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Degli Europei se parla troppo, de “Il mundial dimenticato” troppo poco.

Le possibilità negate della Storia e come il cinema le restituisce,
di RICCARDO TAVANI

Partiamo da un termine tecnico del glossario cinematografico: “mockumentary”. Cosa significa e cos’è un mockumentary? È la fusione di un verbo e di un sostantivo entrambi della lingua inglese: “to mock”, fare il verso, e “documentary”, documentario. In termini pratici, un film che sembra un documentario, perché ne “rifà il verso”, ne riprende il registro tecnico e stilistico, ricostruendo una vicenda verosimilmente reale, ma che in verità è una pura finzione cinematografica.

Il mockumentary si è affermato come un vero e proprio genere del cinema e della televisione, fin dal suo primo riuscito colpaccio nel 1965, quando con “The War Game”, Peter Watkins, simulando un più che realistico attacco atomico all’Inghilterra, si aggiudicò l’Oscar come migliore documentario. Famoso e più recente il tiro messo a segno anche da “The Blair Witch Project”, con cui un gruppo di ragazzi sbancarono i botteghini di mezzo mondo, simulando una situazione horror da loro direttamente vissuta e ripresa con videocamera in un bosco di notte.

Premessa necessaria, questa, per parlare di un altro geniale mockumentary di due scapestrati registi italiani, coprodotto dalla Rai e presentato a Venezia nel 2011. Si tratta de “Il mundial dimenticato”, dei toscanacci Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, in cui si ricostruiscono con il respiro e il puntiglio professionale di una appassionante inchiesta giornalistica le vicende di un Campionato Mondiale di Calcio disputato nel 1942 in Patagonia, Argentina, mentre l’Europa è già avvolta dalla follia della Seconda Guerra Mondiale.

Il racconto si mostra più avvincente hilary duff pokies di qualsiasi pellicola esplicitamente di finzione narrativa. Perché? Perché quello che viene messa in scena, nelle sembianze della realtà storica, è proprio una possibilità realistica della storia, non solo passata ma anche presente e futura. Che questa grande passione planetaria che è il gioco attorno a una sfera di cuoio possa essere usata contro il razzismo, la violenza, la follia guerrafondaia delle grandi potenze politiche ed economiche è qualcosa che può e, anzi, dovrebbe avvenire.

Appare così estremamente realistico che il film ci mostri un conte trasmigrato in Argentina da quella terra martoriata per secoli da guerre di ogni tipo che sono i Balcani, il quale concepisca e realizzi questo progetto visionario di una Coppa Rimet contro la voragine bellica e razzistica in cui l’Europa sta precipitando.

La situazione “precipizio” è una “possibilità” sempre incombente nella storia, e così anche la “possibilità” di un antidoto a esso deve essere realisticamente contemplata, come possibilità e atto concreto di salvezza messianica, secondo quanto scriveva il filosofo ebreo tedesco Walter Benjamin, prima di suicidarsi per sfuggire alla cattura dei nazisti.

L’amore per il calcio è in questo film una coniugazione particolare dell’amore in sé, della sua forza naturale che si oppone e tenta di arginare quella del male. Così alla vicenda calcistica si intreccia una straordinaria narrazione d’amore umano che è anche una storia d’amore per il cinema e per il suo compito artistico di dare visibilità e voce proprio a ciò a cui la Storia ha finora protervamente negato “possibilità”.

Locandina de “Il Mondial Dimenticato”.
(Beh, buna giornata).

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3DNews/Il direttore del TGUno? Facciamo un concorso pubblico.

di Giulio Gargia *

Chi sarà il prossimo direttore del TG1? Move On lancia un’idea : candidare un giornalista straniero che conosca bene l’Italia. Unica garanzia di un prodotto giornalistico quanto più lontano possibile dalle logiche attuali di fattura dei TG. Il nome ? Wolfgang Achtner, da molti anni in Italia come corrispondente di numerose testate fra cui ABC News, Cnn e Press tv, autore di testi sul giornalismo televisivo, titolare di corsi universitari e di corsi di formazione per videogiornalisti e sulla comunicazione televisiva per il Gruppo Espresso.

Achtner ha scritto una lettera a Garimberti in cui chiede di decidere il direttore del TG1 con un bando pubblico per titoli. E presenta i suoi, candidandosi. La missiva è stata resa pubblica l’11 gennaio, con una conferenza nella sede della Stampa Estera a Roma . Dice il giornalista a Garimberti : “ Ho le carte in regola perchè sono indipendente politicamente, ho una carriera prestigiosa con esperienze nei più grandi network mondiali, come ABC, CNN e Press Tv e una notevole esperienza nel campo della formazione.

Nel momento in cui un nuovo governo è al lavoro per salvare il Paese – afferma Achtner – sono convinto che un buon esito dipenda da una consapevole partecipazione dei cittadini italiani e questo richiede una buona informazione, in particolar modo televisiva, che attualmente non c`è.

In base alla mia consolidata esperienza internazionale in campo televisivo, posso assicurare che, salvo rarissime eccezioni, quello che passa per informazione televisiva in Italia è pura propaganda politica. La funzione dei TG è soprattutto quella di portare nelle case le facce dei politici a ora di cena. Per non parlare del fatto che i servizi dei TG sono ancora una specie di “radio illustrata” , poco attenti allo specifico del linguaggio televisivo che si è così evoluto. Ecco, queste cose mi piacerebbe poterle applicare- continua Achtner – le prime cose che farei? Abolizione del pastone politico, niente editoriali, reintegrare gli emarginati da Minzolini, più servizi sugli esteri e meno sfilate di cani”

Poi Marco Quaranta, di Move On, ricorda il motivo dell’iniziativa : che il servizio pubblico deve operare in condizioni di indipendenza editoriale mentre ci siamo abituati all’idea che la RAI sia lottizzata. Mentre questo è il momento di tornare ai principi che muovono qualsiasi etica dell’informazione, soprattutto perchè bisogna ricordare che c’è un legame indissolubile tra democrazia e buona informazione. E tuttora oltre il 60% degli italiani hanno i TG come unica fonte d’informazione, su cui fondano le loro scelte di tutti i giorni . Compresa quella del voto. Perciò, spiega anche Gianfranco Mascia, questa è solo la prima candidatura, si tratta di riaffermare un principio, il direttore lo fa chi ha più titoli per farlo. Quindi, lanceremo altre candidature, già il 23 gennaio prossimo. E c’impegniamo a rilanciare anche il problema complessivo della governance della RAI, di come viene eletto il CdA. Su quello ripartiremo dalla proposta di Tana de Zulueta elaborata insieme a tante associazioni, che è pronta ed è stata depositata in Parlamento di nuovo già in questa legislatura da Beppe Giulietti.

Alla fine spunta anche un’ ultima idea: fare quanto prima un confronto tra un TG Uno e un nostro TG . Con Achtner mettere sul sito una “ versione alternativa” delle notizie di quel giorno. Per far vedere la differenza che un TG1 Rai rinato potrebbe marcare. Per diventare un punto di attrazione per i migliori, quelli che oggi vengono esclusi per fare posto a persone scelte sulle base della loro affiliazione politica invece che delle loro capacità. (Beh, buona giornata).

* direttore di 3D, inserto settimanale del quotidiano TERRA

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3DNews/Auditel, un metro inattendibile che affossa la qualità.

La delibera dell’Antitrust riaccende il dibattito sulle rilevazioni degli ascolti

“Per loro ci dividiamo in aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, provinciali frivoli “

di Roberta Gisotti

Meglio tardi che mai arriva la sentenza dell’Autorità antitrust, su ricorso di Sky.
Con orgoglio ricordiamo che la verità sull’Auditel era già scritta nero su bianco nel libro “La favola dell’Auditel” (edizioni 2002 e 2005) e nel libro di Giulio Gargia “L’arbitro è il venduto” (2003), oltre che nella vasta letteratura sul tema oggi facilmente reperibile in Rete.
Una sentenza che non deve però farci abbassare la guardia se già nel 2005 la Magistratura di Milano – su ricorso di Sitcom, consorzio di quattro emittenti satellitari (Alice, Leonardo, Marco Polo, Nuvolari)- aveva condannato l’Auditel per “abuso di posizione dominante” e “turbativa di mercato”. Ma poi l’Auditel ricorse in Cassazione che annullò la sentenza, come ora annuncia di voler ricorrere al Tar contro l’Antitrust Non è quindi detta l’ultima parola. Del resto a fine 2005 l’Autorità garante per le comunicazioni aveva dato ad intendere di voler e poter riformare l’intero sistema di rilevamento degli ascolti televisivi. Ma non è stato così. Il nodo economico – trasversale agli orientamenti politici – che sottostà al patto dell’Auditel si rivelò più saldo di quanto immaginato. Del resto i controllati sono anche i controllori – come denuncia l’Autorità antitrust – in questa società privata, che pure svolge un ruolo pubblico, se il dato Auditel assume la valenza di consenso perfino politico.

Da 25 anni i rilevamenti Auditel sono funzionali ad un sistema televisivo che si continua a volere immutabile nei tempi, imprigionato nel duopolio (Rai-Mediaset), dove il polo pubblico è stato del tutto assoggettato al polo privato gestito da un unico soggetto, che arrivato al Governo del Paese ha comandato su ambedue i poli. Duopolio insidiato dal 2003 dalla Tv satellitare Sky di Rupert Murdoch, altro potentissimo e discutibilissimo monopolista, che da sempre ‘scalpita’ per qualche punto in più di share, che negli anni a fatica gli è stato concesso ma non abbastanza. Duopolio disperso oggi in uno scenario digitale del tutto trasformato che i dati d’ascolto continuano a registrare come se nulla o quasi fosse accaduto.

Da 7 canali nazionali analogici siamo passati a 37 digitali terrestri e se comprendiamo anche tutti i satellitari ci sono ben 250 canali. Eppure l’Auditel in questi tre anni di sisma televisivo non ha fatto una piega!
L’Auditel è sempre stato un sistema del tutto inaffidabile sul piano tecnico riguardo il campione, le modalità del rilevamento, l’affidamento a comportamenti a umani. Un sistema del tutto distorsivo nel modo di elaborare il dato grezzo – sconosciuto a tutti -minuto per minuto o anche 15 secondi se non si resta sintonizzati almeno 60 secondi, per cui basta restare pochi attimi davanti allo schermo per essere compresi nel pubblico di un programma che non ricordiamo di aver visto, o contribuire ad un picco d’ascolto – quanto spesso un picco di disgusto – che va a premiare proprio il peggio del peggio che non vorremmo aver visto in Tv.

