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Attualità

Terremoto: passata la festa gabbato lo santo*.

Terremoto Abruzzo/ Ricostruzione e intolleranza le parole d’ordine della settimana – da blitzquotidiano.it

Silvio Berlusconi, l’uomo del fare, ha detto: tempi brevi. bisogna vedere come se la caverà con l’intrico di leggi e regolamenti e competenze nazionali e locali e con gli interessi, quasi mai senza sponsor politici, che si affronteranno sull’affare da un miliardi di euro della ricostruzione. Un assaggio Berlusconi lo ha avuto con il suo piano casa, sbranato dai conflitti di competenza tra Stato e Regioni.

Poi ci sono le inchieste. La procura, i cui magistrati per anni hanno vissuto in una di quelle costruzioni sul cui crollo ora indagheranno, ha aperto uno o più fascicoli. Berlusconi, il quale sa bene che in Italia di solito queste cose finiscono in assoluioni, indulti o prescrizioni, ha detto: “La magistratura indaghi. Io guardo al futuro”. E ha annunciato una revisione delle norme antisismiche: cosa certo utile. Ma se non saranno riviste le norme sugli appalti e sui controlli, sarà tutto inutile.

Intolleranza: sta montando contro Michele Santoro, reo, nella sua trasmissione su Rai 2, di avere criticato e dato voce a critiche sui soccorsi. Sarà la settimana della nuova prescrizione per il giornalista – conduttore?

(*) “Passata la festa gabbato lo santo” è un proverbio popolare. Proverbio attribuito a coloro che, dopo aver ottenuto il piacere richiesto, si dimenticano ben presto del bene ricevuto.Il riferimento, assolutamente non casuale è relativo al grande consenso ricevuto dal premier nei primi giorni del terremoto. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

La crisi e le classi dirigenti: “la crisi di questi ultimi mesi ha messo a nudo l’illusione del primato del prezzo come indicatore di valore professionale, aziendale e sociopolitico.”

di Giuseppe De Rita da corriere.it

Esiste un legame sommerso che forse spiega la contemporaneità fra i commenti sul recente congresso del popolo berlusconiano e le notizie sul quasi persecutorio disprezzo destinato agli strapagati grandi manager della finanza e del lusso. Questi perdono la leadership dello sviluppo internazionale e nazionale (hanno creato un sacco di guai e sono oggi costretti a chiedere aiuti pubblici) ed è consequenziale la tentazione a riproporre un nuovo primato della politica, in diretto rapporto con le più generali emozioni collettive. Ritorna allora di moda il termine «popolo», categoria così onnicomprensiva da permettere di superare le tante articolazioni di classe, di gruppo, di categoria; di abbracciare senza schemi prefissati le istanze più diffuse delle società; di aspirare a un consenso ampio e ultramaggioritario.

Prospettiva quest’ultima che attira molto il sospetto di quella facile tendenza al populismo che ne sarebbe l’obbligato sbocco finale. Un sospetto indebito, a dire il vero, perché un consenso costruito su una accezione generica di popolo può bastare per connotare periodi storici brevi, ma non è abilitato e legittimato a costruire assetti sociali e istituzionali stabili. Specialmente in una società indistinta e sconnessa come la nostra. È opportuno allora ricordare che i grandi sistemi del passato sono stati costruiti quando il popolo viveva in interazioni quotidiane forti con altrettanto forti oligarchie. Vale ancora e sempre il Senatus populusque romanus: senza popolo l’oligarchia inciucia o si dilania, senza «senato » il popolo diventa passiva base di puro populismo. Per la realtà italiana, la seconda di queste ipotesi è quella più attuale e pericolosa, visto che siamo segnati profondamente dalla mancanza di una cultura e di un potere capaci di fare sintesi dei tanti segmenti sociali che tentiamo di racchiudere nella parola popolo.

Negli ultimi anni di capitalismo un po’ troppo selvaggio abbiamo allegramente costruito una falsa oligarchia, quella dei manager e finanzieri che, sotto la esaltazione dei processi di globalizzazione e finanziarizzazione, hanno imposto una più ambigua coincidenza fra «valore» e «prezzo»: le aziende erano spinte a creare valore attraverso l’aumento del loro prezzo di borsa; i dirigenti erano spinti a far coincidere il loro valore con il proprio prezzo stipendiale e di bonus. Su questa spesso ingenua furbizia si è dissolta una applaudita tentazione di leadership collettiva; ma la crisi di questi ultimi mesi ha messo a nudo l’illusione del primato del prezzo come indicatore di valore professionale, aziendale e sociopolitico.

Dai giudizi severi del presidente Usa alle violente contestazioni europee verso i manager superpagati si evidenzia la convinzione che il recinto dei capitalisti finanziari (con le loro strutture, le loro sigle, i loro indicatori, le loro super retribuzioni), non è più legittimato a interpretare e orientare il popolo. Questo resterà solo per un po’, magari sedotto da qualche illusione populista; ma un Senatus sarà sempre necessario, come insegna la storia. Esso si costruirà in futuro attraverso un recupero della capacità di coagulare interessi, persone, gruppi, istituzioni, perché è la connessione sociale, e non il prezzo come valore, che formerà la nuova classe dirigente. Sarà cosa lenta, ma inevitabile. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

La democrazia e i pericoli del leader carismatico.

