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La sconfitta della sinistra-governo.

Con la sconfitta della sinistra di governo si chiude un ciclo storico.

Quando nacque la Lega Nord, che nonostante abbia recentemente cassato il riferimento geografico per prestidigitazioni elettoralistiche è pur sempre il più “settentrionale”partito rappresentato in Parlamento, la politica italiana e di conseguenza i media ebbero un atteggiamento di scherno e repulsa.

La qual cosa determinò due fenomeni: favorì il suo radicamento tra i ceti popolari, a cominciare dalla classe operaia del triangolo di industriale; spinse la Lega nelle braccia della destra ciarlatana di Berlusconi, “sceso in campo” per salvare il suo perimetro di business della tv commerciale. Che poi divenne un partito, Forza Italia, che riuscì a governare, aggregando pezzi della vecchia Dc, qualche ex socialista, i radicali di Pannella e sdoganando la destra fascista, guidata da Fini.

La sinistra, comunista e socialista di allora commise l’errore storico di non raccogliere le istanze sociali dell’elettorato leghista, non capendo che il secessionismo fiscale era una semplice forma di protesta, non la sostanza delle aspirazioni della base leghista, che invece intuiva il pericolo che il progressivo crollo dei pilastri del welfare avrebbe impoverito la capacità di difendere il reddito.

Quel pericolo divenne via via certezza. Il crollo del CAF (I’accordo Craxi-Andreotti-Forlani), che fu il periodo di più alto accumulo di deficit pubblico, fu poi spazzato via da “Tangentopoli” favorì la nascita del berlusconismo. I cui governi favorirono le classi medio alte, oltre che i suoi interessi aziendali. Le tasse non scesero, i salari non aumentarono, il welfare continuò la sua lenta e inesorabile logoramento.

All’errore storico di sottovalutare le spinte centrifughe dalla coesione sociale prodotte dalla Lega di Bossi, si aggiunse la scelta letale di abbandonare l’idea del partito di lotta per imboccare la via a senso unico del partito di governo. Infatti per due volte Prodi tentò di sistemare i conti pubblici, non senza assegnare “sacrifici” al lavoro e allo stato sociale. Ogni volta che avrebbe voluto dare vita alla “fase 2”, cioè una qualche redistribuzione della ricchezza, fatalmente cadde. Per via del “fuoco amico” della sinistra alleata al centrosinistra.

Col Pd, il centrosinistra va al governo dopo il disastro dell’ultima compagine berlusconiana. Ma continua a essere forza di governo e non più protagonista e interlocutore del profondo disagio, dell’impoverimento, dell’insicurezza sociale: è nella miscela esplosiva, composta da meno stato sociale e meno reddito, che vien fuori, in tutta la sua pirotecnica forza distruttiva, il movimento di Grillo.

E di nuovo l’errore storico si riaffaccia nella linea politica del Pd: sottovalutazione delle radici sociali del M5s, denigrazione, mancanza di una vera e propria strategia per gestire le contraddizioni che le politiche neoliberiste hanno prodotto nel tessuto sociale, fina a strapparne a brandelli la stessa idea di democrazia.

Gli errori storici del Pd vengono da lontano, ma, al contrario di quello che sosteneva Togliatti, non vanno lontano. Si sono fermati domenica 4 marzo.

La debacle elettorale marca a fondo la sconfitta dell’idea della “sinistra di governo”.

Dalla teoria del “compromesso storico” che diede vita al “governo di unità nazionale” propugnato da Moro e Berlinguer,ma guidata da Andreotti, fino all’esperienza dell’Ulivo di Prodi, per arrivare al Pd di Renzi, la lunga marcia di avvicinamento al potere ha lasciato dietro di sé, sempre più distanti, milioni di italiani che riponevano nelle idee incarnate dalla Sinistra la speranza, ma anche la convinzione di una sempre realizzabile uguaglianza sociale.

È successo l’esatto contrario: proprio negli anni del cosiddetto “renzismo”, la fotografia mostra ricchi più ricchi e poveri più poveri. I famosi “80 euro” sono stati la paghetta che ha confermato in pieno la sensazione in molti della propria condizione miserevole.