Un sistema del tutto fuorviante per l’uso che se ne fa nelle redazioni televisive, sempre più anche dei Telegiornali, dove le scalette si fanno con i grafici dell’Auditel per compiacere una maggioranza di pubblico che in realtà non esiste, è virtuale, composta nei laboratori della Nielsen-Tv a Milano, ad uso e consumo di chi ci vuole tutti spettatori imboniti piuttosto che cittadini responsabili. Basti citare le categorie nei quali viene compresa nei rapporti dell’Auditel l’intera popolazione italiana: aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, eclettici esigenti, provinciali frivoli, protettivi interessati, poi c’è il gruppo dei minori di 14 anni e quello dei non classificati, dove spero esserci anch’io. Sono semplificazioni di marketing che non vorremmo – come invece accade ogni giorno – finissero sui tavoli di chi decide i contenuti della Tv pubblica ma anche privata in base a queste idiozie per condizionare i nostri stili di vita e tendenze al consumo.
Basta con la dittatura dell’Auditel che ha mercificato gli uomini e soprattutto le donne di questo Paese.

Chiediamo pluralismo e trasparenza nella gestione del rilevamento e nella gestione dei dati di ascolto, che siano non solo quantitativi ma anche qualitativi per esprimere il gradimento ed anche le attese del pubblico. (Beh, buona giornata),

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3DNews/Santoro e la menopausa dell’Auditel.

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di Giulio Gargia
4 volte su 4. Se è una coincidenza, allora si tratta davvero di sfortuna nera. Per 4 settimane, tutte quelle di novembre, l’Auditel ha fornito in ritardo i dati del giovedì . Giorno in cui, dal l 4 novembre, va in onda il nuovo programma di Michele Santoro, con una formula che evidentemente mette a dura prova le capacità del servizio di rilevazione degli ascolti. Che a furia di ritardi del ciclo – di rilevazione – rischia di andare in menopausa.

“Anche oggi i dati dell`Auditel arriveranno in ritardo, formalmente a causa di `un problema tecnico`. Si tratta di un fatto allarmante, guarda caso ancora una volta in coincidenza con una puntata di Servizio Pubblico, il programma di Michele Santoro”. Così dichiarava giovedì scorso Flavia Perina, deputata Fli e membro della Vigilanza.

“A questo punto è innegabile ritenere l`Auditel un sistema obsoleto di rilevazione dei dati d`ascolto, che non tiene conto delle nuove modalità di fruizione dei prodotti televisivi. E diventa anche lecito pensare che forse una parte dei soci di maggioranza del consorzio, Rai e Mediaset in particolare, temono l`effetto Santoro”, concludeva la Perina. Che risolleva così uno dei problemi basilari della Tv : ma l’Auditel è attendibile ? Ora, senza entrare nel merito dei problemi che – secondo chi scrive e tanti altri – NON rendono tali i suoi dati, vogliamo ricordare che ogni volta che si presenta un nuovo network sulla scena TV, i suoi rapporti con l’istituto di via Larga non sono mai tranquilli. E’ successo con La7 ai tempi del mancato lancio del “terzo polo”, quando furono disdetti contratti già firmati con star come Fazio e Litizzetto, e alla rete fu imposta la consegna – accettata dai suoi vertici – di non superare il 3% nel giorno medio. E’ successo con Sky, quando ha chiesto di entrare nel comitato tecnico, tanto che ci sono stati comunicati di fuoco tra Mokridge, ad di Sky Italia e Pancini, direttore Auditel. E sta succedendo adesso con Servizio Pubblico e il network di Tv che lo manda in onda che si propone, almeno il giovedì sera, come un attore capace di rompere i sempre delicati equilibri su cui si spartisce la pubblicità. Perchè il problema è sempre quello : chi controlla gli spot, controlla la Tv . E dall’86 a oggi gli investimenti pubblicitari si sono ridistribuiti a favore della tv, grazie anche ai numeri che ha prodotto l’Auditel, che hanno orientato ingenti risorse a spostarsi da stampa e radio a favore della tv, e in particolare verso il costituendo duopolio RAI – Mediaset. Ma le modalità di produzione e divulgazione di questi dati hanno generato dubbi sempre più consistenti, corroborati da inchieste e libri che ne hanno minato l’attendibilità.

Il caso Santoro è solo l’ultimo , e nemmeno il più eclatante. Ma potrebbe essere quello che finalmente mette in crisi l’Auditel non tanto come apparato tecnologico obsoleto, come dice la Perina, ma in quanto macchina di costruzione e conferma del consenso attraverso la “ visione obbligata”. Come il PIL , che tutti gli economisti stanno rimettendo in discussione come parametro di misura del benessere di una società, così l’Auditel è destinato a implodere dentro una TV sempre più parcellizzata e specifica come quella digitale. E il fatto che le Tv locali siano sottostimate storicamente è un ulteriore conferma di come questa approssimazione chiamata Auditel sia ormai un residuo del passato da superare al più presto. Il problema non è la tecnologia: basterebbe collegare un cavetto telefonico a ogni decoder digitale per avere i dati degli ascolti in tempo reale, come sui siti Internet, in cui sai sempre quanti visitatori ci sono in quel momento. Il problema è l’apparato commerciale e industriale (grandi emittenti, centri media, agenzie dominanti ) di cui Auditel è il servomeccanismo, che non riuscirebbe a “ digerire” dei “ numeri” veri . E che dovrebbe dire ai suoi clienti investitori cose molto diverse da quelle finora avallate dalle curve e dai grafici d’ascolto.

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3DNews/La finanza Auditel, quel PirL che insegue il PIL.

I dati Auditel sulle pagine del Televideo Rai.

di Giulio Gargia
L’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società. Sono termometri di una mentalità da cambiare, indicatori di una marcia da invertire. Esempio: “Gli uragani Katrina e Rita avranno ripercussioni negative sull’economia americana solo nel breve periodo, il successivo processo di ricostruzione stimolera’ infatti la crescita”.
Così diceva il segretario al Tesoro Usa, John Snow, presente al vertice del Fondo Monetario Internazionale di Washington. Insomma, benvenuta Katrina, se l’economia poi cresce che sarà mai qualche morto annegato e qualche saccheggio ?
Questa è la logica demenziale di quello che si chiama pensiero unico. Ed è questa logica che l’Auditel ha portato in televisione.

Perciò oggi l’Auditel sta all’idea di Tv come il PIL sta all’idea di società . Provo a spiegarlo, usando un bell’articolo di Giorgio Ruffolo di qualche tempo fa sul PIL, l’indice che misura lo sviluppo economico di un paese. Scrive Ruffolo :
“Il governo italiano, ma tutti i governi del mondo sono incollati allo schermo del Pil. Zero virgola in meno, iattura, zero virgola in più, vittoria. Elettorale, s´intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Pil, è una cosa seria? Domanda per niente affatto nuova, come ben sappiamo, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dagli economisti che l´hanno inventato e dai politici che ne usano e ne abusano”.

La cosa curiosa è che tutte le sue giuste argomentazioni si possono trasporre, senza colpo ferire, alla questione dell’Auditel, su cui da anni – grazie anche agli sforzi di Megachip – ormai si discute. Sostituiamo qualche parola e vediamo se è davvero così.
Per inquadrare la questione, riportiamo un’agenzia sugli ascolti di domenica 2 ottobre.
Prime time festivo alla Rai con il 42,83% rispetto al 36.39% di Mediaset, con Raiuno al 26,31%. Mediaset invece si è aggiudicata la seconda serata con il 39.87% (38,19% Rai). In seconda serata lo speciale Tg1 con una puntata sul fenomeno del bracconaggio ha ottenuto uno share del 16,84% e 2 milioni 190 mila spettatori superando il diretto concorrente ‘Terra su Canale 5 che ha avuto 1 milione 508 su Canale 5, share 10.60% occupandosi di Islam. Su Raitre il programma di Serena Dandini ‘Parla con mé ha registrato l’11,13% con 777 mila spettatori.

E‘ evidente che anche qui “Il governo della TV italiana è incollato ai grafici dell’Auditel. Zero virgola in meno, sconfitta, zero virgola in più, vittoria. Televisiva, s’intende. E allora, si impone la domanda: ma questo Auditel, è una cosa seria? Domanda per molti versi nuova, come ben sappiamo sollevata da noi e da articolo 21, e tuttavia scansata, elusa, rimossa: dai pubblicitari che l´hanno inventato e dai direttori e responsabili TV che ne usano e ne abusano”.
Continuiamo. Afferma Ruffolo sul PIL : “La risposta è sì, certo, è cosa seria, ma solo se utilizzato correttamente, nell´ambito del suo significato: e cioè, come indice della produzione complessiva dei beni e dei servizi venduti sul mercato. Dei beni e dei mali, purtroppo. Se invece è usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice di efficienza dell´economia nazionale nel suo insieme o, addirittura, del benessere sociale, la risposta è tre volte no”.

Contro canto sull’Auditel : ” La risposta è molto dubbia. Ma i dubbi diventano certezze, in negativo, perché certamente l’Auditel non viene utilizzato correttamente, nell’ambito del suo significato ( cioè quello di misurazione per mettere un prezzo agli spot pubblicitari ) ma è ormai indice di gradimento e di giudizio sulla sopravvivenza di un programma. Viene quindi usato fuori del suo contesto, per esempio, come indice unico di efficienza di un programma e di una rete e, addirittura, del gradimento sociale verso la TV nel suo insieme. Perciò la risposta alla domanda se Auditel è una cosa seria è: tre volte no”.
Ruffolo continua : “Chi sarebbe disposto a sostenere che un paese in cui sono aumentate le devastazioni ambientali la criminalità e le diseguaglianze, diminuita l´istruzione e peggiorate le condizioni sanitarie, stia alla pari con uno in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché il Pil sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino.

Contro canto Auditel : Chi sarebbe disposto a sostenere che una Tv in cui sono aumentate le sopraffazioni,le manipolazioni, in cui è messa la bando la cultura, ( al massimo relegata in 3° serata) quasi azzerata la qualità complessiva dei programmi e peggiorate le condizioni del pluralismo, stia alla pari con un canale in cui tutti questi aspetti sono migliorati, purché l’Auditel sia aumentato in tutti e due? Sottoposto al giudizio della Suprema Corte del Buonsenso un tipo così sarebbe solennemente dichiarato un cretino
Riprende Ruffolo : “Diceva l´economista Oskar Morgenstern, autore, insieme a von Neuman, della Teoria dei giochi: «Quando la scienza economica raggiungerà uno stato più maturo, sembrerà incredibile che tali misure siano state prese sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera nazione: misure di questo tipo appartengono ai secoli bui».

