non vale nemmeno la pena di sottolineare l’aspetto tragicamente ridicolo di quest’affermazione: basta ricordare come la fissazione del livello di ingresso della nostra moneta nell’euro a 990 lire per marco tedesco sia stato riconosciuto da tutti gli osservatori stranieri e italiani (compresi quelli appartenenti alla parte politica dell’attuale presidente del consiglio) come un insperato successo per l’economia italiana che, con questo tasso di cambio, poteva entrare nell’euro con la massima capacità concorrenziale possibile.

È doveroso invece sottolineare come questi attacchi all’euro e le ripetute manifestazioni di sfiducia nei suoi confronti siano state nei giorni scorsi una delle principali cause di irrigidimento dei governi europei e di sfiducia dei mercati finanziari nei nostri confronti. La conferenza stampa del premier al termine del G20 ha lanciato infatti un messaggio chiaro: la responsabilità dei problemi e dei guai dell’Italia sarà, nei prossimi mesi e nella prossima o futura campagna elettorale, interamente imputata all’euro. Lasciamo in disparte (perché rientra nel genere del ridicolo) la contraddizione fra la gravità di questi guai e la descrizione del Paese di bengodi che ci è stata propinata e concentriamoci sui danni che anche in futuro ci verranno addosso da un governo che da un lato si è impegnato ad adottare una politica e una disciplina mirate a mantenere l’Italia nell’ambito della moneta unica e, dall’altro, tenterà continuamente di imputare alla stessa moneta unica le conseguenze dei propri ritardi e della propria inazione.

Di fronte a queste prospettive ci conviene prendere per buone le affermazioni di un Twitter che il Financial Times attribuisce al ministro Tremonti. Il ministro dell’Economia avrebbe dichiarato che domani i mercati si aggiusteranno e gli spread diminuiranno solo se Berlusconi si farà da parte. È assai probabile che Tremonti non abbia detto nulla di simile e che la battuta sia da attribuire alla consueta malignità dei giornali inglesi nei nostri confronti, ma ritengo comunque che il consiglio contenuto in questo messaggio sia degno di essere preso in considerazione. (Beh, buona giornata).

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La crisi secondo Romano Prodi: “Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate.”

di ROMANO PRODI-Il Messaggero
Avevamo a lungo sperato che sagge decisioni politiche potessero presto porre fine alla crisi finanziaria mondiale. Lo avevamo sperato perché il giovane presidente aveva dato l’impressione di essere in grado di ridare energia agli Stati Uniti e farne la locomotiva del mondo. Ci siamo sbagliati perché anche la locomotiva americana non ha più un conducente capace di indirizzarla nel giusto binario. I repubblicani e i democratici hanno infatti obiettivi divergenti e il compromesso raggiunto non aiuta né l’equilibrio del bilancio né la crescita economica.

Ancora peggio sono andate le cose a Bruxelles, dove la modesta crisi greca ha travolto gli equilibri europei perché nessuno si è dimostrato in grado di prendere le necessarie decisioni. Non la Commissione Europea, ormai emarginata, non la Germania paralizzata da un’inutile e suicida rincorsa al populismo da parte del suo governo. Avevamo finalmente tirato un sospiro di sollievo quando lo scorso 21 luglio i capi di governo europei si erano messi d’accordo per intervenire in soccorso dei Paesi più minacciati dalla crisi speculativa, ma ci siamo poi accorti che queste decisioni dovevano essere sottoposte a un complesso esame tecnico e quindi ratificate da tutti i governi nazionali.

I mercati finanziari hanno perciò reagito come se queste decisioni non fossero mai state prese. La speculazione ha allargato quindi i suoi orizzonti e ha travolto in pieno anche l’Italia. I valori della borsa sono crollati e i tassi di interesse dei Buoni del Tesoro sono schizzati verso il cielo, annullando in questo modo i possibili effetti delle pur insufficienti misure appena votate dal nostro parlamento in un eccezionale sforzo di solidarietà.

