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Correva l’anno 1990. E come correva.

Ho incontrato Fritz Tschirren a cena a Milano, “A Santa Lucia”, il suo ristorante abituale. Ho già avuto modo e occasione di dire che Fritz ed io abbiamo piacere a incontrarci e, da oltre trent’anni, parliamo volentieri di libri, di cinema, di vini, cibi, di passioni, di politica, di dettagli buffi della vita, e del lato serio delle cose serie. Ogni tanto parliamo anche di pubblicità.

Mentre mangiavamo “una battuta”, – fettina di carne con olio, aglio, origano e peperoncino, che pare sia stata un’invenzione di Totò e che per questo fu prontamente inserita nel menù- Fritz mi ha ricordato dell’intervista che facemmo a Franco Grignani (1908-1999) per la Hall of Fame dell’Annual 1990 dell’ ADCI, l’Art Directors Club Italiano.

Allora il presidente era Gavino Sanna, il vice Pasquale Barbella. Chi fosse Franco Grignani è per grandi liee descritto nel testo che di seguito potrete leggere. Fu Fritz a proporre al Club di inserire Grignani nella Hall of Fame, perché Fritz ai primordi della sua carriera aveva lavorato per un breve periodo nel suo studio. Dopo essere stato il primo presidente dell’ADCI, nel 1990 Fritz era nel consiglio direttivo.

A quei tempi l’Art Directors Club era ancora una piccola e preziosa organizzazione di singole volontà e talenti che promuovevano, divulgavano e producevano cultura professionale, per spingere verso la qualità del lavoro e l’innovazione dei contenuti nhaella pubblicità italiana. L’ADCI aveva rilevanza proprio perché svolgeva questo ruolo formativo. Era un Club esclusivo, ci si poteva entrare su presentazione. Sì, eravamo rilevanti, facevamo bene alla creatività, tutta, pure quella che non era specificatamente pubblicitaria.

Poi le cose sono cambiate, si è pensato che la rilevanza fosse avere più peso specifico in termini di iscritti e di relazioni con il mondo della comunicazione d’impresa. L’ADCI si è mimetizzato e confuso nel “settore”. Non so: la tecnica ha preso il posto della cultura? L’autoreferenzialità quello dell’autorevolezza? Essere creativi non più ha più ambìto a essere una militanza professionale e dunque culturale, ma uno status aziendale? Fate voi.

Nel frattempo, ecco di che cosa sapeva parlare l’Art Directors Club Italiano al mondo della professione. Correva l’anno 1990. E come correva.

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”L’area operativa della pubblicità sta diventando sempre più vasta e lo sforzo creativo di specialisti non riesce ormai a produrre, per due prodotti similari, quanto basta per differenziarli. ln questo mondo di immagini, che sta raggiungendo valori ipertrofici, si impone la ricerca di nuovi valori segnici, fisici e costruttivi”. (Franco Grignani)

La sera del 23 ottobre del 1965 si chiudono all’Università di Carbondale negli USA i lavori di “Vision 65”, il primo congresso mondiale sulla comunicazione fra gli uomini. ”lo appartengo al professionismo grafico. Ogni giorno uno spazio bianco su di un foglio aspetta l’invenzione di un segno. Dietro di me il peso dì una imposizione commerciale preme sulle deviazioni verso tentativi dl ricerca di nuovi linguaggi. ll mio compito, come quello di altri grafici, è quello di analizzare e convogliare, attraverso filtri intuitivi, le nuove figurazioni per adeguarle alle tecniche in continua evoluzione”. È Franco Grignani il dissidente, l’autodidatta, il dilettante, come dice spesso di sé. Queste paroie gli valgono il plauso dei partecipanti e l’amicizia di Marshall McLuhan.”Tutte le volte che ci incontravamo mi diceva: che bella tua figlia, sembra un Modigliani”.

Franco Grignani, il maratoneta del “nuovo a tutti i costi” come se avesse attraversato a piedi otto decimi del XX secolo, lasciandovi le sue impronte, esplorando nella pittura, nella grafica, nella tipografia, nel design, nella ceramica. E nella pubblicità. “La pubblicità è una macchina enorme, pensata per costruire e produrre comunicazione ai fini d’interesse. Ma se tale è la sua sola funzione noi dovremmo un giorno elencare i suoi sottoprodotti in lusinghe, affermazioni errate, tranelli promessi da oligarchie di specialisti.

Anzi, il ripetuto uso di tali sistemi in certe forme pubblicitarie ha fatto nascere purtroppo, nei più sensibili, la diffidenza e il sospetto”. È il dibattito di oggi, ma Grignani queste parole le ha dette quel giorno di del 1965 a Carbondale.

Classe 1908, pavese, una laurea in architettura. Nel ’27 aderisce al secondo Futurismo. “La mia scelta mi poneva già in un atteggiamento e in una predisposizione alla curiosità e all’avventura”.

Nel ’34 la prima mostra alla Galleria delle tre Arti di Milano, presente Marinetti. La mostra fa il giro di molte città italiane, prima di finire in Germania e lì andare persa in un incendio. Le prime opere grafiche sono del ’37 e vengono esposte in una collettiva al Padiglione italiano dell’Esposizione di Parigi. Ufficiale sotto le armi nel ’40, viene assegnato alla Scuola di Avvistamento: “Pensi che fortuna, dovevo insegnare al soldati come si fa a guardare e e riconoscere la forma di aeroplano, che poi altro non era che la ricerca della grafica.” Grignani l’entusiasta.

Negli anni immediatamente successivi al dopoguerra, attraverso l’allestimento architettonico di mostre, entra in contatto con imprenditori che sempre più spesso gli chiedono un’idea pe fare avvisi pubblicitari. Grignani è irrequieto , vuole sperimentare, si trasforma in un ricercatore di segni. Gli sta stretto il Bauhaus, comincia a indagare tra la Gestaltpsychologie. Si sente un esule della pittura, un apolide della grafica, si addentra nella fascia ancora smilitarizzata in Italia del graphic design.

Questa specie di furore educato al segno lo avrebbe portato ad essere poi riconosciuto come uno dei principali influenzatori delle correnti “op” (optical art) della grafica mondiale. Del suo lavoro, Giulio Carlo Argan ha scritto che rappresenta, in tanti anni di ricerca metodica, un importantissimo materiale artistico di valore scientifico. “Il graphic design è una specializzazione tuttora poco conosciuta in Italia e il più delle volte viene confuso con la pubblicità, ma vi assicuro che è un lavoro difficile e faticoso, specialmente se fatto in tempi che non fornivano attrezzature né collaborazioni. Ad esempio, il fotografo non conosceva il fotogramma astratto e pur sapendo fare i ritratti si trovava in difficoltà davanti allo scatto di una bottiglia; perciò il graphic designer ha dovuto sostituirsi al fotografo, al tecnico di stampa e di camera oscura e all’esperto di comunicazione. Tale professione ha sempre avuto alle costole il pungolo di una committenza esigente nel chiedere una continua e alta creatività, aggravata e infastidita dalla richiesta di solerzia di esecuzione.” Grignani il caparbio.

Nel ’54 vince il premio nazionale della pubblicità, nel ’59 la “Palma d’oro” della pubblicità in Italia. Per la campagna Alfieri & Lacroix produrrà negli anni 163 bozzetti (oggi li chiameremo soggetti); per ventisette anni disegna le copertine di “Pubblicità in Italia”. C’è chi riconosce la sua mano nel marchio Pura Lana Vergine. È sua la campagna Ducotone. Disegna un nuovo carattere tipografico, il Magnetic. Ormai nel pieno degli anni sessanta, per il suo studio passano decine di clienti importanti. “Avevo scoperto che se presentavo al cliente due sole proposte, lui rimaneva perplesso e io facevo fatica a convincerlo. Allora ne preparavo cinque o sei. Così il cliente doveva chiedere a me quale fosse la migliore, e io riuscivo a far uscire il bozzetto più bello”.