E allora, perché sono prese sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo del capitalismo; e il capitalismo è diventato la forma sociale e ideale suprema delle società «avanzate».
Diciamo noi : “Quando l’opinione pubblica sarà davvero messa in grado di giudicare, quando le saranno stati forniti strumenti meno rozzi e più flessibili dell’Auditel, sembrerà incredibile che tali dati siano state presi sul serio, formando la base per decisioni che influenzano l´intera televisione: misure di questo tipo appartengono a tempi bui. E allora, perché li dati Auditel sono presi sul serio? La risposta è: perché l´espansione continua della produzione vendibile è la condizione essenziale per un aumento continuo del profitto; quest´ultimo è il fine supremo della Tv dominata dall’Auditel”
Argomenta ancora Ruffolo : La sinistra porta il lutto della catastrofe comunista. Un lutto che si estende anche a quella non comunista e che comporta la sostanziale rinuncia a ogni forma di guida politica e l´adesione sostanziale a una economia di mercato totalitaria: un´adesione troppo a lungo ritardata, e forse per questo acritica.

Di questa acriticità fa parte l´adozione del Pil come stella polare: al posto della rivoluzione, e va benissimo; ma anche di qualunque progetto di società che tenga conto dei bisogni e dei valori che il mercato ignora o offende: e va malissimo.
In questo contesto di resa culturale incondizionata al pensiero unico si colloca il pirlismo della sinistra: la riduzione della sua strategia alla deriva della crescita continua e indifferenziata (di tutto, di più) orientata da una «misura priva di teoria», come diceva l´economista Koopmans.

Coloro che si permettono di ricordare che l´insignificanza del Pil non è un problema di tecnica statistica, ma è una grande ed essenziale questione culturale e politica, sono considerati frivoli disturbatori di una politica severamente e altrimenti impegnata: per esempio, nel grande dibattito sul Partito Democratico .
Ma che cosa pretendono questi disturbatori?

Diciamo noi : E la Sinistra, che dice su Auditel? Cosa dice Petruccioli, che ha celebrato la vittoria della RAI su Mediaset affidandosi ai dati Auditel ? Ma in questo almeno bisogna capirlo. Quali altri strumenti ha ? Perciò ci tratta da disturbatori.
Chiosa Ruffolo : Risponderei che pretendono di ricordarsi dell´insegnamento teorico e delle proposte pratiche di economisti “eretici”, come l´americano di origine romena Georgescu Roegen, l´americano di origine indiana Amartya Sen; i nostri Giorgio Fuà e Giacomo Becattini, nel senso:

(a) di una riforma del Pil che lo depuri dalle bestialità più clamorose per farne un indice realmente rappresentativo dell´attività economica;
(b) di costruire indici del benessere in grado di rappresentare sinteticamente la qualità sociale del paese nei suoi aspetti più critici: lavoro, ambiente, sanità, istruzione, sicurezza;
(c) di definire infine, al massimo livello della responsabilità democratica, un traguardo progettuale collocato nel tempo, che integri in un «indice normativo» equilibrato gli obiettivi economici e sociali adottati come scelte da proporre al Paese.
Rispondiamo noi: eppure le cose da fare sono semplici.
a ) Bisogna applicare la legge 249 e far sì che sia l’Autorità delle Telecomunicazioni in prima persona a fare i rilevamenti degli ascolti.
b) L’Auditel deve consegnare i dati grezzi ( cioè non trattati dai suoi software ) ad esperti indipendenti per consentire elaborazioni alternative.
c ) Bisogna che l’Autorithy avvi ricerche qualitative che integrino e correggano il dato Auditel nell’opinione pubblica. E devono essere diffusi in contemporanea.

In sostanza, chi dice quanti spettatori hanno visto Fede, ci deve anche dire a quanti è piaciuto e a quanti no, di modo che il numero non diventi automaticamente indice di qualità.d ) Dev’essere reso pubblico l’IQS RAI, ovvero la ricerca sul gradimento dei programmi del servizio pubblico. Ricerca resa pubblica una sola volta, nell’ottobre dello scorso anno, che ha dato risultati “eversivi” per gli attuali vertici RAI e che da allora è stata nuovamente segretata. Nonostante la sua pubblicazione sia prevista , ogni trimestre, dall’accordo tra Stato e RAI.

E chiudiamo, sottoscrivendo la conclusione di Ruffolo sul Pil che vale anche per l’Auditel: Cari compagni: non è questo un modo intelligente e pratico per uscire da un´afasia culturale e politica mal dissimulata dalle chiacchiere sul riformismo; di mettere i numeri al posto dei simboli; gli impegni al posto dei discorsi; insomma, di riacquistare, credibilmente, una bussola perduta ?
E di seguito diciamo noi : non è il caso di ricostruirsela da soli, una bussola, che segni i nostri punti cardinali, senza inseguire quella degli altri ?

Giulio Gargia è l’autore del libro ” L’arbitro è il venduto” , sulle storture delle rilevazioni degli ascolti.

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Il caso “Vieni via con me”: Che Paese meraviglioso è il nostro. Un unico, grande, materno ventre mollo partorisce il tutto e il contrario di tutto, a comando, col telecomando.

Il primo novembre di quest’anno è morto a New York a 82 anni Theodore Sorensen, autore dei più famosi discorsi pronunciati da John Kennedy negli anni alla Casa Bianca. Sorensen è stato il gost-write per eccellenza. Sua una delle più celebri frasi di JFK: “Non chiederti cosa possono fare gli Stati Uniti per te, ma cosa tu puoi fare per gli Stati Uniti”.

Anche dopo aver smesso di lavorare, Sorensen continuò a collaborare con Nelson Mandela e, più recentemente, contribuì alla campagna presidenziale di Barack Obama.

C’è da credere che Sorensen sarebbe inorridito al solo pensiero di scrivere anche una sola parola per Gianfranco Fini. E, probabilmente, sarebbe scoppiato a ridere se qualcuno gli avesse chiesto di scrivere un paio di brillanti battute per Pierluigi Bersani. Infatti, a Gianfranco e a Perluigi ci ha pensato qualcun altro. Non ci sarebbe niente di strano, se non fosse che questo qualcun altro sembrerebbe essere uno solo.

Insomma, nel circo mediatico di un Paese senza più idee, dunque anche senza parole, sembrerebbe che un epigono di Sorensen sia stato il gost- writer che ha scritto i due discorsetti: con una mano (destra?) quello di Fini, con una mano (sinistra!?) quello di Bersani. Tutto è successo nell’ormai famoso programma “Vieni via con me”, che ha sbancato gli ascolti per ben due volte consecutive. La cosa è straordinaria. E’ straordinario che un programma televisivo sulla Rai faccia il botto di ascolti.

E’straordinario che questo succeda dopo l’accanita opposizione del direttore generale della Rai. E’straordinario che quel direttore generale della Rai sia il direttore generale di qualsiasi cosa: a uno così si ribellerebbero anche i lacci delle scarpe. Ma la cosa più straordinaria è che il programma televisivo in questione sia targato Endemol, compagnia mondiale specializzata in format televisivi. E’ straordinario che il direttore generale della Rai abbia tentato di sabotare un format Endemol. Perché Endemol è di proprietà di Mediaset. E Mediaset è di proprietà di Berlusconi. Proprio come il direttore generale della Rai.

Ma la cosa straordinariamente straordinaria è che Endemol fa un programma che sbanca gli ascolti, che viene contro-programmato da RaiTre contro il Grande Fratello, che è l’ammiraglia della produzione Endemol. E l’ammiraglia della produzione Endemol ceda il passo al successo di RaiTre contro l’ammiraglia delle reti televisive private, cioè Canale 5. Riassumendo: Endemol fa “Vieni via con me” che da RaiTre batte “Il Grande Fratello” su Canale 5, programma di Endemol. E’ vero che Endemol perde nel mondo nel 2010 circa un miliardo di dollari, come certificano gli analisti di Wall Street. Dunque, tutto fa brodo pur di fare liquidi. In altri termini, il presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana possiede Mediaset, controlla la Rai e a entrambi vende format tv, attraverso la sua società Endemol.

E’ il miracolo dei miracoli: egli è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo dell’audience. Mentre l’odiata Auditel viene sdoganata come metro di misura del successo di Fazio e Saviano, come se per incanto l’Auditel fosse diventata Santa Romana Chiesa della tv di qualità, i giornali, vittime sacrificali dello strapotere televisivo, certificherebbero grandi elogi al programma: nuovo, libero, fresco. Ma Endemol. Che fa tanto “altissima, purissima, Levissima”.

Che Paese meraviglioso è il nostro: un unico, grande, materno ventre mollo partorisce il tutto e il contrario di tutto, a comando, col telecomando. Cosa avrebbe potuto inventare, a questo proposito, Sorensen, il gost-writer per antonomasia? “Non chiederti cosa possono fare le tv per te, ma cosa tu puoi fare per i programmi tv”. Beh, buona giornata.

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La lettera di Michele Santoro a Mauro Masi.

(fonte: repubblica.it).
“La mancata messa in onda” di Annozero sarebbe “un grave danno per il servizio pubblico e mi costringerebbe a impiegare tutte le energie per difendere diritti miei, dei miei collaboratori e degli spettatori”. Lo scrive oggi Michele Santoro in una lettera al direttore generale della Rai Mauro Masi, commentando “l’ennesimo rinvio di una settimana” da parte del Cda Rai sulle decisioni relative alla messa in onda della trasmissione. Ecco la lettera:

“Gentile Direttore,
al termine di una stagione faticosa, durante la quale sono stato costretto a lavorare più per contrastare manovre politiche e impedimenti burocratici che per realizzare un prodotto televisivo, solo al fine di trovar modo di continuare a svolgere la mia professione con un minimo di serenità, avevo accolto il tuo invito a valutare una ipotesi transattiva che ponesse fine all’interminabile vicenda giudiziaria che mi riguarda.
Ma siccome nessuna azienda seria rinuncerebbe a cuor leggero a una trasmissione come Annozero e nessuna azienda libera discuterebbe di materie contrattuali riguardanti i suoi dipendenti come ha fatto la Rai, addirittura dedicando intere trasmissioni alla nostra cosiddetta trattativa, si è scatenata una incredibile concatenazione di errori di comunicazione e polemiche.

Oggi sono costretto a constatare che non si è ottenuto il risultato sperato: individuare soluzioni che appaiano e siano dalla parte del pubblico. E’, invece, risultato evidente che Annozero, perfino da chi esprime nei suoi confronti critiche violente, è considerato un elemento assai importante del panorama informativo italiano. Il clamore suscitato dalla eventualità di una sua soppressione, al di là delle critiche ingiustificate e immotivate sulla portata e il valore del possibile accordo, ha dimostrato inequivocabilmente che un pubblico enorme non vuole rinunciare ad uno dei suoi appuntamenti preferiti.

Perciò lasciami dire che, indipendentemente dalle tue intenzioni, la tattica di rinviare continuamente la conferma in palinsesto del programma, anche dopo quanto emerso dall’inchiesta di Trani, conferma nell’opinione pubblica la convinzione di un carattere strumentale dell’interesse manifestato per le nuove trasmissioni alle quali avrei potuto dar vita. Non c’è più spazio, quindi, per rinvii e ambiguità. E non c’è più tempo per trovare alcun accordo tra noi che non preveda la messa in onda di Annozero.