D’altro canto, il declino della sinistra di governo ha travolto come una valanga anche le esperienze della sinistra meno istituzionale – detta “radicale” con un ossimoro inventato da Bertinotti – fino alla sinistra antagonista, come si definisce l’arcipelago dei sindacati di base, dei centri sociali, delle associazioni che si occupano del sociale.

Il definitivo sganciamento dalla complessità sociale della sinistra di governo ha fatto insorgere un sentimento minoritario tra i giovani, i lavoratori più coscienti, i militanti della vertenza sul diritto all’abitare. In un primo momento si è anche creduto possibile un dialogo tra la sinistra antagonista e parte del M5s. Ma poi le strade si sono biforcate.

Oggi la situazione è che le spinte sociale della Lega sono andate spedite a destra. Quelle del M5s al centro, pur con un linguaggio estremista, che via via tenderà a stemperarsi.

Con la sconfitta della sinistra di governo, si chiude un ciclo.

La Sinistra, in tutte le sue espressioni politiche, culturali e sociali è in crisi. Il neoliberismo, forma della propaganda economico-politica del Capitalismo, è riuscito nell’intento di capovolgere il paradigma della lotta di classe, conquistando un vantaggio competitivo sugli stessi sentimenti dei ceti sociali più numerosi e a basso reddito. Non è successo solo in Italia.

Il problema è che in gioco non c’è la tattica migliore per andare al governo, al Parlamento, o nei consigli regionali o comunali. Né è in gioco cosa fare per conquistare spazi di rappresentanza nelle istituzioni.

L’odierno “Che fare?” riguarda quale risposta dare alla domanda di giustizia sociale. Cioè quale capacità critica del sistema capitalistico sia possibile sviluppare, in teoria e in pratica.

C’è un unico modo concreto per capirlo, teorizzarlo e metterlo in pratica: stare all’opposizione è il laboratorio di una nuova visione. E questo vale per la sinistra tutta.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

Per rilanciare l’economia italiana, cambiamo governo non la Costituzione.

Lasciate in pace la Costituzione, per liberalizzare sfidate le corporazioni, di Romano Prodi-ilmessaggero.it

Non posso nascondere di essermi sorpreso quando qualche giorno fa ho letto che, per dare un contributo alla liberalizzazione della nostra economia, bisognava assolutamente modificare l’articolo 41 della nostra Costituzione. Anche se già lo conoscevo, mi sono tuttavia preso cura di rileggere il suddetto articolo che, come tutti gli articoli della prima parte della nostra Carta fondamentale, brilla per semplicità e chiarezza.

Esso scrive che “l’iniziativa privata è libera”. E aggiunge semplicemente che “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà (opportuna questa insistenza sulla libertà) e alla dignità umana”. Come ovvio completamento, l’articolo aggiunge che “La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

Terminata questa lettura mi sono messo il cuore in pace, nella sicurezza che né la lettera né lo spirito di quest’articolo mai avrebbero messo in rischio o semplicemente resa più difficile la libertà di intrapresa in quanto in qualsiasi sistema, anche nel più liberista, la legge ha il compito di dettare le norme di comportamento perché l’esercizio dell’attività economica non rechi danno all’esercizio dei diritti dei cittadini, sia che essi si organizzino in forma individuale che associata.

Tutti noi abbiamo infatti il diritto di essere tutelati dalla legge riguardo ai requisiti igienici o sanitari di un prodotto o della pericolosità di un giocattolo, così come in ogni parte del mondo i lavoratori e gli imprenditori trovano nella legge (italiana o europea) i diritti e gli obblighi che derivano dall’esercizio della propria attività. È peraltro evidente che, se esistono regolamentazioni eccessive, queste possono e debbono essere eliminate dall’attività legislativa, affidata all’iniziativa del Governo e del Parlamento.

Assolta la Costituzione da qualsiasi colpa in materia, mi è sorto il sospetto che potesse essere stata la Corte Costituzionale, attraverso le sue interpretazioni, ad impedire una maggiore liberalizzazione della nostra economia. Ho letto tuttavia a questo proposito un esauriente articolo dell’ex presidente della corte Valerio Onida che dimostra che mai la corte in tutta la sua storia ha dichiarato l’illegittimità di una legge liberalizzatrice e che, al contrario, esistono numerose decisioni che hanno rimosso limiti ingiustificati alla libertà di iniziativa contenuti nelle leggi nazionali o in quelle regionali.