La partecipazione al convegno di Carbondale nel ’65 lo fa conoscere negli Stati Unito: diventa membro onorario della Society Typographic Arts di Chicago e dell’International Center of Typographic Art di New York. Le riviste specializzate di tutto il mondo pubblicano i suoi lavori: la svizzera Graphis, la tedesca Gebrauchsgraphik, le giapponesi Design e Idea, l’inglese Typography. È membro dell’Alliance Graphique Internationale. In Europa, Giappone, Stati Uniti, Sud America, Australia si espongolo i suoi lavoro, le sue opere entrano a far parte delle collezioni dei più importanti musei.

Oggi, a 82 anni, non ha nessuna intenzione di starsene tranquillo nell’indice degli autori dell’Enciclopedia Treccani e della Larousse. Disegna, dipinge, fotografa, inventa. Ma libero, a casa sua, senza clienti alle costole. “Il ditale, sapete cos’è un ditale? È una piccola cosa che la donna mette al dito per cucire. Ma per me il ditale è un vaso. E dato che è piccolo deve avere dei fiori che devono essere piccoli. Sono andata in piazza qui vicino. Sono andato cercare fiori piccolissimi. Li ho messi dentro è ho fatto una fotografia. Dunque, secondo me l’immagine ha una grande dimensione anche se è piccola piccola. C’è uno sforzo ottico, ci costringe a una valutazione, per poterla capire, per essere al suo livello: per comprenderla diventiamo piccoli anche noi”. Franco Grignani è sempre più alto del suo metro e ottantatré.
(Fritz Tschirren e Marco Ferri)

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La pubblicità italiana, ovvero regressioni d’autunno.

“E mo’ vene Natale, non tengo denari, me leggo ‘o giurnale, e me vado a cuccà”, mitica canzoncina jazz di Renato Carosone del 1955 che, a saldi pari, calza a pennello alla comunicazione italiana, che si appresta a chiudere un altro anno terribile, smentendo, senza che nessuno abbia il coraggio di farne pubblica ammenda, la previsione di un pareggio, se non di un sia pur lieve incremento.

Siamo, invece, ancora nella melma, per non dire di peggio. E non si tratta di numeri, ma d’idee.

Succede, per esempio, che una nota e potente organizzazione nella grande distribuzione mette sui suoi scaffali un nuovo prodotto a marchio: un preservativo. Ma la campagna è moscia. E non vi sembri un volgare ossimoro.

Oppure che un grande editore italiano metta in distribuzione opzionale un prodotto multimediale su Giacomo Leopardi. La creatività radiofonica è niente meno che una serie di brani tratti al Cd, uno dei quali recita:
“Leopardi era un ragazzo allegro”. Peccato che l’agenzia non si chiami Monty Python.

Potremmo andare avanti in un lungo e noioso elenco.

D’altra parte, vanno in continuazione sul web ideuzze risibili, supportate da volonterosi copy e account che tentano di “virarli” attraverso i loro rispettivi profili sui social network.

Però si alzano peana alla comunicazione olistica. Dimenticando che è il marketing che

La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
La comunicazione sono idee, i mezzi sono i veicoli delle idee.
deve essere olistico. La comunicazione o è settaria o non è.

Siamo in un’epoca di frantumazione. Si è frantumata la Repubblica, ormai ogni potere fa i casi suoi, spesso in contrasto gli uni con gli altri. Si è frantumato il sogno europeo, ormai divenuto il ricorrente incubo dell’austerity: il suo mantra è “ricordati che devi pagare le tasse”.

Si è frantumata la politica, che oltretutto sta frantumando anche la pazienza degli elettori: neanche la pubblicità degli Anni Ottanta sparava fandonie così roboanti. Manco il leggendario “vavavuma!” della Citroen diesel di Seguélá sarebbe arrivato a tanto.

Certo, la frantumazione dei media è la caratteristica attuale. Usciti (male) dall’impero della tv e dalla satrapia di Auditel, oggi vaghiamo in un limbo in cui per raggiungere i consumatori le marche si devono fare in mille pezzi, tanti quanto è la somma tra i vecchi e i nuovi media.

Ma a forza di avvitarsi in tecnicalità e a credere che i mezzi siano tutto, il messaggio langue, il contenuto è esangue. C’è anche un aspetto grottesco, per non dire gotico, una specie di noir de noantri, non tano del dibattito, che forse non c’è mai stato, quanto del chiacchiericcio lamentoso: quelli che urlano “la pubblicità è morta” non riescono a nascondere le mani sporche di sangue della strage di idee.

Guardare a certe importanti campagne fa impressione; vedere immagini, testi, claim, cioè i contenuti, fa pena. Una regressione stilistica, estetica e sintattica; una povertà d’immaginazione e di comunicativa; una fretta nell’esecuzione che fa cadere ogni voglia di interessarsi al narrare delle marche, dunque ai loro prodotti.

La grande corsa all’irrilevanza della comunicazione commerciale italiana fa sudare, boccheggiare e ansimare tutti, su una strada che vede allontanarsi via via il traguardo della ripresa economica.

Come fosse la vocazione a essere comparse, invece che protagonisti, poco vale consolarsi per la partecipazione straordinaria di creativi italiani alla messa in scena di campagne internazionali.

Mentre da più parti ci verrebbe proposto un nuovo modello di comportamento emotivo, basato sulle migliori qualità italiane, si dimentica che il paradigma gramsciano aveva nell’ “ottimismo della volontà” il contrappeso del “pessimismo della ragione”. Cioè di una visione critica, analitica, non conformista, utile alla modificazione positiva della realtà. Che dovrebbe cominciare col rifiutare di credere ancora che tecnicalità e mezzi, invece che idee e contenuti siano la comunicazione del nuovo modo di fare marketing.

E visto che continuiamo a importare acriticamente dall’estero assiomi del marketing moderno, per concludere ci starebbe bene una famosa citazione di “Un americano a Roma”, interpretato da un Sordi giovane e pimpante.

Quando qualcuno viene a farvi il pistolotto sulle nuove opportunità, rivolgetevi a chi vi sta accanto e dite ad alta voce: “Armando, questo mo’ cacci via, subito”. Magari funziona. Beh,buona giornata.

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E ora lo Squalo si fa la sua Auditel.

di Giulio Gargia *

Che differenza c’è tra Murdoch e Genny ‘a carogna ? Che con il secondo si può trattare. Gira questa battuta, da qualche giorno, negli uffici dell’Auditel, dopo il lancio dello Smart Panel di Sky.

Da quando è apparsa nel panorama dell’etere, i rapporti tra la nuova Tv e il vecchio rilevatore degli ascolti, l’Auditel, non sono mai stati idilliaci. Le diatribe sull’audience sono state all’ordine del giorno, con frequenti incursioni nei tribunali e richieste di danni.

Oggi la Tv di Murdoch segna un punto a suo favore, lanciando il suo sistema di rilevazione. Praticamente, un’ Auditel fatta in casa, ma con un dispiego di mezzi che non ha nulla a che invidiare a quella ufficiale: subito un campione di 5.000 famiglie, a pareggiare le 5.127 dell’Auditel, per arrivare a 10.000 entro pochi mesi. Ma che bisogno aveva Sky di raddoppiare un sistema degli ascolti già esistente ? La prima risposta, quella che non si può dare, è che anche loro non si fidano dei dati.

La seconda, quella ufficiale, è affidata alle parole di Eric Gerritsen, vicepresidente esecutivo di Sky Italia per la Comunicazione e gli affari istituzionali.

“Il punto – dichiara alle agenzie – è che noi abbiamo bisogno di capire quali sono i comportamenti dei nostri abbonati e purtroppo gli attuali schemi di rilevazione sono un po’ vecchiotti, abbiamo più volte sollecitato Auditel a essere più innovativi ma la risposta ci sembra un po’ lenta quindi ci muoviamo noi” .

Poi in un rigurgito di diplomazia, precisa, giusto per non essere troppo conflittuale che lo Smart Panel “è uno strumento non alternativo ma integrativo rispetto all’Auditel “.
Walter Pancini, direttore generale di Auditel, abbozza e accetta lo ‘Smart Panel come “un legittimo strumento di indagine interna a fini editoriali, non in competizione con noi”.