Ti prego di provvedere di conseguenza a sbloccare le pratiche che con i miei collaboratori sono state già tutte opportunamente istruite e consegnate alla Rete dopo aver definito con il Direttore Liofredi e gli uffici competenti della Rai date e modalità produttive. La mancata messa in onda del programma sarebbe un grave danno per il servizio pubblico e mi costringerebbe ad impiegare tutte le energie per difendere diritti miei, dei miei collaboratori e degli spettatori. Ti ringrazio per la cortese attenzione e ti invio i miei più cordiali saluti.
Michele Santoro
(Beh, buona giornata).

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La Rai sta per diventare un “servizietto” pubblico.

Santoro, Setta e Paragone “tagliati”, Dandini, Fazio e Saviano “dimezzati”: il can can dei palinsesti Rai-blitzquotidiano.it

E’ can can dei palinsesti in casa Rai. Le bozze sono arrivate sul tavolo del direttore generale Mauro Masi e martedì verranno discusse in Consiglio di amministrazione. Ma già non mancano le sorprese. Più che un can can si potrebbe parlare di “caos” dei palinsesti, tra trasmissioni cancellate, giornalisti sostituiti, puntate dimezzate. Michele Santoro, Monica Setta e Gianluigi Paragone rischiano di chiudere i programmi. Serena Dandini e la coppia Fabio Fazio-Roberto Saviano sono a rischio “dimezzamento”. I giornalisti di RaiNews24 sono sul piede di guerra e scioperano. In più la mannaia dei tagli al personale si sta per abbattere sull’azienda.

Iniziamo da Raidue dove le sorprese, a dir la verità, erano attese. Nel palinsesto 2010-2011 non c’è “Annozero” di Michele Santoro. Nella tabella degli orari, il giovedì sera, al suo posto compare la scritta “spazio informativo”. Così, laconico, senza ulteriori spiegazioni. Prova che la frattura tra il conduttore e i vertici Rai è ancora in corso. Tanto che Santoro ha annunciato una conferenza stampa lunedì 7 giugno alle 12 a viale Mazzini per spiegare la vicenda della “separazione consensuale” dalla Rai.

Ma Santoro non è l’uncio a risentire del can can dei palinsesti. Ad essere a rischio di riconferma sono anche le trasmissioni “Il fatto del giorno” di Monica Setta e “L’ultima parola” di Gianluigi Paragone. Anche in questo caso al posto delle loro trasmission, si legge sul palinsesto “spazio informativo”. Per ora è tutto un punto di domanda, sono delle ipotesi, dei dubbi. Dubbi che verranno sciolti presto, visto che i palinsesti definitivi verranno approntati l’8 giugno durante la riunione del Consiglio d’amministrazione.

Movimenti, stravolgimenti e polemiche non riguardano solo il secondo canale. Anche Raitre naviga in acque agitate. Il viceministro Paolo Romani il 2 giugno ha criticato duramente la trasmissione “Parla con me” di Serena Dandini e nella bozza dei palinsesti il programma perderebbe una serata delle quattro settimanali per far spazio a speciali sui 150 anni dall’Unità d’Italia. Intanto, sempre su Raitre è scoppiato il caso Fabio Fazio – Roberto Saviano per il programma “Vieni via con me”. E’ già tutto pronto: quattro puntate in ottobre condotte da Fazio e con ospite speciale Saviano. Quattro puntate per quattro argomenti: una dedicata a Piergiorgio Welby, una alla ‘ndrangheta, una sulla ricostruzione in Abruzzo dopo il terremoto del 6 aprile 2009, una sulla vicenda dei rifiuti a Napoli. Proprio questi due ultimi argomenti, che infastidirebbero il governo Berlusconi, potrebbero passare sotto la mannaia dei vertici Rai. A viale Mazzini, infatti, si punta a dimezzare le serate di Saviano ed eliminare proprio quelle in cui si parlerebbe di terremoto e di rifiuti. Dalle iniziali quattro puntate, quindi, si passerebbe a due. Il tira e molla tra i dirigenti Rai e la coppia Fazio-Saviano è già in atto. Da una parte i vertici di viale Mazzini sono fermi sul punto. Dall’altro Fazio punta i piedi e dice: o si fanno tutte e quattro le puntate o non se ne fa niente.

Sull’argomento già monta la polemica. Il portavoce dell’Idv, Leoluca Orlando parla della Rai come “la stalla di Arcore” e di Mauro Masi come “lo stalliere di Arcore”. Di tutta risposta il presidente Masi ha deciso di querelare l’esponente dipietrista per “le dichiarazioni diffamatorie di inaudita gravità rilasciate ad agenzie di stampa”. In aperto contrasto con i vertici di viale Mazzini scendono in campo anche i “finiani” di FareFuturo, la fondazione del presidente della Camera, Gianfranco Fini. Il direttore di Ffwebmagazine oggi scrive: “Speriamo che non sia vero. Perché non è un bel paese quello in cui la propria televisione pubblica, la televisione di tutti, decide di tagliare un evento culturale prima che mediatico come la trasmissione di Roberto Saviano. Significa che lo Stato abdica alle sue funzioni per accontentarsi di nani e ballerine, di zerbini e di veline”.

In casa Rai rimane poi aperto il caso Ruffini. L’ex direttore di Raitre è stato reintegrato da un giudice ma quello che è stato il suo posto è attualmente occupato da Antonio Di Bella. Il direttore della Rai, Mauro Masi, starebbe dunque pensando ad affidare a Ruffini la direzione di RaiCinema oppure quella di RaiNews24, determinando, però, l’allontanamento di Corradino Mineo e un altro, inevitabile, giro di walzer.Proprio oggi i giornalisti di RaiNews24 sono scesi sul piede di guerra, hanno indetto uno sciopero e fatto un sit in a viale Mazzini contro la “carenza di mezzi e risorse” con cui devono lavorare e contro “l’oscuramento” di RaiNews24 sul digitale in varie parti d’Italia.

A complicare ulteriormente le cose in casa Rai sono, infine, i tagli e gli esuberi di personale necessari per ripareggiare il bilancio dell’azienda nel 2012. La quota minima di esuberi che è stata individuata è di 750 posti. I tagli ci saranno anche tra i giornalisti: si parla di 1700 dipendenti dell’informazione che verranno mandati a casa. Le “uscite”, promettono a viale Mazzini, saranno per lo più soluzioni “soft” con pensionamenti e incentivi alla pensione. A risentire della crisi dei fondi Rai saranno anche interi settori dell’azienda. Quelli non non centrali, come il trucco e il parrucco, saranno appaltati a società esterne. Si taglierà poi sulle spese “extra” come quelle per le auto e i pullman di servizio. Masi inoltre sta pensando ad accorpare alcune redazioni, come quella di RaiNews24 e Televideo e RaiInternational oltre che, ma è solo un’ipotesi, chiudere definitivamente l’edizione notturna del Tgr e del Tg1 di mezza sera. (Beh. buona giornata).

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La lettera aperta che Maria Luisa Busi, giornalista Rai ha scritto a Augusto Minzolini, direttore del TgUno. Una fotografia dell’Italia.

(fonte: repubblica.it).
“Caro direttore ti chiedo di essere sollevata dalla mansione di conduttrice dell’edizione delle 20 del Tg1, essendosi determinata una situazione che non mi consente di svolgere questo compito senza pregiudizio per le mie convinzioni professionali. Questa è per me una scelta difficile, ma obbligata. Considero la linea editoriale che hai voluto imprimere al giornale una sorta di dirottamento, a causa del quale il Tg1 rischia di schiantarsi contro una definitiva perdita di credibilità nei confronti dei telespettatori”.

“Come ha detto il presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli: ‘La più grande testata italiana, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha visto trasformare insieme con la sua identità, parte dell’ascolto tradizionale”.

“Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. E’ stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l’informazione del Tg1 è un’informazione parziale e di parte. Dov’è il Paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d’Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c’è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l’onore di un nostro titolo.

E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell’Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord est che si tolgono la vita perchè falliti? Dov’è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell’Italia esiste. Ma il tg1 l’ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale”.

“L’Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un’informazione di parte – un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull’inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo – e l’infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale”.

“Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore, una conduttrice, può soltanto levare la propria faccia, a questo punto. Nell’affidamento dei telespettatori è infatti al conduttore che viene ricollegata la notizia. E’ lui che ricopre primariamente il ruolo di garante del rapporto di fiducia che sussiste con i telespettatori”.

“I fatti dell’Aquila ne sono stata la prova. Quando centinaia di persone hanno inveito contro la troupe che guidavo al grido di vergogna e scodinzolini, ho capito che quel rapporto di fiducia che ci ha sempre legato al nostro pubblico era davvero compromesso. E’ quello che accade quando si privilegia la comunicazione all’informazione, la propaganda alla verifica”.

Nella lettera a Minzolini Busi tiene a fare un’ultima annotazione “più personale”: “Ho fatto dell’onestà e della lealtà lo stile della mia vita e della mia professione. Dissentire non è tradire. Non rammento chi lo ha detto recentemente. Pertanto:
1)respingo l’accusa di avere avuto un comportamento scorretto. Le critiche che ho espresso pubblicamente – ricordo che si tratta di un mio diritto oltre che di un dovere essendo una consigliera della FNSI – le avevo già mosse anche nelle riunioni di sommario e a te, personalmente. Con spirito di leale collaborazione, pensando che in un lavoro come il nostro la circolazione delle idee e la pluralità delle opinioni costituisca un arricchimento. Per questo ho continuato a condurre in questi mesi. Ma è palese che non c’è più alcuno spazio per la dialettica democratica al Tg1. Sono i tempi del pensiero unico. Chi non ci sta è fuori, prima o dopo.
2)Respingo l’accusa che mi è stata mossa di sputare nel piatto in cui mangio. Ricordo che la pietanza è quella di un semplice inviato, che chiede semplicemente che quel piatto contenga gli ingredienti giusti. Tutti e onesti. E tengo a precisare di avere sempre rifiutato compensi fuori dalla Rai, lautamente offerti dalle grandi aziende per i volti chiamati a presentare le loro conventions, ritenendo che un giornalista del servizio pubblico non debba trarre profitto dal proprio ruolo.
3) Respingo come offensive le affermazioni contenute nella tua lettera dopo l’intervista rilasciata a Repubblica 2, lettera nella quale hai sollecitato all’azienda un provvedimento disciplinare nei miei confronti: mi hai accusato di “danneggiare il giornale per cui lavoro”, con le mie dichiarazioni sui dati d’ascolto. I dati resi pubblici hanno confermato quelle dichiarazioni. Trovo inoltre paradossale la tua considerazione seguente: ‘il Tg1 darà conto delle posizioni delle minoranze ma non stravolgerà i fatti in ossequio a campagne ideologiche”. Posso dirti che l’unica campagna a cui mi dedico è quella dove trascorro i week end con la famiglia. Spero tu possa dire altrettanto. Viceversa ho notato come non si sia levata una tua parola contro la violenta campagna diffamatoria che i quotidiani Il Giornale, Libero e il settimanale Panorama – anche utilizzando impropriamente corrispondenza aziendale a me diretta – hanno scatenato nei miei confronti in seguito alle mie critiche alla tua linea editoriale. Un attacco a orologeria: screditare subito chi dissente per indebolire la valenza delle sue affermazioni. Sono stata definita ‘tosa ciacolante – ragazza chiacchierona – cronista senza cronaca, editorialista senza editoriali’ e via di questo passo. Non è ciò che mi disse il Presidente Ciampi consegnandomi il Premio Saint Vincent di giornalismo, al Quirinale. A queste vigliaccate risponderà il mio legale. Ma sappi che non è certo per questo che lascio la conduzione delle 20. Thomas Bernhard in Antichi Maestri scrive decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo, dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno”.