Tranquillizzato su tutti i fronti, ho quindi ritenuto la proposta come un semplice errore o come un ormai rituale messaggio di avversione allo spirito (visto che non è possibile farlo alla lettera) della nostra Costituzione.

L’ipotesi dell’inconsapevole errore è stata poi esclusa dal fatto che il presidente del Consiglio è ritornato ripetutamente sull’argomento ribadendo la necessità di una riforma dello stesso articolo 41, alla quale proposta, per abbondanza, il ministro dell’Economia, ha aggiungo ieri l’altrettanto inutile proposta di abolire l’altrettanto innocuo articolo 118 della Costituzione.

Non riuscendo a raggiungere altre spiegazioni razionali per simili comportamenti, sono ricorso alla mia esperienza passata quando, insieme con l’allora ministro Bersani, ci accingemmo a fare un programma sistematico e generalizzato di liberalizzazioni e mi è facilmente saltato alla memoria il panorama di impressionanti proteste che ci veniva dalla piazza. E ricordo benissimo che nessuno agitava il libretto della Costituzione ma cartelli minacciosi nei confronti del Governo come risposta corale e violenta alla presunta violazione delle prerogative, dei diritti e dei privilegi delle categorie interessate.

Ed allora mi sorge il sospetto che l’accusa rivolta alla Costituzione e l’inutile scelta di un cammino tortuoso per procedere alla semplice riduzione di lacci e laccioli sia il comprensibile desiderio di evitare le rumorose manifestazioni e le reazioni, anche spesso incontrollate, delle infinite categorie e corporazioni che su questi lacci prosperano non da decenni ma da secoli.

E vorrei anche aggiungere che, sempre secondo la mia esperienza, lo scontento e le pressioni non prendono solo la via dell’opposizione, ma anche le insidiose strade degli alleati di governo. In poche parole, a fare sul serio queste riforme, si perdono consensi e voti. Posso in coscienza dire che le abbiamo ugualmente portate avanti, pur con la piena consapevolezza delle possibili conseguenze negative, anche se non arrivo al punto di affermare che il mio Governo sia caduto esclusivamente per questo motivo. Auguro quindi buon lavoro al ministro Tremonti. Sulle conseguenze sul Governo veda lui. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche

Romano Prodi sul G8: è assurdo che Cina, India e Brasile non partecipino da protagonisti.

Romano Prodi ha aperto i lavori del “Global think-tank summit” che si è svolto in questi giorni a Pechino alla presenza delle più alte autorità cinesi e dalla Capitale cinese ha inviato al Messaggero questa sua riflessione alla vigilia del G8-da ilmessaggero.it

” Nello scorso autunno il governo cinese decise, con una operazione senza precedenti, di iniettare nel sistema economico un’enormequantità di risorse, pari a 575 miliardi dollari, circa il 17% del Prodotto interno lordo.

La decisione veniva in un momento in cui qui a Pechino vi era paura. Era infatti la prima volta, dopo tanti anni, che il sistema rallentava vistosamente la propria crescita e la prima volta, probabilmente dalla fine della seconda guerra mondiale, che milioni di disoccupati affollavano le stazioni ferroviarie delle metropoli costiere per tornare verso le campagne.

Anche se i tassi di crescita non raggiungono ancora le incredibili cifre precedenti alla crisi, il motore dell’economia cinese ha dimostrato formidabili capacità di resistenza e di flessibilità. Oggi marcia, secondo le statistiche, tra il 6% e l’8% di crescita annua. Il piano d’intervento straordinario si è concentrato verso un colossale programma di lavori pubblici (ferrovie, autostrade, infrastrutture in genere), verso una rianimazione dell’ormai moribondo sistema sanitario e verso nuovi investimenti nel sistema scolastico per un migliore accesso allo studio. Sono stati inoltre previsti sussidi diretti alle popolazioni rurali e veri e propri aiuti finanziari alle classi più povere per l’acquisto di beni di consumo durevole, come gli elettrodomestici.

Un’operazione dedicata a rimediare, attraverso l’aumento della domanda interna, al crollo delle esportazioni. E, nello stesso tempo, a cambiare progressivamente i comportamenti economici dei cinesi finora spinti, in conseguenza dell’incertezza sul loro futuro, a risparmiare il più possibile a scapito dei consumi. L’intervento sembra funzionare: esso si esprime nel miglioramento della crescita ma, ancor di più, nel miglioramento delle prospettive future.