Ma poi Gerritsen insiste. Il manager della pay tv italiana osserva che le abitudini di consumo della tv sono cambiate: “Basti pensare che nei fine settimana la Formula Uno, come il calcio, viene seguita da circa 600 mila persone sui tablet. Noi dobbiamo misurare gli effetti del cambiamento, nel dettaglio. Non miriamo a una sorta di autonomia dall’Auditel ma abbiamo bisogno di capire puntualmente quali sono i comportamenti degli spettatori”.

A Sky sono interessati soprattutto alla nuova frontiera, ovvero ai consumi da altri dispositivi che non siano il televisore, come smartphone, tablet ma anche l’interazione con i social. Anche per il recente accordo con Telecom che permetterà di portare l’offerta della pay tv anche sulle reti a banda ultralarga dell’operatore tlc.
E qui Pancini non può far altro che inseguire ” Quello dell’analisi degli ascolti in mobilità è un obiettivo al quale stiamo lavorando da tempo, parallelamente con le altre Auditel europee: siamo in fase di sperimentazione”.

Poi vira sul patetico: “Non siamo un organismo vetusto. Auditel resterà un punto di riferimento per le aziende “.
Intanto, però le tensioni più o meno sotterranee tra Auditel e Sky emergono alla luce del sole. Il sistema di rilevazione degli ascolti nato nel 1986 non ha mai riscosso le simpatie degli uomini di Murdoch per due ragioni. Una è che il è nato per garantire gli equilibri tra RAI e Mediaset , la seconda è che la logica analogica dell’Auditel penalizzava il sistema satellitare e digitale di Sky.

Lo Smart Panel rappresenta quindi “ la soluzione finale” che – al di là delle rassicurazioni sul fatto di essere integrativo e non alternativo – costringerà quanto prima Auditel ad affrontare una rivoluzione nei metodi e nei campioni.

Una “ bomba atomica “ che – anche se per ora non si prevede che siano resi disponibili all’esterno – con la sua sola esistenza sposta gli equilibri tra le grandi emittenti. E chiama in causa l’opera dell’AGCOM per capire chi maneggerà questi dati che sono – ricordiamolo – quelli che determinano gli investimenti pubblicitari sulle emittenti.

Chi controlla l’Auditel, controlla gli spot. E chi controlla gli spot è il vero padrone delle Tv. Perciò l’Autorità delle Comunicazioni potrebbe fare 2 cose: una, un lavoro preventivo sulla trasparenza di queste procedure murdochiane ( come non fu fatto per l’Auditel ) visto che gli approcci dello Squalo ( il soprannome di Murdoch ) non tranquillizzano, in questo senso.

Sky lancia Smart Panel, l'"Auditel" di Sky.
Sky lancia Smart Panel, l'”Auditel” di Sky.
Due, molto più importante, porre all’ordine del giorno del governo la questione dell’applicazione finale della legge 249 che chiede di istituire un sistema pubblico di rilevazione degli ascolti. E’ come se nella sanità, ci fossero solo ospedali privati : va bene per chi ci vuole andare e se lo può permettere, ma gli altri? (Beh, buona giornata.)

* autore del libro “ L’arbitro è il venduto” – la radio dopo Audiradio – Bibliotheka edizioni

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Se la crisi della pubblicit

La fotografia della pubblicità italiana è stata scattata all’ultimo Festival di Cannes, che si è appena concluso. All’Italia sono stati assegnati un certo numero di Leoni, che è il nome del premio che viene assegnato sul palco del Palais.
In realtà è andata bene alle agenzie di pubblicità globali che gestiscono in Italia la quasi totalità del mercato della pubblicità, sia dal punto di vista dei messaggi che degli spazi pubblicitari. I fatturati delle multinazionali vengono ovviamente consolidati nei paesi in cui hanno sede i rispettivi quartier generali, e vanno a beneficio dei loro azionisti.

Vista poi, la crisi verticale della stampa italiana, della radio italiana, nonché della tv italiana, sia pubblica che privata, neppure dal punto di vista dei fatturati derivanti dalle inserzioni pubblicitarie si può parlare di pubblicità made in Italy. Gli investimenti su Sky, per esempio, vanno al monopolista australiano del satellite, mentre gli investimenti sul web vanno a vantaggio di player come Google o Facebook.
L’Italia “presta” spesso personale per la creazione e la veicolazione di messaggi pubblicitari di grandi marche multinazionali: per questo si sono creati gli hub per la gestione dei clienti internazionali. Però, qui da noi rimane poco di soldi, pochissimo di cultura della comunicazione commerciale.

Il convegno che Upa (l’associazione degli industriali che investono in pubblicità) ha tenuto a Milano nei giorni scorsi è stato una delusione. Nonostante gli sforzi lessicali del presidente Sassoli de Bianchi non è uscito niente di concreto. Una lamentela qui sul ritardo degli investimenti sulla banda larga; una contumelia lì su i diritti di negoziazione; un ammiccamento colà sulla funzione del servizio pubblico radiotelevisivo. Niente di più. E di più significava tracciare una corsia preferenziale per le aziende italiane, per fare in modo che la pubblicità nel suo complesso potesse essere un nuovo starter per la ripresa. Peccato, ma la situazione richiede molto di più che non essere Malgara (il predecessore di Sassoli de Bianchi alla guida di Upa), cioè portatore di una visione totalmente asservita alle logiche della tv commerciale.

In effetti, la situazione richiederebbe un salto di qualità degli utenti italiani di pubblicità, delle agenzie, delle concessionarie, degli editori: per governare codesta crisi bisogna guidare il cambiamento, non soltanto subirlo o, peggio, ricamarci intorno. Manca concretezza, e questo non è un bene. E quando manca concretezza si fatica a leggere con chiarezza i segnali, i messaggi, le tendenze che si stanno muovendo.

Per esempio, i due Grand Prix, nella tv e sulla stampa che generalmente a Cannes tracciano una nuova tendenza per la comunicazione commerciale, dicono che è finita l’era della pubblicità come intrattenimento, che si può aprire una nuova pagina fatta di concretezza, condivisione, coesione, aderenza alla realtà.

Infatti, la campagna “Unhate” di Benetton, vincitrice del Grand Prix nella stampa, (quella che mostra i capi di stato e di governo che si baciano sulla bocca, che da noi è stata vissuta con scetticismo) è una concreta presa di posizione verso il superamento dei contrasti derivati dalla politica globale.
D’altro canto, la campagna “Back to the start” di Chipotle è la storia dell’azienda inglese che smette di produrre alimenti in modo industriale per tornare a una produzione di qualità, nel rispetto dell’ambiente: la pubblicità si colloca nel trend della green economy.

Ma a guardarla bene, questa dolce e soave campagna inglese vincitrice del Grand Prix sembra una fantastica allegoria del ritorno al modo concreto, genuino, passionale, artigianale di fare pubblicità: fuori dai reticolati delle holding, dalle strettoie dei network internazionali c’è vita, passione creatività, visione, capacità.

Come reazione professionale alla crisi, negli ultimi anni sono nate in Italia alcune strutture indipendenti, spesso con eccellenti capacità non solo creative ma anche organizzative. Ma finché le aziende italiane non la smetteranno di “accodarsi” ai budget gestiti dalle multinazionali della pubblicità e non riprenderanno in mano il destino, le loro esigenze verranno sempre dopo i mega-budget globali.

Il presidente dell’Upa, Lorenzo Sassoli de Bianchi.
Mica male, no?! Beh, buona giornata.

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Pirella c’

Emanuele Pirella, 1940-2010.
Per Emanuele Pirella, la pubblicità doveva essere tangibile, criticabile, condivisibile. E un prodotto andava scelto per simpatia, per affetto, per amore, per stima della marca che lo commercializza.

Questa impostazione culturale e professionale è stata una cifra precisa, riconoscibile, direi una costante del segno che Emanuele Pirella ci ha lasciato, quando ci ha lasciato due anni fa.

E fa per niente impressione che le sue parole trovino piena cittadinanza nell’attualità: l’impoverimento culturale delle agenzie di pubblicità italiana ha toccato i minimi storici, ormai completamente fuori combattimento dal dibattito, non dico culturale, ma neppure sulla società o il costume.