E conclude: “Caro direttore, credo che occorra maggiore rispetto. Per le notizie, per il pubblico, per la verità.
Quello che nutro per la storia del Tg1, per la mia azienda, mi porta a questa decisione. Il rispetto per i telespettatori, nostri unici referenti. Dovremmo ricordarlo sempre. Anche tu ne avresti il dovere”. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia

Criteri giornalistici.

‘Sono accuse infondate’. Cosi’ la direzione del Tg1 replica alle polemiche nate sui dati dell’Osservatorio di Pavia su un presunto squilibrio a favore della maggioranza. ‘Abbiamo solo seguito un criterio giornalistico – spiegano fonti della direzione – ed e’ chiaro che in un momento come questo, in cui tiene banco la dialettica interna al Pdl, la maggioranza ha piu’ spazio’. Non c’è niente di più divertente dell’ironia involontaria. Beh, buona giornata.

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Come il direttore del Tg Uno si guadagna lo stipendio.

L’Osservatorio di Pavia realizza per la Commissione di Vigilanza sulla Rai i un rapporto mensile. Secondo l ‘Osservatorio nel mese di Aprile il il Tg1 (il tv governativo, diretto da Augusto Minzolini) ha riservato a tutti i partiti di opposizione (Pd, Udc e Idv in particolare) il 19,6% degli spazi. Il resto se lo spartiscono il governo (43,2%) e i partiti di maggioranza (15%). Ancora più evidente lo squilibrio se si guarda ai politici più presenti in video: sui primi tre gradini del podio ci sono tre esponenti del centrodestra: al primo posto c’è ovviamente Berlusconi, che sul Tg1 delle 20 ha parlato per 667 secondi. Più del doppio del tempo riservato al secondo classificato, il presidente della Camera Gianfranco Fini, che ha fatto sentire la sua voce per 314 secondi, tallonato dal ministro degli Esteri Franco Frattini con 294 secondi. Beh, buona giornata.

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Sergio Zavoli: “Per tirar fuori la politica dalla Rai – s’intende dall’occupazione dell’azienda – occorre cominciare da una Rai che voglia tirarsi fuori da una sua ormai insostenibile, paradossale contraddizione.”

Zavoli: “La credibilità è crollata non si rispettano autonomia e qualità”
Il presidente della Vigilanza traccia un quadro dai contorni drammatici. Con la gestione dell’attuale centrodestra, la tv di Stato non rispetta più niente. “Ormai non hanno spazio neppure i vecchi prudenti linguaggi”
di GOFFREDO DE MARCHIS-repubblica.it

Il caso Ruffini è solo la punta dell’iceberg. La Rai è ormai “una pulzella promessa” che dice sì “alle pretese di tutti i pretendenti”. La commissione di Vigilanza vede “distorti” da Viale Mazzini i suoi atti di indirizzo e viene da chiedersi se “la sua autorevolezza possa risolversi in un rito esortativo”. Il quadro descritto da Sergio Zavoli, popolarissimo giornalista tv, senatore del Pd e presidente della commissione parlamentare che vigila sulla Rai, ha contorni drammatici. Con la gestione dell’attuale centrodestra, la tv di Stato non rispetta più niente: la sua autonomia, la sua capacità di critica, “neppure i vecchi, prudenti linguaggi”.

Una delibera del cda disattesa, una soluzione che non accontenta nessuno. E Ruffini dice: contro di me c’è una discriminazione politica. È così?
“In Rai c’era e c’è un problema di fondo: l’assenza, o l’imperfezione, o il rifiuto della regola. La quale viene prima del consenso. Ne consegue che il pacta sunt servanda, così spesso trasgredito, rischia d’essere una citazione sapienziale ormai a buon mercato. Ma nel caso nostro va anche detto che quando i patti non sono rispettati la prima causa cui doversi richiamare non è tanto la regola quanto l’idea che un “servizio pubblico” – ignorando la doverosità, la puntualità e la funzionalità del suo compito – possa impunemente tradursi in un grave danno inferto alla credibilità dell’istituzione”.

Ruffini ha avuto una collocazione adeguata?
“La sua è una vicenda che nessuna grande organizzazione imprenditoriale può permettersi: ciò che è successo si sottrae a valutazioni di principio, men che meno manageriali. È la licenza di un’azienda che sta smarrendo una sua autonoma facoltà critica”.

Sia lei sia Paolo Garimberti, presidenti di garanzia, avete molte difficoltà ad esercitare le vostre funzioni. Quale ruolo può avere la minoranza schiacciata dalla logica dei numeri?
“Poter esercitare un legittimo potere con la forza dei numeri non esclude affatto il coinvolgimento dell’opposizione. Non ricorro all’abusato argomento della dittatura delle maggioranze: mi limito a dire che rinunciare all’allargamento del consenso è una pregiudiziale abdicazione a un ulteriore tasso di democrazia, che conferirebbe un’aria di vaga infondatezza al proposito di coinvolgere l’opposizione nelle riforme”.

Basterebbe una riforma della Rai per tirar fuori la politica da Viale Mazzini?
“Per tirar fuori la politica dalla Rai – s’intende dall’occupazione dell’azienda – occorre cominciare da una Rai che voglia tirarsi fuori da una sua ormai insostenibile, paradossale contraddizione. Questa è radicata nella più comoda e reciproca delle garanzie: il compromesso – poco nobile intellettualmente, culturalmente, aziendalmente – rinnovabile a ogni cambio di governo attraverso il citatissimo spoil system, ma soprattutto quella ingegneria combinatoria che si chiama “lottizzazione”, la più pigra e matematica delle soluzioni adottate con il consenso dell’azienda. Il pluralismo non è una somma di “legittime faziosità”. Perciò la storia e il prestigio della Rai meritano un colpo d’ala anche al suo interno. Comunque, il primo passo spetta alla politica. Dovrà opporsi all’idea ormai invalsa di un’azienda che non rispecchi i principi dell’autonomia e della responsabilità, della competenza e della qualità”.

La commissione non ha gli strumenti per intervenire?
“Le giro io un’altra domanda: è ragionevole credere che la Commissione possa fare un “miracolo” al giorno (tranne quando la disputa partitica obbedisce a specialissimi input, come è successo di recente nella controversia sui talk show) se, non avendo poteri vincolanti, il suo indirizzo può essere disatteso dall’azienda, oppure distorto, vanificando così ogni effetto riparatore della commissione? Noi abbiamo fatto dei seminari e caveremo dei materiali per rispondere ai problemi della qualità e del pluralismo. Ma si pone un legittimo interrogativo sull’autorevolezza di un organismo parlamentare, per giunta bicamerale, che non può certo risolvere il suo ruolo in un rito esortativo”.

Al Tg1 i giornalisti sono sul piede di guerra contro Minzolini, le intercettazioni di Trani dimostrano le pressioni del Cavaliere sulla Rai. È la notte della tv di Stato?
“Andiamo con ordine. La più grande testata italiana, sottoposta a varie scosse telluriche, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha visto trasformare, insieme con la sua identità, una parte dell’ascolto tradizionale. Intercettazioni: voglio credere che il ministro Alfano sia disposto a ripensare le norme del suo disegno di legge, in discussione al Senato, lesive della libertà di cronaca e del diritto-dovere di informare. Trani: quelle telefonate si commentano da sole, non occorre che aggiunga altro, se non una personale amarezza”. (Beh, buona giornata).

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La matematica non è una scienza esatta, neanche più un’opinione. La matematica è una polemica.

di Marco Ferri-advexpress.it
La matematica non è una scienza esatta, neanche più un’opinione. La matematica è una polemica
15/4/2010
Un milione gli spettatori che avrebbero cambiato canale, giovani o anziani, laureati o diplomati. Questo il bilancio del primo anno di Augusto Minzolini alla guida del Tg1.

Lo dimostrerebbe la rielaborazione dei dati Auditel che il consigliere Rai Nino Rizzo Nervo presenterà al Cda di lunedì.

“È un fazioso e non sa leggere i dati”, ha detto il direttore del Tg1 del consigliere Rai.

“Un conto è il diritto di critica, anche aspra. Altra cosa sono gli insulti. Come presidente del consiglio di amministrazione della Rai, non posso tollerare che un direttore insulti un consigliere”, ha detto il presidente della Rai Paolo Garimberti.

In attesa di sapere se i conti tornano, cioè di scoprire se chi dice di aver ragione ha torto, e se chi ha torto magari ha ragione, la domanda è una, solo una: che in Italia gli scandali siano una opinione lo sapevamo da tempo. Ma mo’ pure la matematica è diventata un’opinione?

Se così è, ditecelo chiaramente, che magari aggiorniamo i libri scolastici dei bimbi delle elementari. E anche i listini Sipra. Grazie. Beh, buona giornata.

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E adesso vogliono licenziare Santoro.

“Alla luce delle ultime evenienze”, scrive Mauro Masi riferendosi alla serata di “Rai per una notte”. Il direttore generale ha mandato ieri mattina una lettera formale al presidente del Cda Paolo Garimberti e ai consiglieri per chiedere una riunione ad hoc e straordinaria sulla situazione complessiva “legata al signor Michele Santoro”. Viale Mazzini dovrebbe cioè valutare se i comportamenti del conduttore danneggiano o meno “la credibilità dell’azienda” e se il suo contratto “al di là di ogni giudizio di merito, travalica i limiti della gestione ordinaria e dei poteri del direttore generale”. In parole povere, significa che è partito l’attacco finale a Santoro. Obiettivo: la risoluzione del contratto. Ovvero, la cacciata dalla Rai.
(Beh, buona giornata).

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In Italia la matematica è una pessima opinione.