Il governo italiano ha fatto finta che nulla fosse successo e si è presentato di fronte al Parlamento pensando che le turbolenze sarebbero cessate senza la necessità di alcuna nuova decisione. La vendita dei Buoni del Tesoro italiani è invece aumentata di intensità fino a che il tasso di interesse dei Btp non ha raggiunto il livello dei titoli spagnoli. Sotto la pressione dei mercati e la sollecitazione dei governi europei si è dovuta perciò allestire un’improvvisa conferenza stampa.

Una conferenza stampa nella quale sono state presentate misure aggiuntive per scongiurare che la riapertura dei mercati mettesse di nuovo l’Italia in situazione drammatica. Un solo provvedimento appare utile per contenere lo scetticismo nei confronti della politica italiana e cioè l’anticipazione di un anno del raggiungimento dell’equilibrio di bilancio.

Il fatto che il nostro governo avesse rinviato al 2014 le misure più severe aveva infatti suscitato reazioni decisamente negative. Bene quindi per questa decisione anche se non ne vengono precisati gli strumenti per metterla in atto e il peso sembrerebbe gravare in prevalenza su misure di carattere sociale, e quindi sulle categorie più modeste.

Nessun contributo positivo al superamento della nostra tragica crisi può essere invece attribuito alle proposte di modifica della Costituzione, non solo perché questa modifica richiede in ogni caso tempi lunghissimi ma perché tali proposte sono inutili o sbagliate. È inutile inserire nella nostra Carta il principio che tutto quello che non è proibito è lecito perché questa regola già esiste. Ed è sbagliato inserire l’equilibrio di bilancio come obbligo costituzionale perché le Costituzioni sono fatte per durare a lungo e vi possono essere tempi (e spero che essi arrivino anche per l’Italia) nei quali non è pericoloso ma utile per lo sviluppo del paese avere un deficit di bilancio. Così come esistono momenti nei quali è opportuno avere un attivo nelle finanze pubbliche.

Mi auguro che le decisioni prese siano utili almeno per darci un temporaneo respiro alla ripresa dei mercati. Tuttavia per ricondurre i nostri tassi di interesse a un livello compatibile col nostro debito pubblico e risanare definitivamente le finanze italiane non possiamo sfuggire a misure più organiche e severe.

Non possiamo rinviare la lotta all’evasione fiscale, rendendo obbligatoria la registrazione elettronica dei pagamenti, non possiamo non ripensare agli equilibri fra imposte sul lavoro e sui consumi, non possiamo non ripensare alla reintroduzione modulata dell’imposta sugli immobili (ovunque nel mondo imposta federale per eccellenza) e a tutte le altre misure strutturali su cui si è lungamente discusso in passato ma che il populismo, l’interesse elettorale e la demagogia hanno impedito che fossero adottate, pur sapendo benissimo che esse erano necessarie per la salvezza del nostro Paese.(Beh, buona giornata)

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Il governo Berlusconi è in crisi. Qui non si tratta della crisi di un governo, questa è la crisi di una intera collettività: “Se poi vogliamo guardare “come stanno le cose” oggi, dobbiamo constatare che siamo caduti più degli altri durante la crisi del 2009 e stiamo ora crescendo decisamente meno della Germania, di Francia e della Gran Bretagna.”

di ROMANO PRODI-Il Messaggero.

Per decidere cosa fare bisogna prima di tutto sapere “come stanno le cose”. Quest’affermazione è scontata, ma sono costretto a ripeterla perché oggi non mi sembra applicata né nelle scelte mondiali né in quelle nazionali. A livello mondiale il G.20 di Seoul si è tutto svolto nell’illusione che la crisi sia ormai sotto controllo e che siano sufficienti misure minori per riprendere senza radicali riforme il tradizionale cammino. Lo stesso errore di base impedisce l’analisi e quindi la cura dei nostri problemi nazionali.