E allora, alla maniera del meccanismo del rovesciamento, tanto caro alla buona pubblicità, non è stato Pirella a mancare due ani fa alla pubblicità italiana, ma l’esatto contrario: in effetti, la pubblicità italiana non c’è più, mentre VolumePills Emanuele Pirella è molto presente nella formazione culturale, nella mentalità aperta, nello stile di lavoro di chi considera il linguaggio creativo un modo stimolante per veicolare pensieri, produrre concetti, creare occasioni ghiotte di comunicazione, capaci di svicolare, surfare, sgambettare, arrampicarsi, volteggiare, scantonare in ogni media: cose che rimangano nella mente dei lettori, perché argute, intelligenti, intriganti, che esse siano lette su un autorevole quotidiano o su un sms; dette dallo speaker di uno spot o colte al volo su un twitter.

L’unica chance che la pubblicità italiana ha per tornare a essere un luogo sano sta nel sottrarsi alle evasioni di genere o alle strategie narrative postmoderne, cercando invece di dire qualcosa di intelligente, di autentico, scritto bene, sulla nostra epoca. Consapevoli di correre il rischio dell’innovazione, questo è l’impellente compito dei creativi pubblicitari italiani. Con Emanuele nel cuore. Beh, buona giornata.

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Test clinici hanno dimostrato che i testimonial non vendono.

(apparso su advexpress.it)

Stando alle ricercatrici Vicki G.Morwitz, della New York University, ed Edith Shalev, dell’Israel Institute of Technology, attualmente a spingerci all’acquisto non sarebbe affatto il desiderio di emulazione, quanto, piuttosto, la paura di essere guardati dall’alto in basso da chi giudichiamo sotto di noi e la necessità così di rafforzare il nostro ego, pareggiando l’acquisto. Va così in pezzi, ed era ora, la logica “aspirazionale” che per troppo tempo ha condizionato la creatività italiana. La qual cosa è da salutare positivamente.

Perché dovrebbe finalmente convincere tutti a porre fine alla lunga stagione dei testimonial famosi, e molto costosi, e, diciamocelo, alquanto noiosi.

Ne dà conto Simona Marchetti, che dalle pagine de Il Corriere della Sera cita un paio di esempi. Le due ricercatrici hanno sottoposto alcuni studenti newyorkesi a test mirati su alcuni prodotti. Con il risultato che questi ragazzi hanno dimostrato molto più interesse per l’acquisto di un riproduttore digitale di musica perché glielo consigliava un garzone di un negozio di alimentari, che si è dimostrato più credibile di un uomo d’affari.

Oppure, il caso di una elegante t-shirt griffata che, indossata da un commesso, invece che da uno studente di un college prestigioso, ha fatto venire loro il desiderio di acquistarla.

Insomma, se torniamo a fare cose semplici e a utilizzare persone normali nelle nostre campagne pubblicitarie, la pubblicità torna a essere credibile, i prodotti appetibili, nonostante la crisi dei consumi che attanaglia le aziende italiane.

Signori clienti e amici pubblicitari, capìta l’antifona? Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La pubblicità, il pane fresco che si fa tutti i giorni.

“Per il mio Paese faccio sacrifici. Che non mi troverei a fare se fossi un privato cittadino”. Lo ha affermato il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, nella conferenza stampa a palazzo Chigi dopo il consiglio dei ministri. “Mi hanno chiesto a che punto erano i miei denti (dopo l’aggressione di Milano, ndr). Non sono ancora riuscito a mettere l’altro dente perché – ha spiegato – ho il nervo scoperto che non guarisce. E questo per me è un sacrificio grande, un rischio a cui sono andato incontro e che, se fossi stato un privato cittadino, non avrei corso. A questo punto il presidente del consiglio ha mostrato, a bocca aperta, il dente mancante ai giornalisti.

Questo è un lampante esempio di pubblicità-intrattenimento: il prodotto si mostra al pubblico, cercando di stupire, di spiazzare. Siamo proprio sicuri che questo sia il futuro dell’advertising? Lo chiedo non solo perché la stragande maggioranza dei consumatori italiani sanno bene quanti ‘sacrifici’ bisogna fare per pagare il conto del dentista. Ma lo chiedo a chi sostiene che il futuro dell’advertising sia intrattenere e non invece informare sulle virtù della marca, attraverso gli espedienti dell’esagerazione, del rovesciamento, dell’iperbole tipici del linguaggio della pubblicità. Quegli espedienti che sono convincenti proprio perché dichiaratamente sono pubblicitari, dunque innocui, non invasivi, in definitiva accettabili. La pubblicità cerca affetto, stima, atteggiamenti positivi, come ci insegnava Pirella.

Se la pubblicità diventa coercizione del consenso sprofonda nella propaganda. La propaganda è un assordante rumore di fondo. La pubblicità è la costruzione della reputazione, esercitata attraverso il rendere pubblico le qualità dei prodotti, il talento dei marchi. Con irriverenza, ma buon gusto. Ecco perché l’intrattenimento è attività effimera, mentre la pubblicità è una cosa concreta. Insomma, tanto per rimanere in tema, sarebbe come avere il pane, ma non i denti. Beh, buona giornata.

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Il tonfo di Endemol: il format e la sostanza.

S’è rotto l’uovo di Colombo. Fare programmi a basso costo, di bassa qualità con un’ alta redditività pubblicitaria non paga più. Il tonfo di Endemol lo ha dimostrato. La televisione ha ingannato per anni gli inserzionisti pubblicitari, vendendogli format in grado di fare ascolti, che si volevano trasformati in altrettanti contatti utili alle campagne pubblicitarie. Ma a un certo punto il giocattolo si è rotto. Perché il successo di alcuni programmi era effimero, gonfiato dalle società di rilevamento dell’audience. Quando la crisi ha cominciato a picchiare duro, sono crollati i consumi, dunque le vendite, dunque gli introiti. E le grandi compagnie hanno cominciato a disinvestire in pubblicità televisiva.

Ecco la verità del tonfo di Endemol. Una verità che in Italia è ancora più rimarchevole. Pensate solo al fatto che Mediaset è la più grande compagnia del settore televisivo privato, ma è anche azionista di Auditel, ma è anche proprietaria di Endemol. Se poi non ci dimenticassimo che il capo di tutto questo è anche il capo del governo italiano, dovremmo tenere a mente che nel 2009 Berlusconi, che è anche il capo di Mediaset, di Auditel e di Endemol diceva che la crisi non c’era, poi che era alle spalle, poi che non bisognava investire pubblicità sulle testate “catastrofiste”. Risultato?

Secondo Nielsen Media Reaserch, compagnia americana operante anche in Italia, specializzata nelle ricerche di mercato, la raccolta pubblicitaria nelle tv italiane nel 2009 è scesa a -10%. Dunque, “Il Grande Fratello”, piuttosto che “Chi vuol essere milionario”, piuttosto che “Che tempo che fa”, tanto per citare solo alcuni format targati Endemol non sono riusciti a fermare la crisi dei consumi e di conseguenza la crisi degli investimenti pubblicitari in televisione. La formula secondo la quale, più abbasso la qualità più rendo fruibile la visione, più è facile inserirvi la pubblicità, più è garantito il successo delle vendite è andato a farsi friggere.

Il tonfo di Endemol non è un fatto semplicemente finanziario. E’ la prova provata della crisi di un modello di business della pubblicità. Se i consumatori se ne sono accorti, tanto da non dare più retta ai “consigli per gli acquisti” in tv; se i telespettatori se ne sono accorti, tanto da non accordare gli stessi livelli di audience; se gli investitori se ne sono accorti, tanto da penalizzare la tv a favore di internet; quello che stupisce è che non se ne siano accorti in tempo Goldman Sachs, Mediaset e Jon De Mol. Ma forse no. Dopo le “bolle speculative” cui siamo stati abituati, cosa volete che siano le “balle speculative” che sono state raccontate in questi anni ai consumatori, ai telespettatori e agli investitori pubblicitari?