L’Istat, Bankitalia e il balletto sui numeri dei disoccupa
Apprendisti e stregoni al lavorodi Roberta Carlini, da robertacarlini.it

Mediamente, andiamo abbastanza male in matematica, e i più seri esperti di formazione si preoccupano di questa lacuna della nostra scuola. Ma di qui a ignorare del tutto i numeri, come se fossero inconoscibili entità, anche quando si tratta di fare solo addizioni e sottrazioni, ce ne corre. Eppure, ogni volta che nel nostro dibattito politico spunta un numero, se ne parla così: Tizio dice che quel numero è X, Caio dice che è Y, scontro tra Tizio e Caio. Come se non fosse possibile risalire alla verità – oppure, spiegare le diverse ipotesi che sono alla base delle due verità – e capire se è Tizio o se è Caio che sta dicendo una colossale balla.

Il siparietto si ripete ogni volta che qualcuno si azzarda a dare i dati sul lavoro. Evidentemente, anche se da tempo i lavoratori sono trascurati da destra e da sinistra – sostituiti dalle più appetite categorie dei consumatori, risparmiatori, utenti, o ancora padani, imprenditori o altro -, la questione brucia. E brucia soprattutto in tempi di crisi. L’Istat, che con una sua indagine fa la rilevazione dello stato delle cose, si è trovato abbastanza in difficoltà quando, qualche mese fa, il governo ha ridicolizzato il modo in cui quell’indagine si fa – metodo statistico, che segue standard internazionali. Poi ha appaltato all’esterno la rete dei lavoratori – per lo più giovani, precari come tutti – che fanno le domande sulla cui base si stila l’indagine. La cosa ha preoccupato molti, e ha fatto conoscere a tutti il paradosso dei precari che vanno in giro a fare domande sulla altrui precarietà. Ma – assicura il presidente dell’Istat, economista stimato a livello internazionale – tutto ciò non mette in discussione la serietà e la attendibilità dei dati. Che, da un po’, vengono forniti mensilmente anziché trimestralmente. L’ultimo bollettino parla di una disoccupazione all’8,3%. Su questi dati poi altri economisti e altri statistici fanno ricerche, analisi, ragionamenti. E gli ultimi ragionamenti hanno dato luogo all’ultimo siparietto: la disoccupazione “vera”, ha detto la Banca d’Italia, è sopra il 10%. “Dati scorretti”, ha detto il governo, e hanno riportato le tv e i giornali. Senza preoccuparsi di dare al pubblico – evidentemente considerato troppo ignorante per care qualche operazione aritmetica – elementi in più per capirci qualcosa. Così, sembra che tra il ministro dell’Economia e il governatore della Banca d’Italia si sia svolto l’ennesimo battibecco da chiacchiera politica, uno scontro da salotto tv. Mentre si parla di cose cruciali: quante persone sono senza lavoro in Italia? Quante senza alcun reddito? Come vivranno quest’anno, l’anno prossimo? Come metteranno insieme il pranzo con la cena?

A chiunque si guardi intorno e non guardi solo le reti Rai e Mediaset (dove, ci avverte Ilvo Diamanti, alla disoccupazione si dedica solo il 7% delle notizie, limitando la nozione di “notizie” a quelle che evidenziano fatti gravi e contesti critici, insomma escludendo i servizi sulle mostre canine e simili), risulta chiaro che le persone che intorno a noi perdono il lavoro, o ne vedono ridimensionate le ore, o il salario, aumentano ogni giorno. I precari intervistatori dell’Istat registrano infatti ogni mese un nuovo record, fino ad arrivare all’ultimo: 8,3% di disoccupati ufficiali. Cosa significa? Secondo gli standard internazionali, sono “disoccupate” le persone che sono in età da lavoro, che non hanno un lavoro (non l’hanno mai avuto, o l’hanno perso), e che hanno cercato attivamente lavoro nel mese precedente l’intervista con l’Istat. Se uno, in quel momento, non sta lavorando perché è in cassa integrazione, oppure è a casa ma l’ultima ricerca di lavoro l’ha fatta oltre un mese prima dell’intervista, non rientra ufficialmente tra i disoccupati. Pur in questa definizione alquanto ristretta, il tasso di disoccupazione è crescente e preoccupante. Ma cosa succederebbe, si è chiesta la Banca d’Italia, se aggiungessimo anche i lavoratori in cassa integrazione e quelli che potrebbero tornare a lavorare ma non cercano neanche più lavoro (in molti casi non perché non ne hanno bisogno, ma perché sono scoraggiati, pensano che è inutile cercare tanto non si trova lavoro)? Aggiungendo – addizione, operazione non difficile – i lavoratori in cassa integrazione e i lavoratori “scoraggiati”, nel novero dei disoccupati abbiamo ben 800.000 persone in più: il numero dei disoccupati sale a 2.600.000, e il tasso di disoccupazione oltre il 10%.

A questo punto, la valutazione si fa più facile: non esistono dati corretti e dati scorretti – in questo caso – ma dati che tengono conto di alcune variabili e dati che non ne tengono conto. Chi pensa che non valga la pena contare le decine (forse centinaia) di migliaia di uomini e donne che non cercano lavoro perché scoraggiati e scoraggiate, e che non valga neanche la pena di contare i cassintegrati perché tanto appena la Cig finirà torneranno al lavoro e troveranno il loro posto lì ad attenderli – chi la pensa così può attenersi al dato ristretto sulla disoccupazione, che comunque non è confortante. Chi invece pensa che quell’esercito di persone comunque appartiene alla fascia problematica della società, perché è (o presto sarà) senza un reddito, darà ragione alla Banca d’Italia nel suo tentativo di illuminare a giorno la situazione dell’occupazione in Italia. Operazioni e convinzioni legittime – c’è stato perfino qualcuno, nella scienza economica, che si è inventato il concetto di “disoccupato volontario”, dunque tutto è possibile nella teoria. Quel che non è possibile, nella pratica, è cercare di oscurare con la confusione sui numeri la realtà. Fatta di molti occupati in meno, uomini e donne. Persone che hanno perso il lavoro: prima i più precari, i collaboratori; poi quelli con i contratti temporanei non rinnovati; poi i lavoratori a tempo indeterminato, che per la prima volta dal ‘99 scendono numericamente (meno 0,7%, 110.000 posti in meno, tra il terzo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2009).

Di tutti costoro, solo pochi hanno avuto, e hanno, la protezione della cassa integrazione. Moltissimi invece non hanno avuto alcuna copertura a compensazione del salario perso. Il che spiega anche la dinamica del reddito e dei consumi nell’anno appena trascorso: le famiglie hanno comprato di meno (-2,1% la riduzione degli acquisti, nonostante un effetto-droga degli incentivi per le auto), il reddito disponibile è sceso dell’1,5%. Ovviamente ne segue un effetto a catena negativo: le imprese che vendono le loro merci in Italia, di fronte a questa situazione, prevedono il peggio, non investono e (ben che vada) non assumono. E la famosa ripresa si allontana.

Ecco perché i numeri – e i balletti sui numeri – non sono innocenti. Forse se si riconoscesse la profondità del problema, si sarebbe anche portati a muovere qualcosa, nelle leve della finanza pubblica, per avviarsi verso qualche soluzione. A dire il vero, il ministro dell’economia si è spinto fino a dire che la sola forma di deficit pubblico “moralmente accettabile” riguarda quel che si deve pagare ai lavoratori per la cassa integrazione: cioè, se si dovrà sforare per sostenere questi lavoratori, lo faremo, pare aver detto Tremonti. Ma andiamo a guardare quel che ha appena fatto, nell’anno che si è chiuso: l’Italia (il suo bilancio pubblico) ha già sforato, lo Stato è andato in rosso per il 5,6% del Pil. Rispetto al 2008, nel 2009 si sono avuti 31 miliardi di deficit in più. Ma non per la cassa integrazione e il sostegno ai lavoratori. Quasi tutto il maggior deficit è stato infatti dovuto a un effetto spontaneo del ciclo economico: la riduzione delle entrate tributarie, dovuta alla riduzione della produzione. Meno spontaneo, e forse indotto da un certo clima di tolleranza che si è diffuso nell’imminenza dell’arrivo del condono per i capitali illegali all’estero, è stato il modo in cui si è ripartita questa riduzione delle entrate fiscali: scese per tutti i settori, tranne che per l’imposta sui redditi da lavoro dipendente. Mentre in alcuni settori il gettito si riduceva molto di più di quanto fosse giustificato dalla crisi economica, le ritenute d’acconto sul lavoro dipendente restavano stabili. Inoltre, pur tuonando contro le banche e inneggiando a Robin Hood, Tremonti ha dato alle banche una delle poche spese discrezionali in più decise l’anno scorso, 4,1 miliardi per sostenerle nella crisi sottoscrivendo le loro obbligazioni.

Dunque il deficit pubblico è già salito nel 2009, ma non solo (e non prevalentemente) per aiutare i senza-lavoro. Per i quali il 2010, apertosi all’insegna del balletto sui numeri, non preannuncia per ora grandi novità: se non il fatto che, purtroppo, per molte lavoratrici e lavoratori il passaggio dalla cassa integrazione alla disoccupazione sarà ufficiale. (Beh, buona giornata).

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Televisioni italiane: è scoppiata la guerra. Si salvi chi può.

Calabrò: “Rai anche su Sky se indispensabile” Mediaset, ricorso contro la chiavetta digitale
Il gruppo del Biscione denuncia all’Antitrust la distribuzione dell’apparecchiatura “contraria alla normativa comunitaria e nazionale in materia di concorrenza”-repubblica.it

Si riaccende la guerra delle tv. Da una parte Corrado Calabrò, presidente dell’Agcom, chiarisce che la Rai deve stare anche su Sky “se indispensabile”, per consentire a tutti gli utenti di vedere i programmi. Dall’altra Mediaset ricorre all’Antitrust contro la chiavetta di Sky per il digitale terrestre. La replica dell’emittente di Murdoch è immediata: “E’ solo un modo per garantire a milioni di famiglie la possibilità di fruire dell’offerta digitale in chiaro sul digitale terrestre”.

A margine dell’audizione in commissione di Vigilanza, dove ha presentato le linee guida del nuovo Contratto di servizio, Calabrò ha affermato che la Rai “potrà stare su tutte le piattaforme commerciali” e invece “dovrà stare su tutte le piattaforme tecnologiche, quindi anche sul satellite”, così da consentire a tutti gli utenti di vedere le trasmissioni. E quindi “se Sky in una zona è indispensabile, la Rai deve starci nel periodo transitorio”, limitandosi a criptare “proprio il minimo” delle sue trasmissioni. Il tutto in questa fase di transizione che secondo quanto stabilito a livello europeo dovrà portare al digitale in tutta Italia entro il 2012.

In questo lasso di tempo le cose potranno cambiare, ha spiegato ancora Calabrò, rispondendo a una domanda dei giornalisti, in relazione alla diffusione di TivùSat (la
nuova piattaforma satellitare creata da Rai, Mediaset e Telecom Italia Media, ndr): “Vedremo che copertura sarà stata assicurata da TivùSat”, ha concluso. In buona sostanza, qualora la Rai decidesse di oscurare Rai1, Rai2 e Rai3 su Sky prima del 2012, l’Agcom valuterà “la copertura altrimenti assicurata sul satellite” del servizio pubblico.