Ci fa infatti comodo , ed è oggettivamente consolatorio, sostenere che ci stiamo comportando in modo simile a tutti e che soffriamo della stessa malattia degli altri grandi paesi della vecchia Europa.

Le cose purtroppo non stanno così. Le cose stanno diversamente sia quando analizziamo l’andamento di lungo periodo della nostra economia sia quando ne osserviamo i comportamenti a breve. Riflettendo sul lungo periodo, è passata ad esempio sotto silenzio un importante tabella, elaborata da El Pais su dati del Fondo Monetario Internazionale. Una tabella che mette in fila le percentuali di crescita dei 180 paesi più importanti del mondo (e cioè in pratica di tutti i paesi) negli ultimi dieci anni. Io stesso sono stato sorpreso nel leggere che l’Italia è addirittura penultima, precedendo solo Haiti. Nell’intero primo decennio del secolo la nostra intera economia è cresciuta solo del 2,43% cioè quasi nulla. Sfiguriamo anche a confronto degli altri grandi paesi della pigra Europa perché la Gran Bretagna ha progredito del 15% , la Francia del 12% e la Germania del 9%. Si tratta di progressi modesti anche da parte dei nostri confratelli europei se li paragoniamo al 170% della Cina, al 103% dell’India o al 45% della Turchia, ma nettamente superiori a quelli italiani.

Se poi vogliamo guardare “come stanno le cose” oggi, dobbiamo constatare che siamo caduti più degli altri durante la crisi del 2009 e stiamo ora crescendo decisamente meno della Germania, di Francia e della Gran Bretagna. Continuando in questo modo ci occorreranno altri cinque anni per ritornare al livello di reddito che l’Italia aveva nel periodo precedente la crisi. Ed è chiaro che, se gli altri paesi continueranno a camminare più in fretta di noi, il nostro distacco non può che aumentare.

Ecco “come stanno le cose”. Ben poco potremo consolarci per il fatto che siamo ancora un paese relativamente ricco. Negli ultimi dieci anni siamo infatti passati dal 24esimo al 28esimo posto della scala mondiale del reddito pro-capite e tutti sappiamo bene che, continuando in questa lenta discesa, non solo dovremo abbassare il nostro tenore di vita ma ancora di più lo dovranno abbassare i nostri figli. Vivere in un periodo di decadenza, o almeno di aspettative decrescenti, è quanto di peggio possa capitare a una comunità nazionale. E noi lo dobbiamo evitare a ogni costo, discutendo con serenità e con atteggiamento costruttivo sui semplici dati che ho appena esposto e cercando soluzioni che, nella situazione in cui siamo, debbono essere condivise, o almeno comprese, da tutte le componenti della società italiana.

Credo, ad es. che Marchionne abbia sollevato un problema vero sul futuro del nostro paese. Credo che abbia fatto qualche errore tattico ma credo anche che le sue analisi sul settore dell’automobile debbano essere allargate ad altri settori della nostra società, per obbligarci a un sereno dibattito sul futuro dell’intera nostra economia e, forse, dell’intera nostra organizzazione civile. Il Paese si è invece spaccato e si è schierato secondo vecchi schemi, impedendo in questo modo quel dibattito così necessario per il nostro futuro. Un dibattito che deve mettere sotto esame tutti i comportamenti incompatibili con i cambiamenti che avvengono nelle altre parti del mondo.