Insomma, il vero reality show non è andato in onda nelle case dei telespettatori, è andato in sala riunione delle case produttrici di prodotti e servizi, ingannati dalla facilità con la quale gli si potevano vendere mediocri programmazioni televisive, da farcire con mirabolanti pianificazioni pubblicitarie. Beh, buona giornata.

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La ricerca di nuovi clienti nella pubblicità italiana.

Se per un buon giornalista la notizia non è che un cane ha morso un uomo, ma è che un uomo ha morso un cane, per un buon pubblicitario le cose stanno così: immaginate un mandria di
cavalli, al galoppo nella prateria. Adesso figuratevi che tra i cavalli selvaggi al galoppo ci sia una zebra. Uno si chiederebbe: che ci fa una zebra in una mandria di cavalli? Il creativo, invece, rovescerebbe la domanda: che ci fa una mandria di cavalli intorno alla zebra? Si chiama meccanismo di rovesciamento, serve a dare una notizia, sorprendendo l’ascoltatore, il telespettatore, il navigatore, il lettore.

Lo so, lo so: la pubblicità sorprendente in Italia non è di moda, anzi, si pratica il banale conformismo della ripetizione. Così che invece che di cavalli, meglio sarebbe parlare di somari.
Ma, tornando ai cavalli, mi sembra una buona metafora che possa descrivere come si fa new business, cioè si cerca di conquistare nuovi clienti nel nostro mercato della comunicazione
commerciale.

Ecco la metafora.
Non ci sono più cavalli selvaggi da domare: il mercato è saturo, non si affacciano alla comunicazione nuovi soggetti, cioè scarseggiano prodotti innovativi, nuovi territori per le marche.
Le ‘giacche blu’, cioè le multinazionali, nell’era della globalizzazione continuano a usare il 7° cavalleggeri dei grandi network: lenti, polverosi, gnucchi e scomodi, come Forte Apache.
Comandati da testoni presuntuosi e perdenti, come il generale Custer. Ma, nella speranza che la tromba suoni la carica e prima o poi “arrivano i nostri”, continuano a mandare messaggeri a Forte Apache. Quelli però stanno facendo le grandi manovre nel cortile e prima che partano in formazione da combattimento per risolvere i problemi dei coloni, pardòn, dei clienti, quelli i clienti hanno già perso lo scalpo.

Poi nel mercato italiano ci sono piccole tribù, che si rifiutano di finire nelle riserve. E allora che fanno? Siccome cavalli liberi non ce ne sono più, e avvicinarsi a Forte Apache è pericoloso e
dispendioso, allora strisciano nella prateria, aspettando il momento buono per rubare i cavalli alla tribù vicina. La quale si incazza, maledice la sfiga. E poi che fa? Striscia nella prateria, aspettando il momento buono per rubare i cavalli alla tribù vicina. Io rubo a te, che tu rubi a me. Il fatto è che a ogni scorreria, il valore della mandria rubata si assottiglia.

Forse, bisognerebbe fare come Geronimo, cioè fare un consorzio di creativi, mettere d’accordo le piccole tribù e provocare una sonora Little Big Horn e addio i generali Custer e tanti saluti ai
Forte Apache. Ma questo è tutto altro film. Beh, buona giornata.

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Freedom House: in Italia la televisione fa molto male all’informazione.

Giornalismo, rapporto Usa: solo grazie a giornali e internet in Italia informazione parzialmente libera: colpa della tv-blitzquotidiano.it

L’informazione italiana continua a essere “parzialmente libera” anche se i giornali stampati e internet sono totalmente liberi, a causa della pesante concentrazione nel campo della tv e la crescente interferenza da parte del governo nelle scelte editoriali del servizio pubblico televisivo. Lo afferma il rapporto annuale di Freedom House, un’organizzazione americana che monitora sin dal 1980 la libertà di stampa a livello mondiale.

Si tratta di un giudizio che fa della tv il centro dell’informazione di un paese e non dà il giusto peso che hanno i giornali e in misura crescente i siti internet nella informazione della opinione pubblica. I giornali in Italia sono liberi, ognuno può scrivere quello che vuole anche se nessun giornale ospiterebbe stabilmente articoli di collaboratori di tendenza contraria a quella del giornale stesso.

Questo vale per tutti i giornali, anche quelli che si sostengono unici difensori della libertà di stampa, ed è anche codificato dalla gurisprudenza e dal contratto di laovro nazionale dei giornalisti. Difficilmente un giornalista di destra potrà lavorare secondo le sue idee in un giornale di sinistra e viceversa.

Oggi comunque, grazie alla moltiplicazione delle fonti di informazione e alla caduta delle barriere d’accesso dovute a internet, è possibile formarsi una opinione abbastanza ampia su ogni evento.

Per quanto riguarda la tv, non era necessario che ce lo dicessero gli americani, perché lo sapevamo da noi, comunque, secondo il rapporto, il nostro Paese resta la nazione con il più alto tasso di concentrazione dei mezzi di comunicazione tra quelle dell’Europa occidentale e questo appunto è dovuto al fatto che una sola persona, Silvio Berlusconi, controlla direttamente, con Mediaset, tre delle dodici reti tv nazionali e, almeno temporaneamente, in quanto capo del governo, due delle tre reti e due dei tre tg della Rai.

Ancor più sbilanciata appare la situazione in campo televisivo se si considera che tra Rai e Mediaset occupano il 90% dell’audience e della pubblicità televisiva.

Come l’Italia, per quanto riguarda la libertà di stampa, in Europa, ci sono solo i paesi balcanici e quelli dell’Est, come Croazia, Bosnia, Serbia, Montenegro, Macedonia, Bulgaria e Romania. (Beh, buona giornata).

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Metti un immigrato nello spot.

La Cassazione ha deciso niente adozione per quelle coppie che fanno distinzione di pelle tra i bambini. Infatti, la procura della Cassazione dice no a chi vuole essere genitore dichiarandosi indisponibile a ricevere bimbi di pelle nera o di etnia non europea.

La procura della Suprema Corte, sollecitata da un esposto dell’associazione ‘Amici dei bambini’, ha espresso questo orientamento innanzi alle Sezioni Unite che dovranno prendere posizione al più presto. Sono certo sia una decisione saggia, oltre che, evidentemente legalmente ineccepibile, essendo la Cassazione a emanarlo.

Suggestionati da bislacche tesi politiche, alla spasmodica ricerca dei piani bassi del consenso elettorale, gli italiani sembrano aver smarrito il senso del reale, non dico il senso della Storia, ma almeno quello della Geografia: siamo un Paese in mezzo al Mediterraneo, sicché ne abbiamo avuto di immigrazioni, a cominciare dai tempi della Magna Grecia.

Per non parlare delle immigrazioni indo-europee. Una volta Indro Montanelli ebbe a dire che nessuno in Lombardia potrebbe essere certo che un lanzechenecco non si sia coricato, almeno una volta, con l’antenata di una delle nostre nonne.

Ciò non di meno, a Rosarno, in Calabria, normali cittadini si sono fatti ku klux clan contro gli africani, salvo scoprire che la rivolta di gennaio era stata provocata proprio dagli schiavisti delle arance: la magistratura ha disposto una ventina di arresti tra capi clan e caporali del lavoro nero.

Ciò non di meno a Treviso, una masnada di giovinastri dell’estrema destra neo-nazi, al canto di ‘sbianchiamo Samir’ costringono una giovane fanciulla africana e i suoi amici ad abbandonare un bar del centro storico, per evitare risse. Gli avventori hanno scritto ai giornali scandalizzati, il proprietario ha fatto il vago.

Che il nostro Paese abbia bisogno di una dose forte di ragionevolezza è un fatto acclarato. Gli immigrati esistono. Essi vivono, lavorano e consumano fra noi. Essi consumano, dunque spendono. Infatti una primaria compagnia telefonica fa campagne pubblicitarie nelle loro lingue. Ho visto anche che una primaria marca italiana di merende per bambini fare campagne nelle loro lingue.

E allora, facciamo una cosa utile alla convivenza civile e magari anche al business dei nostri clienti: essi esistono, lavorano, portano i bimbi a scuola, vanno nei negozi. È giunto il momento che ‘essi’ vengano presi in considerazione anche nei ‘casting’ degli spot pubblicitari.