L’ordine dei canali. L’Agcom si occuperà dell’ordine dei canali sul telecomando del televisore nella prossima seduta di giovedì 19 novembre. ”Ne avremmo fatto volentieri a meno ma – ha detto Calabrò – la questione non si è risolta. Ce ne occuperemo quindi nella prossima seduta”. Allo studio, tra le altre, l’ipotesi di obbligare chi fabbrica televisori a produrre un telecomando dotato di guida elettronica ai programmi, tecnicamente ‘Epg’.

Il ricorso di Mediaset all’Antitrust. Il ricorso di Mediaset, si legge su un comunicato della società, è motivato dal fatto che “la distribuzione da parte di Sky di questa chiavetta è contraria alla normativa comunitaria e nazionale in materia di concorrenza e costituisce una violazione degli impegni assunti nel 2003 da Newscorp in occasione della concentrazione delle attività di Telepiù e Stream”.

“Le norme Antitrust, infatti – prosegue Mediaset – non consentono a un’impresa dominante di ostacolare l’ingresso sul mercato di concorrenti mediante vendite abbinate o aggregate dei propri prodotti”. Inoltre per Mediaset, il fine della digital key, che non consente l’accesso né ai servizi interattivi né ai contenuti a pagamento, “è quello di frenare la diffusione sul mercato di decoder che consentano di ricevere i programmi a pagamento e i servizi interattivi di altri operatori. Il tutto evidentemente a danno dei consumatori che vedranno così limitata la loro possibilità di scelta a livello di offerta e di contenuti”.

A stretto giro la replica di Tom Mockridge, amministratore delegato Sky: “La Digital Key è una semplice iniziativa di Sky che garantirà a milioni di famiglie la possibilità di fruire dell’offerta in chiaro sul digitale terrestre in modo facile ed efficace”.

E Mockridge passa al contrattacco sulla tendenza oligopolistica di Mediaset: “Si tratta di uno strumento che aiuta il processo di digitalizzazione del paese offrendo un servizio per i consumatori in un mercato in veloce sviluppo. Uno sviluppo che, evidentemente, non è facile da accettare per un gruppo come Mediaset che per molti anni è stato, ed è ancora oggi, il principale soggetto privato operante in Italia nella televisione commerciale e dominante nel mercato della pubblicità”.
(Beh, buona giornata).

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Tv terrestri contro tv satellitari: è scoppiata la guerra dei mondi.

Te lo dò io il decoder: se l’Antitrust indaga sull’Auditel-di Giulio Gargia *

L’Antitrust ha aperto un’indagine sull’Auditel, accusato di monopolio delle rilevazioni dell’audience . Ma la notizia non è tanto questa. Si trattava di un atto quasi dovuto, visto che chi lo chiedeva era Sky, stanca di essere presa in giro dai continui rimandi del comitato tecnico di Auditel. La stessa richiesta era stata fatta – qualche anno fa – da associazioni come Megachip e Articolo 21.

Ora che anche Murdoch, per i suoi interessi, vuole una riforma del sistema, è più difficile per l’Antitrust traccheggiare, come ha fatto in questi anni. Ma la vera notizia è un’altra: che all’Auditel , con l’avvento del digitale per tutti, non sanno più che pesci prendere. Ovvero come fronteggiare l’avvento dei diversi telecomandi che in ogni famiglia servono a vedere tutte le Tv che viaggiano nell’etere. Ricordiamo che il metodo della rilevazione statistica dell’Auditel, con il panel di 5100 famiglie campione che decide i gusti degli italiani, è stato già pesantemente messo in discussione , per motivi sostanzialmente pratici, e definito come inattendibile da più parti. Ora, con l’arrivo dei decoder obbligatori, le cose si complicano ancora. Prendiamo una normale serata Tv di una famiglia- campione, una di quelle che determinano gli indici Auditel, e quindi il successo o l’insuccesso di un programma.

La signora Giuseppina guarda la Tv in cucina, su un apparecchio dove non è stato ancora sistemato il decoder , e dunque non prende, in mezza Italia, né Rete4 né Rai 2. Se c’è un programma che vuol vedere su queste reti, deve spostarsi in soggiorno, dove invece il decoder c’è, ma in quel momento è occupato da Marco, il figlio, che sta vedendo i cartoni animati con un suo compagno. La signora Giuseppina dice allora ai ragazzi di andare a vedere i loro cartoons in cucina, mentre lei si godrà Emilio Fede digitale.

Ma c’è un altro ostacolo: il meter dell’Auditel, che – come ogni volta che si cambia programma – inizia a lampeggiare chiedendo : “ Stesse persone ? “ . La signora allora cerca il comando del meter, ma non lo trova perché i ragazzi lo hanno disperso da qualche parte tra i cuscini del divano. Intanto, l’acqua inizia a bollire e la signora si ritrasferisce in cucina, mentre il meter continua a pulsare senza esito. Buttata la pasta, suonano al campanello, e arriva Giorgio, il marito, che si piazza davanti alla Tv del soggiorno. Vede il meter che lampeggia e , ben addestrato, trova il comando tra i cuscini e schiaccia il tasto “si”.

Così, il meter registra che Emilio Fede è stato visto da 2 ragazzini di 8 anni che stavano invece vedendo i loro Simpson su Italia Uno. Giorgio, nell’attesa della cena, cambia canale e passa su Minzolini. Per potersi godere uno dei suoi editoriali senza interferenze del meter, deve però ritrovare l’altro telecomando, quello del decoder, che la moglie si è portata con sé in cucina appena ha capito che le stava tracimando la pentola. Il marito, allora, va in cucina. “ Pina , è pronto ? “ chiede. “ Due minuti, comincia a chiamare Riccardo, sta in camera sua”, prende tempo la signora. Giorgio, dimenticato il telecomando, attraversa il corridoio e trova l’altro figlio che sta alla sua scrivania davanti al computer, dove sta vedendo Blob su RAI 3 , scaricando un brano degli U2, e chattando con la sua fidanzata di Barcellona.

In questo quarto d’ora tipo di una famiglia campione, non un solo spettatore Auditel è stato correttamente registrato. Una situazione già presente e molto criticata prima, ma che il digitale obbligatorio ha reso ancora più complicata. Oggi, e fino al 2012 quando sarà completata la transizione, una famiglia può avere un telecomando per il digitale terrestre, uno per il satellite Sky, uno per quello RAISET, un altro per la Tv tradizionale, e infine uno per l’IPTV, quella via computer. A questo bisogna aggiungere – per la rilevazione corretta dei dati – il meter dell’Auditel, che implica un altro apparato completo di simil-telecomando per registrarsi ogni volta che si cambia canale.

Le richieste della Tv di Murdoch chiedevano di adeguare le rilevazioni a questa situazione di estrema confusione, contando di ricavarne un vantaggio in termini di proprio audience. “Il procedimento, avviato alla luce di una denuncia presentata da Sky Italia, dovrà verificare se la società abbia assunto un atteggiamento dilatorio o ostruzionistico nei confronti delle proposte avanzate da Sky per migliorare la rappresentatività dei dati rilevati”, dice l’Antitrust in una nota.

Ma il problema non è solo quello di chi sapere chi vede e che cosa. Con il decoder, diventa anche quello di sapere chi NON vede più quello che vedeva prima. E’ notizia di una decina di giorni fa l’istituzione dei “ volontari del decoder” . Ragazzi che – pagati dalla provincia autonoma di Trento – dalla primavera scorsa di lavoro fanno proprio questo: installano decoder a domicilio, gratis, agli over 75. Una fascia di persone che con la tecnologia, anche quella semplice, non va tanto d’accordo. Pare che ne abbiano usufruito in oltre 6.000. Ma l’Italia non è il Trentino, e dobbiamo quindi immaginare cosa stia succedendo in Piemonte, Lazio , Campania e nelle altre regioni già tutte o parzialmente digitalizzate, dove gli “angeli del decoder” non arrivano. Ma l’Auditel tutto questo non lo sa, e continua a registrare i suoi presunti ascolti su cui si fanno palinsesti e programmi. Chissà se e quando l’Antitrust arriverà laddove il buon senso, l’osservazione pratica e perfino Franceschini in campagna per le primarie sono giunti da tempo: dichiarare superato questo meccanismo e voltare pagina. Farebbe un gran bene a tutti, in primis ai telespettatori. (Beh, buona giornata)

• Autore del libro “ L’arbitro è il venduto “ – Audiradio, Auditel, Hit Parades, Audiweb, Audisat
di Editori Riuniti , insegna Giornalismo Internazionale all’Università L’Orientale di Napoli

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Il passaggio al digitale terrestre: lo chiamano switch off, ma è solo una gran confusione.

Addio vecchia TV analogica. Dal 16 novembre switch off per Roma.
Al via dalla metà di novembre il passaggio al Digitale terrestre per Roma, prima grande capitale digitale d’Europa, di ALESSANDRA LOFFREDI.

Quando alla fatidica data del 16 di novembre Roma vedrà compiersi lo switch off (il passaggio anticipato alla nuova tecnologia), spegnendo definitivamente il segnale analogico della vecchia TV, si troverà a ricoprire il ruolo di “prima grande capitale digitale d’Europa”, anticipando Londra, Parigi e Madrid, così come ha dichiarato in un recente congresso il Viceministro alle Comunicazioni Paolo Romani “Cos’è oggi la TV digitale terrestre in Italia lo possiamo vedere con i nostri occhi : 34 canali nazionali gratuiti rispetto ai 10 canali nazionali del sistema analogico. La via italiana alla televisione digitale terrestre è originale ed innovativa” sottolineava inoltre nell’intervento “Una specificità italiana, che sottolineiamo e rivendichiamo, in un contesto europeo che ad oggi non ha raggiunto il nostro livello di avanzamento del processo di digitalizzazione.” (Intervento leggibile integralmente su Digital-Sat.)

Secondo i dati del Ministero dello Sviluppo economico, entro la fine di quest’anno il digitale terrestre entrerà nelle case di 6,2 milioni di famiglie (pari al 30% della popolazione). Progressivamente, nel 2010 la percentuale sarà alzata al 68% e nel 2011 all’81%.

Nel 2012 il passaggio sarà completato per tutti. Il digitale terrestre (conosciuto anche con l’acronimo DTT, dall’inglese Digital Terrestrial Television) è una tecnologia che permette di ricevere sul televisore di casa trasmissioni televisive di un livello pari alla TV satellitare, non ricorrendo all’installazione dell’antenna parabolica, ma utilizzando invece un decoder, collegato all’impianto ricevente preesistente o integrato direttamente nei televisori di recente fabbricazione.