E’ infatti l’intera nostra società che rifiuta i comportamenti che, ci piacciano o no, caratterizzano ormai tutte le società avanzate del pianeta. Non si può infatti correre alla velocità degli altri quando l’evasione fiscale copre almeno un quarto della nostra economia e non da segni di calare. E nemmeno quando la scuola e la ricerca hanno un ruolo sempre più marginale nella società e nelle strutture produttive: E potremo continuare con la lista delle ragioni che spingono ogni anni decine di migliaia dei nostri migliori giovani ad emigrare per trovare le occasioni di lavoro che non sono reperibili in Italia. L’elenco potrebbe davvero continuare ma quest’elenco non serve a nulla se non ci si accorge che il cammino della decadenza è già cominciato e che questa caduta sarà sempre più accelerata se ci dedicheremo ancora a elencare primati che non abbiamo più o a sperare che i pochi primati che ancora possediamo si estendano per magia a tutta la nostra economia o a tutta la nostra società. Un processo di rinascita collettiva nasce sempre da un’analisi impietosa della realtà. Per fare cose nuove ci si deve prima rendere conto di “come stanno le cose.” (Beh, buona giornata).

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Che sta succedendo all’economia europea/5.

La speculazione, l’Europa divisa e la speranza di Kohl, di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Per fortuna oggi si vota nel North-Rhine Westfalia (Cristianodemocratici al 34,3% e liberali al 6,5%: perdono il Nordreno-Westfalia, il land più popoloso, e non hanno più la maggioranza al Bundesrat, la Camera delle Regioni. Bene i socialdemocratici con il 34,5%, i Verdi (12,6%) e la sinistra radicale (6%), ndr). Dovrebbe essere una notizia trascurabile nel panorama della crisi finanziaria ma purtroppo, nella mancanza di regole europee comuni e condivise, le decisioni sono rimaste in mano agli stati nazionali e i governanti hanno agito tendendo conto non degli interessi di lungo periodo ma delle passioni popolari del momento . Si è verificato perciò lo scenario peggiore tra tutti quelli prevedibili, uno scenario in cui un problema di dimensioni quantitative modeste, come il deficit greco, ha prodotto le peggiori conseguenze possibili, sconvolgendo i mercati azionari ed obbligazionari di tutta Europa. Quando la politica non adempie al suo compito, la speculazione non può che approfittare del disorientamento generale e fare duramente il proprio gioco. Ed è questo che è avvenuto nella scorsa settimana, in cui l’attacco speculativo non solo ha provocato pesanti ribassi in borsa ma ha generato una catena di crisi di fiducia che ha reso più difficile e costoso il funzionamento dei crediti interbancari e ha infine messo a dura prova la solidità dei titoli di Stato di diversi paesi, con l’ovvia ultima conseguenza di attentare al cuore stesso dell’Euro.

La finanza (o forse meglio dire la speculazione finanziaria) ha travolto la politica perché essa ha per definizione interessi e obiettivi ben precisi mentre la politica europea non è stata in grado di preparare una forte strategia comune. Il prezzo di tutto ciò è elevatissimo: basti pensare che la metà del pacchetto di aiuti preparato qualche giorno fa sta ora andando in fumo per l’aumento dei tassi di interesse del debito pubblico greco, aumento dovuto proprio alla difficoltà, alla lentezza e alla scarsa convinzione con cui era stato preparato dagli “amici” europei.
Insomma la speculazione agisce quando sa di essere più forte della politica, più forte degli Stati. Oggi in Europa lo è.

Non solo perché è in grado di mobilitare enormi masse di denaro in un brevissimo periodo di tempo ( rapidità moltiplicata dagli automatismi con cui vengono dati gli ordini di acquisto o di vendita) ma anche perché tutto questo provoca ondate di panico nei possessori di titoli, allarmati da questi eventi improvvisi, imprevisti e della cui portata non sono in grado di rendersi conto. Nei giorni scorsi molti possessori di azioni sono corsi a vendere semplicemente per paura, così come sono corsi verso i Bund tedeschi altrettanti proprietari di obbligazioni pubbliche di diversi paesi.