Noi italiani siamo multietnici dalla nascita, di che cosa abbiamo paura? Nelle scuole, nei mezzi pubblici, nelle nostre case, nei supermercati ‘essi vivono’, spendono, consumano, comprano.

Bisogna rappresentarli, magari quei coglioni di razzisti, quelli ‘che io non sono razzista, però…’ guardando lo spot, l’annuncio, l’affissione si rendono conto che quelli strani non sono ‘essi’, ma loro stessi. Beh, buona giornata.

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Pubblicità in crisi: anche Havas di Bollorè perde.

E’ stato approvato il 23 marzo, il bilancio 2009 di Havas Group. Le revenue del Gruppo guidato da Vincent Bolloré si sono attestate a 1,441 miliardi di euro, in calo dell’8,1% sul 2008. La crescita organica annuale ha segnato un -7,9%.

Nel quarto trimestre dell’anno le revenue sono state di 415 milioni di euro, con crescita organica a -4,4%, con un significativo miglioramento rispetto al precedente trimestre. I ricavi netti di Gruppo ammontano a 92 milioni, la posizione finanziaria netta al 31 dicembre 2009 era di 48 milioni, dopo un debito netto di 79 milioni a fine 2008. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Pubblicità e mass media: il medium cambia, cambiamo il messaggio.

CENSIS E MEDIA La crisi seleziona:su i prodotti gratuiti e i social network-di FRANCESCO PICCIONI, Il Manifesto

Il messaggio batte il /medium/, McLuhan non abita più questo mondo.
L’ottavo rapporto del Censis sulla comunicazione («I media tra crisi e metamorfosi») registra e tematizza i cambiamenti più rilevanti nell’arco degli ultimi 10 anni. E decreta, in parte, «la rivincita dello spettatore», che non accetta più di esser preda dell’«ipnotismo televisivo» e passa all’«azione diretta».

I diversi media diventano relativamente indifferenti, di fronte a una ricerca di informazione e socializzazione (sia pure virtuale) che vede il singolo teso a soddisfare i propri interessi saltando a pie’ pari la mediazione del produttore di contenuti. Almeno all’apparenza, perché – nell’indescrivibile quantità di informazioni disponibili – «risulta sempre più difficile cogliere il confine tra verità e finzione, tra eventi del mondo reale e prodotti della fantasia».

Questo individuo-agente, infatti, è a sua volta un prodotto. Di un lungo processo sociale di «affermazione del primato del soggetto», per un verso, della disponibilità a basso costo delle tecnologie digitali, per l’altro. In ogni caso, rappresenta solo una metà della società italiana, per lo più giovanile o con buoni livelli di istruzione; che convive con una quota altrettanto rilevante di «vittime del /digital divide/», escluse per età, reddito o formazione dall’uso di questi media. Ma entrambe le metà convergono nel momento in cui solo un soggetto è chiamato a garantire la «verificabilità» delle informazioni: la tv. La ricerca conferma che «ad orientare le scelte di voto della grande maggioranza degli italiani sono i telegiornali delle tv generaliste nazionali».

La conclusione è solo apparentemente paradossale, perché l’effettiva totale libertà individuale – nel reperimento delle informazioni secondo una personale scala di priorità, nella formazione dell’opinione – si scontra con due limiti ineliminabili: l’individuale /capacità di discernere/ (cultura, livelli di istruzioni, esperienza) e l’/attendibilità/ delle informazioni (comunque «confezionate» da altri).

Proprio la modalità di fruizione dei contenuti digitali (rapide, spesso casuali, im-mediate) brucia quello che Giuseppe De Rita chiama «il prefisso ‘ri’ (riflettere, ritornare, ripensare)», identificato da sempre come «il fondamento della cultura». Tradotto: nella giungla delle informazioni digitali ci si muove senza più una guida. Finché non la si ritrova sullo schermo che tutto riunisce: quello televisivo.

La crisi economica ha accelerato questi processi. Creando ora anche un /press divide/, una massa crescente di persone che ha eliminato la stampa su carta dalla propria «dieta mediatica»: il 39,3%. Non solo analfabeti di ritorno, ma anche giovani e adulti istruiti. Se infatti il numero di quanti usano internet si è stabilizzato (47%, crescerà ormai solo con il normale «tasso di sostituzione generazionale»), si è intensificato il suo utilizzo a scapito della stampa (dal 6 al 12,9%) – e persino della /free press/ – con i quotidiani che hanno visto calare le vendite del 15% in soli due anni. Soprattutto, la crisi ha favorito «l’espansione dei mezzi gratuiti e la sostanziale battuta d’arresto di quelli a pagamento». O meglio, ha favorito quei media che permettono di avere il massimo di servizi informativi col minimo di costi economici.

Quindi sì all’Adsl e alla tv a pagamento (con boucquet che coprono tutti gli interessi familiari, dal calcio ai cartoon, ai serial); sì ai cellulari, ma solo nelle versioni /basic/ (telefonate e sms); sì soprattutto alla radio (+12,4%), che copre in buona parte i bisogni di ben 13 milioni di pendolari. Sopravvivono i libri, ma molto ci sarebbe da dire sullo «spessore» di quelli che «vendono». La tv, si diceva, raggiunge proprio tutti (98%); ma via web ha triplicato gli adepti in due anni. L’ampliamento delle scelte possibili fa della rete il medium ideale di chi vuole «agire». Lo svluppo impetuoso dei /social network/ (Facebook, YouTube, Messenger, ecc) risponde a un’esigenza di socializzazione attiva che è già una reazione all’isolamento individuale.

Ma cambia radicalmente anche il modo di pianificare il marketing (qualsiasi produttore professionale di contenuti, in rete, sopravvive solo grazie alla raccoltà pubblicitaria). Il fenomeno era «preesistente alla crisi economica, che però lo ha sottolineato».

Per Marco Ferri, del Consorziocreativi, «è il momento di capovolgere il paradigma, e lo devono comprendere anche le imprese: quando decidono un budget prima si devono comprare una buona idea, e poi vedere come veicolarla, non viceversa». Vale anche per i quotidiani: «chi indovina la nuova formula fa bingo, gli altri…». (Beh, buona giornata)

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Televisioni italiane: è scoppiata la guerra. Si salvi chi può.

Calabrò: “Rai anche su Sky se indispensabile” Mediaset, ricorso contro la chiavetta digitale
Il gruppo del Biscione denuncia all’Antitrust la distribuzione dell’apparecchiatura “contraria alla normativa comunitaria e nazionale in materia di concorrenza”-repubblica.it

Si riaccende la guerra delle tv. Da una parte Corrado Calabrò, presidente dell’Agcom, chiarisce che la Rai deve stare anche su Sky “se indispensabile”, per consentire a tutti gli utenti di vedere i programmi. Dall’altra Mediaset ricorre all’Antitrust contro la chiavetta di Sky per il digitale terrestre. La replica dell’emittente di Murdoch è immediata: “E’ solo un modo per garantire a milioni di famiglie la possibilità di fruire dell’offerta digitale in chiaro sul digitale terrestre”.

A margine dell’audizione in commissione di Vigilanza, dove ha presentato le linee guida del nuovo Contratto di servizio, Calabrò ha affermato che la Rai “potrà stare su tutte le piattaforme commerciali” e invece “dovrà stare su tutte le piattaforme tecnologiche, quindi anche sul satellite”, così da consentire a tutti gli utenti di vedere le trasmissioni. E quindi “se Sky in una zona è indispensabile, la Rai deve starci nel periodo transitorio”, limitandosi a criptare “proprio il minimo” delle sue trasmissioni. Il tutto in questa fase di transizione che secondo quanto stabilito a livello europeo dovrà portare al digitale in tutta Italia entro il 2012.