In questi giorni si sono riuniti, qui a Pechino, i rappresentanti di moltissimi think-tank e istituti di ricerca internazionali per discutere del futuro dell’economia del mondo. L’opinione largamente dominante è che sarà la Cina a guidare la ripresa. Naturalmente la Cina non potrà da sola cambiare lo stato delle cose dato che, nonostante i suoi giganteschi progressi, essa rappresenta ancora meno del 10% dell’economia mondiale. E chi, tra i grandi blocchi economici, seguirà la Cina nella via della ripresa? Ancora una volta la risposta degli esperti è quasi corale nel prevedere che il resto dell’Asia e gli Stati Uniti precederanno l’Europa, anche se poi nessuno è ancora in grado di dire quando questo avverrà.

Sul perché, invece, non vi sono dubbi: gli Stati Uniti hanno adottato anch’essi misure di politica economica forti e immediate, mentre i Paesi europei vanno ognuno per conto proprio, senza una strategia comune né nei confronti degli investitori, né dei consumatori. Ci si limita a constatare il raffreddamento dello spirito europeo emerso anche dalle precedenti elezioni, senza mettere in rilievo l’enorme costo che questo comporta sia in termini economici sia in termini politici.

L’evoluzione cinese è comunque così rapida che si fa sempre più strada l’idea che dagli otto grandi del G8 si possa, fra non molto, passare ad un mondo governato dai G2, cioè dagli Stati Uniti e dalla Cina. Un’idea che ritengo certo prematura e forse anche impossibile perché sono gli stessi cinesi, consapevoli dei propri problemi, a preferire un mondo con più protagonisti, in modo da assumere progressivamente un forte ruolo negli assetti mondiali senza però provocare tensioni per loro pericolose o addirittura irrimediabili.

È una strategia perfettamente in linea con la politica degli ultimi decenni, volta ad assumere responsabilità sempre più forti, usando come strumento una società che cambia più nelle cose e nei comportamenti che non nelle sue strutture istituzionali. Con un impressionante ritmo di cambiamento ma senza rotture di continuità che potrebbero bloccare il cambiamento stesso.

Chi pensava che la società cinese non fosse in grado di resistere a tutto questo si è finora sbagliato e credo che, come la reazione alla presente crisi ha dimostrato, la robustezza del sistema politico e sociale possa per ancora lungo tempo accompagnare la sua espansione economica.

I problemi da risolvere sono ancora tanti: più della metà dei suoi abitanti sono in situazione di povertà, le tensioni etnico-religiose nelle provincie periferiche ancora forti, mentre le impressionanti differenze sociali potranno essere solo marginalmente alleviate dal pacchetto delle misure economiche adottate dal governo. Il cammino della Cina è quindi lungo, anche se la direzione è già segnata, ed è quella di essere nel numero ristretto delle grandi forze politiche che guideranno il nostro futuro. Questo destino è inevitabile: dobbiamo semplicemente operare in modo che il ruolo che la Cina coprirà nel mondo (dato che essa ha ormai una politica globale) sia sempre più cooperativo e non conflittuale.

Considero quindi una assoluta bizzarrìa della storia che la Cina e gli altri grandi nuovi protagonisti della politica mondiale come l’India e il Brasile non si seggano attorno al tavolo dei G8 ma siano relegati, con complicate finzioni diplomatiche, a mangiare in cucina. Le finzioni possono mascherare la realtà per un periodo di tempo brevissimo. Il periodo per adattare il G8 alla realtà della storia è già passato da un pezzo.” (Beh, buona giornata).

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Attualità democrazia

Alla faccia della crisi: “Oggi ministri e sottosegretari sgomitano per spaparanzarsi sulle poltrone in pelle di Falcon e Airbus dagli arredi extralusso.”