Ad eventi così veloci si contrappone una situazione europea in cui nessuno ha il potere di agire con la necessaria rapidità e ogni decisione viene presa dopo che la speculazione ha raddoppiato la dimensione dell’intervento necessario. Questa è la ragione per cui l’attacco è stato mosso verso i paesi dell’Euro, anche se essi hanno in media un deficit molto molto inferiore a quello degli Stati Uniti o della Gran Bretagna ma hanno un potere politico frammentato, diviso e incapace di reagire agli eventi guardando in faccia alla realtà. Identica è la spiegazione sul contradditorio comportamento delle società di rating, che hanno promosso a pieni voti la banca Lemhan fino alla vigilia del fallimento e che ora gettano ombre di sospetto sull’Italia senza nulla dire riguardo all’enorme deficit di Gran Bretagna e Stati Uniti.

Intanto a Bruxelles si continua a discutere sui possibili interventi urgenti della Banca Centrale Europea e su come i mercati reagiranno domani di fronte alle misure prese. Se cioè sarà sufficiente un’iniezione aggiuntiva di liquidità alle banche perché acquistino titoli di Stato dei paesi sotto tiro o se si andrà verso la più complessa e ipotetica possibilità che sia la BCE stessa a comprare direttamente tali titoli. Vedremo domani se la decisione presa sarà in grado di calmare la furia dei mercati ma teniamoci ben in mente che, in ogni caso, si tratta di un rimedio di breve periodo. Il problema resta quello di creare degli strumenti di politica economica per tutta l’area dell’Euro che permettano di evitare i disastri come quello greco e che, se accadono, rendano possibile imporre nuovi comportamenti in modo rapido e autorevole.

Ritorniamo quindi al nostro problema di costruire una politica economica europea da affiancare alla politica monetaria, una politica abbastanza forte da imporre e fare rispettare le regole comuni. E’ proprio quello che i leader europei non hanno nel passato voluto e che gli eventi di questi giorni costringeranno invece a fare. A meno che non si voglia la distruzione dell’Euro, cosa che a nessuno giova a cominciare dalla Germania. Quando fra poche ore si chiuderanno le urne nel North-Rhine Westfalia si dovrà quindi ricominciare a parlare del nostro futuro, che esisterà solo se sarà un futuro comune. Per ora l’unica voce ottimista che ho potuto ascoltare in Germania è quella dell’ex cancelliere Helmut Kohl che, nel giorno del suo ottantesimo compleanno, mi ha rasserenato assicurandomi che la Germania è, nonostante tutto, pienamente consapevole del valore positivo ed indispensabile della solidarietà europea. Mi auguro proprio che abbia ragione.(Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Partito democratico: Romano Prodi giubila Luigi Bersani.

di Romano Prodi-ilmessaggero.it
I lettori mi perdoneranno se, di fronte all’ennesima discussione sulla riforma del Partito democratico, mi permetto di riprendere, con solo qualche aggiornamento, le proposte che, meno di un anno fa, ho fatto sulle colonne di questo stesso giornale. Il rumoroso dibattito post-elettorale sul ruolo dei partiti politici e sul loro rapporto con i cittadini mi riporta infatti indietro di qualche decennio quando, di fronte all’irreversibile crisi della Democrazia cristiana, proposi di costruire il partito su base strettamente regionale ma con un forte patto federativo nazionale. In poche parole si sarebbe dovuto dare vita al Partito popolare lombardo, emiliano, laziale o siciliano ma tutti questi partiti sarebbero stati obbligatoriamente federati alla Democrazia cristiana italiana. Non se ne fece nulla perché gli avvenimenti presero la mano prima ancora che il dibattito potesse essere nemmeno iniziato. E forse non sarebbe comunque iniziato.

Mi sembra oggi utile per il Partito democratico dare spazio a questo dibattito che si è finalmente riaperto. Il risultato delle elezioni è stato infatti inferiore alle attese e la comune interpretazione di questo risultato è che la struttura del partito stesso sia diventata fortemente autoreferenziale, con rapporti troppo deboli con il territorio e con i problemi quotidiani degli italiani, messi in secondo piano dai ristretti obiettivi dei dirigenti e delle correnti.