Un passaggio epocale? Certamente, ma non sempre ben accettato dagli utenti, alcuni dei quali lo vivono al momento più come un passaggio obbligato e non condiviso.
Le ragioni sono prevalentemente collegate alla questione economica. Passare al digitale obbliga tassativamente all’acquisto del decoder. Nonostante il sostegno dato dagli incentivi statali, dedicati comunque ad una ristretta fascia di utenti e nonostante la varietà di proposta degli apparecchi, i cui prezzi partono da cifre contenute, molti italiani vivono la necessità di questo esborso come un’imposizione, considerando che, molto semplicemente, la televisione la vedevano pure prima e pagando già un canone.

La decantata maggior qualità dell’immagine, nonché la più ampia varietà di canali, non basta in questi casi a sollevarli dalla sensazione di trovarsi ad essere, inevitabilmente, un terreno di battaglia fra due grandi network televisivi, Mediaset e Sky.

Quanto al decoder, la sua semplice installazione viene mostrata in maniera chiara anche tramite spot rassicuranti. Ma non sempre la realtà è altrettanto chiara. Innanzi tutto, stando ai commenti che corrono in molti blog tematici della rete, ad essere alle volte non chiara è le ricezione del segnale, la cui copertura, lamentano alcuni utenti, è ancora causa di malfunzionamenti. Poco chiare anche le idee di quelli che, non riuscendo autonomamente a compiere la semplice operazione di collegamento del decoder, si avvalgono di un tecnico installatore.

Alla spesa per l’apparecchio si aggiunge quella dell’intervento, arrivando, nel peggiore dei casi, a sentirsi dichiarare inadeguato l’orientamento dell’antenna o peggio l’impianto preesistente. “In questo periodo non mi fermo un attimo,le chiamate che richiedono un intervento per installare il decoder sono continue” sospira Renzo, tecnico specializzato attivo nell’area nord della capitale ”c’è una gran confusione sull’argomento e a farne le spese sono soprattutto le persone anziane, intimorite dalle nuove tecnologie”.
Come difendersi in questi casi dai raggiri? “Chiedendo una mano ad un giovane della famiglia, sicuramente più disinvolto con cavi e prese scart, o cercando un tecnico che sia di fiducia, magari già intervenuto sul televisore di un amico” consiglia Renzo.

E’ bene porre una certa attenzione anche nell’acquisto di un nuovo televisore. Non sono stati poi così remoti quei casi in cui, portato con soddisfazione a casa il nuovo apparecchio, un “vero affare”, contrariamente alle aspettative si scopriva non essere adeguato alle nuove tecnologie.

Recentemente Legambiente ha posto l’attenzione su una nuova forma di inquinamento, riconducibile all’abbandono di rifiuti pericolosi, che pare crescere con l’avvicinarsi dello switch-off.
Televisori smaltiti in modo errato, lasciati impropriamente ed in gran numero a ridosso di cassonetti ed altrove. Lontanissimi da questi episodi gli utenti più agguerriti contro l’avvento del digitale, che intervenendo in internet, propongono di eliminare si il televisore, ma con una rottamazione corretta e dandone avviso alla Rai, così da non dover più pagare il canone e tornare a dedicarsi ad altro, magari una buona lettura.

ADICONSUM (associazione difesa consumatori e ambiente), quantificando in circa 100/150 euro il costo medio del passaggio per ogni famiglia al Digitale Terrestre e sostenendo che il principale cruccio degli utenti non sia relativo all’esborso economico ma piuttosto alle problematiche tecniche ad esso correlate, propone, per alleviare le pene degli abitanti del Lazio l’iniziativa denominata “Digitale chiaro”.

Eventi informativi che avranno luogo in tutti i comuni che ne faranno richiesta, con l’obiettivo di sostenere i cittadini che desiderano non arrivare impreparati al fatidico evento dello spegnimento del segnale analogico (dal 16 al 30 Novembre), agevolando quindi l’apprendimento di tutte le operazioni da compiere e delle eventuali problematiche correlate all’installazione di un decoder.

Chi volesse ricevere maggiori informazioni sul progetto può contattare l’Associazione tramite l’apposito Numero Verde 800 864754 nei giorni Lunedì, Mercoledì e Venerdì dalle ore 11 alle ore 15, oppure tramite richiesta via e-mail all’indirizzo di posta digitalechiaro@adiconsum.it.

Pronto al contrattacco alla concorrenza del Digitale Terrestre, Sky risponde incrementando da 16 a 30 i suoi canali HD entro il 2010, offrendo, a partire dal 23 ottobre, un televisore Full HD per tutti gli abbonati Sky con soli 50 euro di anticipo e rate a partire da 6 euro al mese e lanciando da dicembre la Digital Key, una chiavetta che, collegata al decoder Sky, permette di accedere a tutta l’offerta gratuita in chiaro del digitale terrestre integrata nell’Epg di Sky (ovvero la Guida elettronica dei programmi, un modo per avere sullo schermo l’elenco dei programmi trasmessi dai canali della piattaforma satellitare).

Il contrattacco di Sky prevede anche l’immediata possibilità di abbonarsi ai pacchetti Sky Cinema, Sport e Calcio senza sottoscrivere tutti i cinque generi del pacchetto Mondo. Così, avvolti dalla polvere della battaglia fra decoder, storditi da sistemi di decriptazione ed antennisti, è inevitabile chiedersi, come qualcuno suggeriva, se rimarranno energie per distogliere lo sguardo dal video dirottandolo, almeno qualche volta, sulle pagine di un buon libro. (Beh, buona giornata).

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Berlusconismo: la Rai censura Videocracy, film di Erik Gandini.

La Rai rifiuta il trailer di Videocracy “E’ un film che critica il governo” di MARIA PIA FUSCO-Repubblica.

Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c’è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent’anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.

“Come sempre abbiamo mandato i trailer all’AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film”, dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. “Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset”.

A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.

“Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un “inequivocabile messaggio politico di critica al governo” perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi”, prosegue Procacci “ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò “l’Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità””.

A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: “L’80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione”. Dice la lettera di censura dello spot: “Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata”, non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che “attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso”. “Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent’anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce “la creazione di un sistema di disvalori””.

Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi “Noemi o D’Addario” e non c’è un collegamento con l’attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi “caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all’ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell’attività di imprenditore televisivo”.

“Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re – dice Procacci – Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come “Viva Zapatero” o a “Il caimano”, che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l’Italia è cambiata”. (Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: in piena crisi di raccolta pubblicitaria è stata fatta la cosa sbagliata nel momento sbagliato.Infatti senza Sky la Rai perde ascolti.

Rai invisibile su Sky e gli ascolti vanno giù di ALDO FONTANAROSA
RaiTre in affanno in prima serata, quella che più conta. RaiDue in affanno al mattino (quando davanti alla tv ci sono i bambini) e nel pomeriggio dei telefilm. Assomiglia a una falsa partenza, in termini di ascolti, la decisione Rai di oscurare alcuni programmi sui decoder Sky. I numeri dell’Auditel parlano infatti di cali di ascolti che, nel caso della Terza rete, possono arrivare all’1,4%.

L’oscuramento dei programmi è effetto della nuova guerra che oppone la tv di Stato a Sky. La prima battaglia si è consumata sui 6 canali di Raisat che la tv pubblica confezionava per Sky: la loro fornitura è stata interrotta il 30 luglio. La seconda battaglia si consuma ora sull’oscuramento. Sono negati a Sky tutti gli eventi per i quali la Rai non abbia anche i diritti di trasmissione per l’estero. In 19 giorni – tra il 2 e il 20 agosto – lo schermo blu è comparso già 168 volte: colpiti e affondati 19 eventi di RaiUno; 23 eventi di RaiTre; addirittura 126 di RaiDue.

L’oscuramento ha invaso tre fasce orarie. Quella mattutina di RaiDue, intanto. Tre le 7 e 30 e le 10 e 45, non si vendono più sei serie di cartoni animati (dalla “Sirenetta” a “I miei amici Tigro e Pooh”). Colpita anche la fascia pomeridiana di RaiDue, da cui sono sparite serie di telefilm come “Streghe” e “Law & Order”. Ma è soprattutto RaiTre a pagare un prezzo alto. L’8 agosto, ad esempio, la Terza Rete ha subìto un’oscuramento totale che è iniziato alle 21 (con il film “Collateral”) ed è proseguito alle 23,30 con il film “Carter”. Stesso copione il 15 agosto, quando il doppio colpo di spugna ha cancellato prima “La banda degli onesti”, a seguire “Getaway” con Steve McQueen.

L’oscuramento sembra produrre anche un prezzo in termini di ascolti. Prendiamo il periodo dal 2 al 18 luglio, quando la Rai non criptava i suoi programmi sul satellite, e la fascia bambini di RaiDue (tra le 7,30 e le 10,45). Paragoniamo gli ascolti di questo periodo con quelli del periodo tra il 2 e il 18 agosto, quando invece va in scena l’oscuramento. La Seconda rete perde lo 0,8% in termini di share. La perdita di RaiDue sfiora l’1% nella fascia dei telefilm (tra le 14 e le 18); mentre la perdita di RaiTre (in prima serata, tra le 21 e le 23) arriva all’1,4%.

Altro periodo: dal 12 al 28 luglio (nessun oscuramento). Lo paragoniamo sempre al periodo 2-18 agosto (oscuramento). Le perdite di RaiDue sono confermate – soprattutto nel pomeriggio dei telefilm – mentre RaiTre tiene, sia pure a fatica. Questi numeri forniscono munizioni alle armi di chi (soprattutto nel Pd) sconsigliava alla Rai di divorziare da Sky. Chi invece difende l’opportunità del divorzio potrà aggrapparsi ad un altro dato dell’Auditel, stavolta favorevole alla tv di Stato. Parla di una tenuta, anzi di un progresso di RaiUno (che aumenta ad agosto fino al 2,9% in prima serata). E’ come se molti italiani – trovando lo schermo blu su RaiDue oppure su RaiTre – abbiano riparato intanto su RaiUno.

In queste ore, anche Sky passa ai raggi X i dati Auditel. La pay-tv vuole capire, in prima battuta, come si comportino i suoi abbonati quando si imbattono in un programma Rai nascosto. Prendiamo il caso della Nazionale. La tesi di Sky è che 18 suoi abbonati ogni 100 abbiano trovato RaiUno criptata per Svizzera-Italia (il 12 agosto) ed abbiamo visto altre cose (film, telefilm, partite di club, cucina) senza farsi problemi. Se invece non l’avessero trovata criptata, certo l’avrebbero seguita (perché così si erano comportati in occasione di precedenti amichevoli visibili sul satellite).

Questa è la pistola fumante, secondo Sky: è la prova che la Rai disperde ascoltatori e commette dunque un errore epocale mentre divorzia dal decoder della pay-tv. Se la tesi sia giusta, lo diranno i prossimi mesi di studio e di polemica politica. (Beh, buona giornata).

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