In questo lasso di tempo le cose potranno cambiare, ha spiegato ancora Calabrò, rispondendo a una domanda dei giornalisti, in relazione alla diffusione di TivùSat (la
nuova piattaforma satellitare creata da Rai, Mediaset e Telecom Italia Media, ndr): “Vedremo che copertura sarà stata assicurata da TivùSat”, ha concluso. In buona sostanza, qualora la Rai decidesse di oscurare Rai1, Rai2 e Rai3 su Sky prima del 2012, l’Agcom valuterà “la copertura altrimenti assicurata sul satellite” del servizio pubblico.

L’ordine dei canali. L’Agcom si occuperà dell’ordine dei canali sul telecomando del televisore nella prossima seduta di giovedì 19 novembre. ”Ne avremmo fatto volentieri a meno ma – ha detto Calabrò – la questione non si è risolta. Ce ne occuperemo quindi nella prossima seduta”. Allo studio, tra le altre, l’ipotesi di obbligare chi fabbrica televisori a produrre un telecomando dotato di guida elettronica ai programmi, tecnicamente ‘Epg’.

Il ricorso di Mediaset all’Antitrust. Il ricorso di Mediaset, si legge su un comunicato della società, è motivato dal fatto che “la distribuzione da parte di Sky di questa chiavetta è contraria alla normativa comunitaria e nazionale in materia di concorrenza e costituisce una violazione degli impegni assunti nel 2003 da Newscorp in occasione della concentrazione delle attività di Telepiù e Stream”.

“Le norme Antitrust, infatti – prosegue Mediaset – non consentono a un’impresa dominante di ostacolare l’ingresso sul mercato di concorrenti mediante vendite abbinate o aggregate dei propri prodotti”. Inoltre per Mediaset, il fine della digital key, che non consente l’accesso né ai servizi interattivi né ai contenuti a pagamento, “è quello di frenare la diffusione sul mercato di decoder che consentano di ricevere i programmi a pagamento e i servizi interattivi di altri operatori. Il tutto evidentemente a danno dei consumatori che vedranno così limitata la loro possibilità di scelta a livello di offerta e di contenuti”.

A stretto giro la replica di Tom Mockridge, amministratore delegato Sky: “La Digital Key è una semplice iniziativa di Sky che garantirà a milioni di famiglie la possibilità di fruire dell’offerta in chiaro sul digitale terrestre in modo facile ed efficace”.

E Mockridge passa al contrattacco sulla tendenza oligopolistica di Mediaset: “Si tratta di uno strumento che aiuta il processo di digitalizzazione del paese offrendo un servizio per i consumatori in un mercato in veloce sviluppo. Uno sviluppo che, evidentemente, non è facile da accettare per un gruppo come Mediaset che per molti anni è stato, ed è ancora oggi, il principale soggetto privato operante in Italia nella televisione commerciale e dominante nel mercato della pubblicità”.
(Beh, buona giornata).

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Quello che può fare la pubblicità per uscire dalla crisi.

Creativi anti-crisi: arriva l’agenzia di pubblicità di nuova generazione-di Jacopo Orsini-ilmessaggero.it

Uno dei fondatori lo definisce un «aggregatore di capacità». Una struttura leggera, «senza spargimento di costi», in grado di svolgere tutte le attività di comunicazione commerciale. Ma anche un «fornitore di idee» che le aziende potranno poi gestire con la loro struttura di pubblicità. Si chiama Consorzio creativi ed è un nuovo modo di concepire l’agenzia di pubblicità ai tempi della crisi.

«Le aziende hanno grandi difficoltà ad avere rapporti con le agenzie, che con la crisi si sono impoverite e annaspano», dice Marco Ferri, uno dei fondatori di Consorzio creativi. Il ciclone che ha investito l’economia mondiale infatti non ha risparmiato la pubblicità. I grandi marchi hanno tagliato fortemente gli investimenti (-16% nei primi nove mesi dell’anno secondo i dati di Nielsen Media Research) e anche le agenzie sono state costrette a ridurre costi e personale per non soccombere. Da qui l’idea di creare una nuova organizzazione più snella, senza i costi delle grandi holding, con l’ambizione di rivoluzionare il settore.

Il gruppo è composto da una rete di professionisti, tutti con parecchi anni di esperienza alle spalle (con Ferri i fondatori sono Paolo Del Bravo, Fabrizio Sabbatini, Agostino Reggio, Francesca Schiavoni e Paolo Costa). Un desk a Roma, un altro in fase di apertura a Milano. Via le strutture gerarchiche e burocratizzate dei grandi nomi del settore, ecco gruppi di lavoro che si creano intorno ai progetti concordati con le aziende e si sciolgono subito dopo. E attenzione concentrata soprattutto sui settori in via di sviluppo, come le energie rinnovabili.

Ma la crisi, inevitabilmente, dopo aver fatto crollare le vendite, modificherà anche il modo di comunicare e di fare pubblicità. Non capire che il mondo è cambiato, sarebbe rischioso anche per i pubblicitari. «Il nosto compito non è solo riempire di prodotti le case dei consumatori – spiega ancora Ferri -. La comunicazione commerciale deve informare in maniera corretta e non intrattenere trastullando». (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Tv terrestri contro tv satellitari: è scoppiata la guerra dei mondi.

Te lo dò io il decoder: se l’Antitrust indaga sull’Auditel-di Giulio Gargia *

L’Antitrust ha aperto un’indagine sull’Auditel, accusato di monopolio delle rilevazioni dell’audience . Ma la notizia non è tanto questa. Si trattava di un atto quasi dovuto, visto che chi lo chiedeva era Sky, stanca di essere presa in giro dai continui rimandi del comitato tecnico di Auditel. La stessa richiesta era stata fatta – qualche anno fa – da associazioni come Megachip e Articolo 21.

Ora che anche Murdoch, per i suoi interessi, vuole una riforma del sistema, è più difficile per l’Antitrust traccheggiare, come ha fatto in questi anni. Ma la vera notizia è un’altra: che all’Auditel , con l’avvento del digitale per tutti, non sanno più che pesci prendere. Ovvero come fronteggiare l’avvento dei diversi telecomandi che in ogni famiglia servono a vedere tutte le Tv che viaggiano nell’etere. Ricordiamo che il metodo della rilevazione statistica dell’Auditel, con il panel di 5100 famiglie campione che decide i gusti degli italiani, è stato già pesantemente messo in discussione , per motivi sostanzialmente pratici, e definito come inattendibile da più parti. Ora, con l’arrivo dei decoder obbligatori, le cose si complicano ancora. Prendiamo una normale serata Tv di una famiglia- campione, una di quelle che determinano gli indici Auditel, e quindi il successo o l’insuccesso di un programma.

La signora Giuseppina guarda la Tv in cucina, su un apparecchio dove non è stato ancora sistemato il decoder , e dunque non prende, in mezza Italia, né Rete4 né Rai 2. Se c’è un programma che vuol vedere su queste reti, deve spostarsi in soggiorno, dove invece il decoder c’è, ma in quel momento è occupato da Marco, il figlio, che sta vedendo i cartoni animati con un suo compagno. La signora Giuseppina dice allora ai ragazzi di andare a vedere i loro cartoons in cucina, mentre lei si godrà Emilio Fede digitale.

Ma c’è un altro ostacolo: il meter dell’Auditel, che – come ogni volta che si cambia programma – inizia a lampeggiare chiedendo : “ Stesse persone ? “ . La signora allora cerca il comando del meter, ma non lo trova perché i ragazzi lo hanno disperso da qualche parte tra i cuscini del divano. Intanto, l’acqua inizia a bollire e la signora si ritrasferisce in cucina, mentre il meter continua a pulsare senza esito. Buttata la pasta, suonano al campanello, e arriva Giorgio, il marito, che si piazza davanti alla Tv del soggiorno. Vede il meter che lampeggia e , ben addestrato, trova il comando tra i cuscini e schiaccia il tasto “si”.