Per questo motivo sento che sia opportuno ritornare su quella vecchia idea. Gli iscritti al Partito democratico di ogni regione italiana dovrebbero cioè eleggere, naturalmente tramite le primarie, il proprio segretario regionale. L’esecutivo nazionale dovrebbe essere semplicemente formato dai venti segretari regionali, avendo il coraggio di cancellare gli organi nazionali che si sono dimostrati inefficaci. A questi venti “uomini forti” dovrebbe essere demandato il compito di eleggere il segretario nazionale, di decidere sulle grandi strategie politiche del partito e, naturalmente insieme agli organi regionali, le candidature per le rappresentanze parlamentari. La forza dei segretari regionali dovrebbe essere ponderata non in base agli iscritti ma in base ai voti riportati alle elezioni politiche, perché il raccolto di un partito non si basa sulle tessere ma sui voti.

Penso quindi a un esecutivo del partito formato esclusivamente dai segretari regionali, senza le infinite code di benemeriti e aventi diritto, compresi gli ex segretari del partito e gli ex presidenti del Consiglio. La politica del partito deve essere infatti esclusivamente decisa da coloro che, essendo scelti tramite elezione, rispondono direttamente alla base del partito.

È evidente che tutto questo corrisponde alla necessità di un serio federalismo nel quale Nord e Sud siano correttamente rappresentati e in cui si discuta in modo chiaro e definitivo la linea da seguire oggi in Parlamento e, domani, al governo.

Se si pensa in modo coerente ad un’Italia federale, questo federalismo deve infatti partire dai partiti che, nonostante la generale crisi in cui versano, sono anche oggi l’insostituibile fondamento di ogni sistema democratico.

Questa riflessione sul federalismo non vale naturalmente solo per il Partito democratico: ritengo infatti che nessuna grande decisione sul futuro del Paese possa essere presa senza che ad essa partecipino in modo determinante i rappresentanti di tutte le regioni italiane. Ritengo però che sia ancora più necessaria per il Partito democratico che, per completare le fusione delle radici storiche che lo compongono, ha più degli altri bisogno di rinnovare i modelli di reclutamento della sua classe dirigente e di costruire un luogo in cui le decisioni prese non possano più essere messe in discussione. Non si può infatti continuare con dibattiti senza fine nei quali si ritorna sempre al punto di partenza e ogni decisione viene sentita come provvisoria, per cui, ad esempio, dopo avere optato per il cancellierato si ritorna al presidenzialismo e dal presidenzialismo si finisce con la scelta di non cambiare nulla, senza che si capisca come e da chi tutto questo venga deciso. La trasparenza esige che ci sia una sede in cui si discuta in modo aperto e si decida la linea del partito senza che essa possa essere messa in discussione da interviste o dichiarazioni di leader o di notabili.

Certamente questo implica un cambiamento radicale della vita del partito e della formazione della sua classe dirigente e accentra sui venti segretari regionali poteri e responsabilità alle quali il Partito democratico non è familiare. Questo mi sembra tuttavia l’unica soluzione per fare funzionare un partito in modo trasparente ed efficiente in un momento in cui tutti dicono di volere il federalismo ma in cui nessuno lo vuole costruire in modo democratico e rispettoso delle esigenze di tutto il Paese.

Naturalmente tutto questo può funzionare solo se si impongono durissime regole di pulizia e di trasparenza nelle procedure di tesseramento. Tutto questo potrebbe sembrare una banalità ma, a oltre 60 anni dall’approvazione della Costituzione non si è ancora dato concreta realizzazione all’art. 49, che dice con estrema chiarezza che i cittadini hanno diritto di associarsi in partiti per concorrere “con metodo democratico” a determinare la politica nazionale. Cominci quindi il Partito democratico a volere l’attuazione di questo articolo, se non altro perché i suoi elettori sono più vigili di tutti gli altri quando si tratta di trasparenza e di democrazia. Questo non è un vizio ma una virtù.