Con papi si vola di Gianluca Di Feo-l’Espresso
Il premier. I ministri. E poi amici ballerine. Con il governo Berlusconi l’uso degli aerei blu è quasi triplicato. Con un costo di 60 milioni

Magari fosse solo Apicella. Magari fosse solo il menestrello di corte ad accomodarsi sui jet presidenziali per volare verso la reggia di villa Certosa. Ormai le scalette per salire sugli aerei di Stato sono diventate larghissime: a bordo può salire chiunque, ministri e sottosegretari, assistenti e portavoce, parenti e amiche. Clemente Mastella ha fatto scuola: il suo viaggio al Gran Premio con figlio e conoscenti è diventato un modello. E così Silvio Berlusconi nello scorso agosto ha cancellato l’austerity aeronautica introdotta dal governo Prodi dopo lo scandalo dell’Airbus di Monza più affollato della metro nell’ora di punta. I risultati si sono visti subito. I decolli dei velivoli del 31mo stormo, che da Roma Ciampino garantisce il trasporto delle autorità, sono aumentati a velocità supersonica: raddoppiati o addirittura triplicati. Il confronto tra lo stesso periodo dell’anno è eloquente.

I dati ottenuti da ‘L’espresso’ mostrano che a gennaio 2008 c’erano state 153 ore di volo per accompagnare in giro ministri e presidenti, un anno dopo erano diventate 370. A febbraio si passa da 176 a 468; a marzo da 183 a 510; ad aprile da 124 a 471. In questo mese di maggio appena concluso, denso di impegni elettorali sparsi per la penisola, ci sono state centinaia di missioni vip con Airbus e Falcon impegnati fino ai limiti tecnici. Al ministero della Difesa è scattato l’allarme rosso: se si dovesse continuare con questo ritmo, a fine 2009 gli Stakanov del jet presidenziale potrebbero arrivare a bruciare oltre 5600 ore a spasso tra le nuvole.

Più di 15 ore al giorno, un primato che potrebbe battere i consumi mostruosi del 2005 quando l’overdose di aerei blu spinse Gianni Letta a rimproverare tutto il governo. Parole volate via nel vento.

Oggi ministri e sottosegretari sgomitano per spaparanzarsi sulle poltrone in pelle di Falcon e Airbus dagli arredi extralusso. La flotta del 31mo stormo non basta più: i 10 jet, nonostante offrano 216 comodissimi posti, non riescono a soddisfare le brame aviatorie del governo Berlusconi. Ed ecco che tornano in pista le Ferrari dei cieli, i Piaggio 180 di Pratica di Mare, bimotori executive che dovrebbero servire per collegare le basi dell’Aeronautica. Prodi ne aveva vietato l’uso per i voli di Stato: nei primi mesi del 2008 mai un decollo. Ma il salottino volante fa gola a tanti politici di seconda fila, che in soli quattro mesi quest’anno si sono accaparrati 240 ore di volo a sbafo.

E poi c’è la fantomatica Cai, non la compagine che ha rilevato Alitalia ma la leggendaria squadriglia dei servizi segreti. Che con il pretesto della sicurezza svolge il 90 per cento dell’attività come taxi per ministro. Anche lì Prodi e il suo sottosegretario Enrico Micheli erano stati drastici: ‘Basta gite di governo’. E per concretizzare l’ordine si era deciso di mettere in vendita due dei cinque Falcon della Cai.

Adesso invece di ridurre la flotta non si parla più, perché l’hangar degli 007 pullula di auto blu che trasbordano politici e accompagnatori al riparo da sguardi curiosi. Si stima che dall’insediamento del Cavaliere la Cai abbia già regalato 1800 ore di volo al governo, un altro record a carico dei contribuenti. Il bilancio finale dei costi è altissimo. Solo per i dieci jet del 31mo stormo il 2008 ha significato una spesa di quasi 40 milioni di euro, su cui ha pesato il consumo di carburante a prezzi stratosferici nel semestre berlusconiano: con i vincoli prodiani si contava di pagarne circa la metà. È come se in 180 giorni fossero stati bruciati 25-30 milioni di euro: in alcune giornate fino a 160 mila euro buttati via per i velocissimi taxi dei politici vincenti. E se si aggiungono gli esborsi top secret per i passaggi a bordo degli 007 con le ali della Cai e delle Ferrari dei cieli si rischia di arrivare a una bolletta annuale salatissima: un conto da oltre 60 milioni di euro. Alla faccia della crisi e dei sacrifici per gli italiani. Sono lontani i tempi in cui l’austerity prodiana aveva fatto ipotizzare un taglio netto anche al 31mo stormo: via un quinto dello schieramento, mettendo all’asta un paio di Falcon e forse un Airbus. Un’illusione scomparsa dagli schermi radar.