Così, il meter registra che Emilio Fede è stato visto da 2 ragazzini di 8 anni che stavano invece vedendo i loro Simpson su Italia Uno. Giorgio, nell’attesa della cena, cambia canale e passa su Minzolini. Per potersi godere uno dei suoi editoriali senza interferenze del meter, deve però ritrovare l’altro telecomando, quello del decoder, che la moglie si è portata con sé in cucina appena ha capito che le stava tracimando la pentola. Il marito, allora, va in cucina. “ Pina , è pronto ? “ chiede. “ Due minuti, comincia a chiamare Riccardo, sta in camera sua”, prende tempo la signora. Giorgio, dimenticato il telecomando, attraversa il corridoio e trova l’altro figlio che sta alla sua scrivania davanti al computer, dove sta vedendo Blob su RAI 3 , scaricando un brano degli U2, e chattando con la sua fidanzata di Barcellona.

In questo quarto d’ora tipo di una famiglia campione, non un solo spettatore Auditel è stato correttamente registrato. Una situazione già presente e molto criticata prima, ma che il digitale obbligatorio ha reso ancora più complicata. Oggi, e fino al 2012 quando sarà completata la transizione, una famiglia può avere un telecomando per il digitale terrestre, uno per il satellite Sky, uno per quello RAISET, un altro per la Tv tradizionale, e infine uno per l’IPTV, quella via computer. A questo bisogna aggiungere – per la rilevazione corretta dei dati – il meter dell’Auditel, che implica un altro apparato completo di simil-telecomando per registrarsi ogni volta che si cambia canale.

Le richieste della Tv di Murdoch chiedevano di adeguare le rilevazioni a questa situazione di estrema confusione, contando di ricavarne un vantaggio in termini di proprio audience. “Il procedimento, avviato alla luce di una denuncia presentata da Sky Italia, dovrà verificare se la società abbia assunto un atteggiamento dilatorio o ostruzionistico nei confronti delle proposte avanzate da Sky per migliorare la rappresentatività dei dati rilevati”, dice l’Antitrust in una nota.

Ma il problema non è solo quello di chi sapere chi vede e che cosa. Con il decoder, diventa anche quello di sapere chi NON vede più quello che vedeva prima. E’ notizia di una decina di giorni fa l’istituzione dei “ volontari del decoder” . Ragazzi che – pagati dalla provincia autonoma di Trento – dalla primavera scorsa di lavoro fanno proprio questo: installano decoder a domicilio, gratis, agli over 75. Una fascia di persone che con la tecnologia, anche quella semplice, non va tanto d’accordo. Pare che ne abbiano usufruito in oltre 6.000. Ma l’Italia non è il Trentino, e dobbiamo quindi immaginare cosa stia succedendo in Piemonte, Lazio , Campania e nelle altre regioni già tutte o parzialmente digitalizzate, dove gli “angeli del decoder” non arrivano. Ma l’Auditel tutto questo non lo sa, e continua a registrare i suoi presunti ascolti su cui si fanno palinsesti e programmi. Chissà se e quando l’Antitrust arriverà laddove il buon senso, l’osservazione pratica e perfino Franceschini in campagna per le primarie sono giunti da tempo: dichiarare superato questo meccanismo e voltare pagina. Farebbe un gran bene a tutti, in primis ai telespettatori. (Beh, buona giornata)

• Autore del libro “ L’arbitro è il venduto “ – Audiradio, Auditel, Hit Parades, Audiweb, Audisat
di Editori Riuniti , insegna Giornalismo Internazionale all’Università L’Orientale di Napoli

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media Società e costume

Consumare meno, consumare meglio. La crisi insegna.

(fonte:repubblica.it)
La crisi cambia il consumo e gli italiani fanno di necessita’ virtu’. Guariti dalla smania dell’acquisto i cittadini hanno imparato a comprare meno, meglio e ottenere piu’ soddisfazione dalla spesa “competente”. E, dall’equazione “piu’ consumi uguale piu’ felicita'” si e’ passati alla formula “meno consumo piu’ vivo meglio” (79,7%). Il ritratto del nuovo consumatore e’ stato dipinto dall’Osservatorio sui consumi degli italiani, indagine annuale di Consumers’ Forum, l’associazione che riunisce le maggiori associazioni dei consumatori e le piu’ grandi aziende italiane, curata da Giampaolo Fabris e Ipsos e presentata stamane in occasione del decennale. “I consumatori sono diventati piu’ esperti, chiedono alle aziende piu’ qualita’ e alle associazioni che li rappresentano piu’ presenza”, ha spiegato Sergio Veroli, presidente di Consumers’ Forum. “Il nuovo consumatore e’ per necessita’ piu’ attento a non sprecare, al rapporto prezzo-qualita’ e piu’ responsabile verso l’ambiente. In altri termini, si puo’ definire un consumatore virtuoso”. Beh, buona giornata.

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Attualità Media e tecnologia Pubblicità e mass media Salute e benessere

Aspettando il vaccino contro la pandemia della mezza bugia.

Nel tentativo di tranquillizzare l’opinione pubblica, il vice ministro del Welfare, con delega alla Salute, ha detto: “Sono 16 o 17 le vittime italiane ad oggi – ha detto Fazio – contro 44 vittime in Francia, 137 in Gran Bretagna, 63 in Spagna. In Europa sono 317 su 500 milioni di abitanti, un’incidenza di 0,062 per 100.000, mentre in Italia la media è 0,027 per centomila, quindi la metà”.

Veda, caro vice ministro, se lei cita con esattezza le vittime in Europa e le percentuali al millesimo, perché dice che in Italia “sono 16 o 17”?
Sa com’è, uno si preoccupa, non tanto dell’influenza maiala, ma del pressappoco con cui si sta affrontando la situazione. Tanto per fare un esempio, tra 16 e 17 vittime, magari ce n’è una che neanche viene calcolata. Senza contare quel “ad oggi”,che come minimo porta sfiga. Beh, buona giornata.

P.s.: E’ per questo pressapochismo che il governo italiano ha fatto una campagna per la prevenzione dell’influenza A/H1N1 con Topo Gigio?

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Pubblicità italiana: una buona notizia.

Il settimanale L’espresso del 29.ottobre 2009 scrive, a firma di F:S.:
Creativi on demand. Si definisce la “prima agenzia di nuova generazione”. Senza “spargimento di costi” e leggera nella struttura, nessuna piramide di gerarchie, ma orizzontale nei rapporti: è Consorzio Creativi, a Roma e a Milano. Una novità per dare risposta alla crisi economica che ha investito anche la pubblicità: a fronte di ogni briefing ricevuto o concordato col cliente, si forma un gruppo di lavoro, che segue tutte le fasi del progetto. Concluso il lavoro, il gruppo si scioglie, per riformarsi a una nuova richiesta (www. consorzio creativi.com).
Beh, buona giornata.

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Crisi della pubblicità: quella gran voglia di dire che il peggio è passato contagia anche Google.

Google registra una crescita del fatturato del 27% nel terzo trimestre del 2009, segno dell’inizio della ripresa nel mercato del search. Secondo Eric Schmidt, Ceo di Google il peggio della crisi economica sia passato.

“Nonostante vi sia ancora molta incertezza sulla velocità della ripresa, crediamo che il periodo peggiore sia finito”, ha dichiarato Schmidt. Il fatturato netto derivante dal search engine si è attestato a 1,64 miliardi di dollari, rispetto all’1,29 miliardi di un anno fa. Le revenue sono di 5,94 miliardi di dollari, ovvero a +7% sullo stesso periodo del 2008.

Il search advertising è considerato un buon indicatore del sentiment generale del mercato. L’impatto degli investimenti nel search è misurabile con precisione e proprio dai dati ottenuti Google evince che le aziende stanno ora lentamente incrementando il loro spending nel search.

Dal punto di vista di Google, la migliore performance del search segnala un ritorno alle assunzioni, alle acquisizioni e agli investimenti.

Tra le categorie ad aver registrato le performance più positive nel terzo trimestre del 2009 troveremmo: le campagne pubblicitarie per le automobile e per le assicurazioni.

Ancora in flessione invece Viaggi e Finanza. La Finanza, paragonata con un il terzo trimestre del 2008 risulterebbe particolarmente positiva. Il dato si evincerebbe da una improvvisa impennata degli investimenti, forse relativa a un momento magico della comunicazione finanziaria. Ma non è affatto detto che possa essere un indicatore duraturo della ripresa. Con buona pace delle migliori intenzioni di Eric Schmidt. Beh, buona giornata.

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