Mi accorgo che queste osservazioni sono guidate dall’astrattezza di chi è ormai fuori dalla politica. Esse mi sembrano tuttavia utili per spingere all’approfondimento di un indispensabile dibattito. (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Pd, ultima fermata. Parola di Romano Prodi.

di Romano Prodi-Il Messaggero
Due sono le lezioni che arrivano ai partiti di centrosinistra dalle recenti elezioni: una lezione per l’Europa ed una per l’Italia. Riguardo all’Europa la batosta complessiva dei socialisti è stata troppo ampia e diffusa per non obbligare a ripensare al semplice interrogativo se essi siano in grado di fare avanzare da soli il complesso compito del riformismo europeo.

I dubbi nascono anche dal fatto che questa diffusa disfatta avviene in un momento di grave crisi economica con profondi disagi concentrati soprattutto nelle categorie tradizionalmente rappresentate dagli stessi partiti socialisti, a partire dai lavoratori di più basso livello e dai precari.

Qualche anno fa l’idea di pensare ad una nuova alleanza fra i progressisti (chiamata forse troppo pomposamente ulivo mondiale) era stata scartata come una proposta fuori dalla storia. Ho paura che quest’idea nella storia ci debba ritornare, almeno per aiutare a rielaborare le proposte che i diversi partiti socialisti hanno presentato ai loro elettori. E ci debba ritornare con una forte e coraggiosa politica europea. Abbiamo infatti assistito ad elezioni europee nelle quali le tesi degli euroscettici erano chiarissime, mentre le voci dei filo-europei erano flebili e non si concretizzavano in proposte precise.

La lezione per il centrosinistra italiano è altrettanto chiara, anche se maggiormente scontata in quanto i danni della frammentazione si erano già resi evidenti nelle precedenti contese elettorali.

Per il Partito Democratico in particolare il risultato, soprattutto mettendolo a confronto con le cattive previsioni e con il relativo flop del Pdl,è stato abbastanza buono da garantire la durata del partito stesso. Ma è stato abbastanza cattivo per obbligare a quel grande dibattito ideologico e programmatico di cui un nuovo partito ha assolutamente bisogno. E che è finora mancato. Insomma la lezione europea e la lezione italiana si intrecciano fra di loro e rendono necessario un rinnovamento radicale. /Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia Popoli e politiche

Ai partiti italiani impegnati nella campagna elettorale dell’Europa gli importa un fico.

L’Europa e i nostri figli: stando da soli si esce dalla storia/ di Romano Prodi-ilmessaggero.it
Potremmo ancora continuare nell’elencare i punti di forza di questo grande protagonista del nuovo mondo globalizzato.

Eppure dobbiamo fermarci perché, in questo mondo, l’Europa non è attore ma, nonostante le cifre della sua economia, un semplice spettatore.

Le grandi decisioni internazionali ci vedono assenti o irrilevanti, anche quando si tratta di problemi che sono a noi vicini per geografia o per interessi, come è stato il caso del Kossovo. Per questo motivo, dopo infiniti dibattiti, è iniziato negli scorsi anni un processo di riforma delle istituzioni europee fondato sulla premessa fondamentale ed inconfutabile che l’Europa non può ottenere risultati ambiziosi se non passando attraverso riforme altrettanto ambiziose. Il processo è partito, ha dato vita ad una Costituzione, bocciata però dal referendum francese, e quindi al trattato di Lisbona, ora fermo a metà strada per il no dell’Irlanda.

Eppure il trattato di Lisbona contiene alcune ovvie indispensabili proposte innovative, come la fine di una ridicola rotazione semestale della presidenza dell’Unione, un inizio di coordinamento della politica estera, un presidente della Commissione eletto dal Parlamento e una pur minima riduzione delle decisioni da prendere all’unanimità.