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Scriveva, negli Anni Venti, Max Weber che la leadership carismatica è definita da «una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva dagli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non sono accessibili alle persone normali, ma sono considerati di origine divina o esemplari, e sulla loro base l’individuo in questione è trattato come un leader».

Pensando a queste note, ieri, non si poteva che provare simpatia per il presidente della Camera mentre teneva il suo discorso alla Fiera di Roma per dire addio ad An e scioglierla nel Pdl. Nell’eterna saga del suo dualismo con Silvio Berlusconi (uno dei pochi punti fermi della politica italiana, esattamente come il dualismo Veltroni/D’Alema) Gianfranco Fini ha provato, come sempre fa da anni, a mantenere il proprio ruolo di alleato leale ma diverso, mettendo paletti e definendo regole per il futuro partito unico. Ma, in realtà, che partita davvero può giocare un normale (sia pur talentuoso) politico di fronte a un leader quale quello raccontato da Weber?

La vera novità del Pdl unificato, che nascerà formalmente nell’assemblea convocata a Roma da venerdì a domenica prossima, è proprio la scelta di una leadership carismatica. Concetto che nella storia abbiamo visto spesso emergere, nel bene e nel male, da Gandhi a Hitler (la definizione, dice Weber, non ha in sé un giudizio «morale»). Ma mai nessuno ha finora provato a tradurlo in una regola politica, applicandolo cioè alla formazione di un partito, che rimane, dopo tutto, un’entità burocratica, sia pure nel senso più alto. Compito di una organizzazione è selezionare la classe dirigente, coordinare le politiche di un’area di pensiero, lavorare al rapporto fra cittadini e istituzioni (coltivando consenso o dissenso), produrre cultura politica. Un partito è insomma uno dei bracci operativi della democrazia, nel senso proprio di fluidificare il rapporto tra potere e cittadinanza.

Tant’è che i partiti moderni, in particolare quello americano, sebbene considerato «leggero» (e a cui pure si riferisce il nuovo Pdl), sono su base elettiva – a cominciare dalle primarie. Il «carisma», è vero, è sempre stato un concetto forte della politica, in particolare negli Usa. Ma come attributo della personalità: ad esempio, Carter (senza carisma) e Obama (carismatico) sono stati eletti e hanno governato con le stesse regole. Viceversa, i partiti in cui la classe dirigente non è selezionata da una scelta di base (penso al partito comunista dell’Unione Sovietica) sono solo una finzione che copre o autoritarismo o populismo.

Tecnicamente, dunque (e mi piacerebbe ascoltare il parere dei costituzionalisti), partito e leadership carismatica dovrebbero essere incompatibili. E segni di questa incompatibilità si avvertono fin da ora anche sulla strada appena iniziata dal Pdl.

Silvio Berlusconi è l’indiscusso leader della sua area politica e della stessa Italia. Altro però è che venga eletto come guida del suo partito senza nessuna (nemmeno formale) selezione. Sappiamo che se un pazzo volesse presentarsi contro di lui nella prossima assemblea non potrebbe, perché non è prevista nemmeno la procedura per un diverso candidato: si può immaginare qualcosa di più debole? La leadership così eletta si riproduce infatti immediatamente nell’alterazione delle regole della stessa organizzazione: sarà ancora Silvio Berlusconi, eletto plebiscitariamente, a nominare gli organismi che guideranno il partito. Allora a cosa servono i delegati, e a che serve il partito se non a esprimere la propria classe dirigente? Aggiungiamo che nelle intenzioni del premier la segreteria sarà formata dai ministri più qualcun altro: che ruolo ha un partito espressione diretta di un governo, visto che invece dovrebbe lavorare esattamente lì dove il governo non arriva?

Si può obiettare, e a ragione, che il Pd prova che nella sostanza le primarie e le elezioni assembleari possono essere aggirate e ridursi a commedia. Ma, è sempre il Pd a provarlo, il principio comunque diventa vitale quando poi si arriva alla crisi di una gestione.

Torniamo così a Fini. Il presidente della Camera non può non sapere queste cose. Per questo ha riproposto un partito con «dialettica interna», che non si appiattisca sul «pensiero unico», né sul «culto della personalità», né su un presidenzialismo «che emargini il Parlamento». Ma la sua è una concezione normale, terrena potremmo dire, del lavoro politico. Quella di Silvio Berlusconi è invece una concezione eccezionale. Il partito che nasce è una emanazione e un sostegno al leader assoluto, del governo come delle piazze. Del resto è già così: chi in Italia può competere per forza popolare e fortuna personale con Silvio Berlusconi? Solo che fondare un partito su una leadership carismatica vuol dire formalizzare questa superiorità assoluta.

Quella del presidente della Camera potrebbe essere dunque definita una battaglia permanentemente persa. E molti osservatori lo scrivono. Ma c’è un’idea politica anche nell’ostinazione con cui si ripresentano le proprie convinzioni. E soprattutto c’è sempre un’idea politica nell’attesa stessa. Tanto per citare di nuovo Max Weber: «Per la sua peculiare natura e per la mancanza di un’organizzazione formale, l’autorità carismatica dipende dalla cosiddetta legittimità politica percepita. Se dovesse vacillare la forza di siffatta fede, lo stesso potere del capo carismatico potrebbe decadere rapidamente, il che per l’appunto costituisce una manifestazione di come questa forma di autorità sia instabile». (Beh, buona giornata).

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