Di riduzione della linea di volo proprio non se ne parla, l’attività per il trasporto di Stato è intensa’, ha dichiarato il generale Daniele Tei, comandante in capo dell’Aeronautica alla rivista specializzata Rid. E ha poi esternato il malumore dell’Arma azzurra: ‘Tra l’altro siamo sempre a credito per le attività che conduciamo e che le altre amministrazioni ci rimborsano con enorme ritardo (e non sempre)’. Infatti la forza armata deve anticipare i fondi per i voli extra tagliando altre attività: nel 2005 per pagare le missioni dei politici rinunciò alla più importante esercitazione internazionale. Nel solo 2008 lo sforamento berlusconiano ha comportato quasi venti milioni di sacrifici: meno addestramento, meno manutenzione. E mentre la crisi impone di azzerare l’attività di intere squadriglie, i piloti degli aerei blu non si fermano mai: ‘Nel 2008 hanno volato l’11 per cento delle ore dell’intera forza armata’, sottolinea il generale Tei. Pensate: l’Aeronautica ha quasi 400 velivoli, ma da soli i dieci jet presidenziali hanno macinato il record di decolli, mentre gli equipaggi dei caccia restano a terra con i serbatoi vuoti. Ovviamente il frequent flyer numero uno è Silvio Berlusconi. Il Cavaliere ama le comodità dell’Airbus 319 CJ da 50 posti: la sala riunioni, i lettini, gli schermi al plasma. Quando nel 2006 lasciò Palazzo Chigi, corse a comprarne uno tutto per sé. Appena tornato al potere, lo ha rivenduto: adesso può usare a piacimento l’ammiraglia di Stato. Le rotte favorite? Quelle per Olbia e Linate, a cui nell’ultimo anno si è aggiunta Napoli tra summit per i rifiuti e feste di compleanno. Segue Ignazio La Russa, che viene segnalato spesso con significative presenze femminili imbarcate al seguito. Il ministro della Difesa è maestro nelle trasferte che abbinano impegni ufficiali e comizi di partito. Il 24 maggio è atterrato a Grosseto per una breve visita alla base militare e successivo incontro di sostegno al candidato Pdl alla Provincia, per replicare l’accoppiata poche ore più tardi a Pisa.

Ma la passione ha contagiato tutto l’esecutivo. Un uso reso lecito dalle regole berlusconiane, che spesso ha il sapore dello spreco. Il ministro Stefania Prestigiacomo è finita fuori pista al rientro da un vertice ambientale a Varsavia, città ben collegata a Roma: un volo di linea avrebbe fatto risparmiare oltre 25 mila euro alla collettività. Maria Vittoria Brambilla a settembre era stata sorpresa su un Falcon di Stato tra Roma e Milano. La replica: ‘Non c’era altro modo per raggiungere il forum europeo del turismo’. Raffaele Fitto spesso torna in Puglia con il jet blu mentre i leghisti non disdegnano un passaggio ‘per questioni di sicurezza’ sulla squadriglia degli 007. Grande consumatore di aerei di Stato è il presidente del Senato Renato Schifani, che lo usa per tornare a Palermo nel weekend: un privilegio riconosciuto al suo rango istituzionale.

La scorsa settimana un Airbus lo ha portato a Mosca per una visita ufficiale, lo ha scaricato ed è tornato a Ciampino. Dopo 48 ore il jet è tornato in Russia per riportare a casa il presidente Schifani ma un’avaria lo ha costretto ad un atterraggio d’emergenza. Secondo le agenzie, l’Airbus di Stato era decollato alle 16.30: gli orari indicano un aereo Alitalia per Roma in partenza solo 60 minuti dopo. La missione del grande bireattore è costata quasi 100 mila euro, con Alitalia Schifani e il suo seguito ne avrebbero spesi circa 5 mila: in un momento di crisi, non sarebbe meglio attendere un’ora e risparmiare? In fondo Alitalia è stata soccorsa con denaro pubblico proprio perché compagnia di bandiera, peccato che ai nostri ministri piacciano più i Falcon: niente check in, niente code, si sale e si vola via. Nel blu dipinto di blu. (Beh, buona giornata).

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