Si tratta di passi in avanti concreti ma ancora insufficienti per giocare un ruolo da protagonista perché in tutti i numerosi campi in cui è prevista l’unanimità, la paralisi europea è destinata a durare. Eppure il voto irlandese ci impedisce di compiere anche questi piccoli passi in avanti.

Sarebbe tuttavia ingiusto addossare le colpe solo all’Irlanda: lo spirito europeo si è ovunque affievolito e perfino i tre grandi protagonisti della prima Europa, cioè Germania, Francia e Italia pensano più ai loro problemi interni che non ai grandi risultati che potrebbero ottenere lavorando insieme.

Naturalmente non si tratta solo di mettersi d’accordo sulle nuove regole di decisione, ma di convenire su alcune priorità senza le quali l’Europa non può funzionare, come la dotazione di risorse adeguate per affrontare le sfide comuni quali la sufficienza energetica, i cambiamenti climatici e le disparità fra Paesi e Continenti. Per vincere queste sfide la dimensione nazionale è del tutto inadeguata. Per rendersi conto di tutto questo non occorre essere raffinati politologi o economisti: basta dare un’occhiata ad un mappamondo. Eppure stiamo andando a votare senza che si sia ancora aperto un minimo di dibattito sul ruolo che vogliamo dare all’Europa nel mondo.

La preparazione elettorale è esclusivamente dedicata alla politica nazionale e all’influenza che i risultati delle urne avranno sui futuri equilibri politici interni. Continuiamo correttamente a ripetere che senza una politica continentale usciremo solo per ultimi dalla crisi economica ma, nello stesso tempo, non vogliamo dare alle istituzioni comunitarie la forza per prendere le necessarie decisioni.

Ogni giorno assistiamo a gridi di allarme per lo strapotere europeo e non vogliamo ammettere che il costo di tutte le politiche dell’Unione (compresa la politica agricola, gli aiuti alle regioni più povere e il costo della burocrazia) è inferiore all’uno per cento del Prodotto Lordo Europeo.

Invece di ragionare sui fatti e di discutere quanto e come si deve spendere e si deve decidere a livello europeo, si preferisce usare Bruxelles come caprio espiatorio per tutte le cose che non vanno nel nostro Paese. Queste contraddizioni non sono certo solo italiane: esse sono comuni a quasi tutti i Paesi europei. Questi Paesi, tuttavia hanno almeno l’astuzia di inviare al parlamento di Strasburgo persone che, per esperienza, padronanza linguistica e conoscenze specifiche, difendono con continuità ed efficacia i propri interessi. Un primo sguardo alle liste dei candidati ci dice invece che i nostri partiti si sono solo marginalmente posto questo problema.

Per cui, se l’elettore non sarà abilissimo nelle sue scelte, non saremo nemmeno in grado di difendere i nostri elementari interessi nazionali.

Abbiamo ancora quattro settimane di tempo per prepararci a scrivere la nostra preferenza nel modo che riterremo più adatto a raggiungere i nostri obiettivi. Mi permetto tuttavia di consigliare agli elettori, prima di recarsi in cabina, di dare ancora un’occhiata al mappamondo per vedere quanto siamo piccoli noi e quanto sono grandi gli altri. Un altro esercizio utile, che noiosamente ripeto in ogni occasione in cui parlo dell’Europa, è quello di ripensare per un attimo alla storia dell’Italia. Ai tempi del Rinascimento (cioè al tempo della prima globalizzazione) gli Stati italiani primeggiavano in ogni campo, dall’arte della guerra, alle scienze, dalla tecnologia all’architettura, dalla filosofia alla finanza. Non abbiamo avuto la capacità politica di metterci assieme e l’Italia è per sempre scomparsa dai grandi protagonisti della storia mondiale. Oggi per i singoli Paesi europei (Francia, Germania e Gran Bretagna compresi) la situazione è del tutto identica. Rimanendo soli si esce dalla storia. Prima di andare a votare è quindi bene pensare anche a quello che succederà ai nostri figli. (Beh, buona giornata).

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