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La politica e la morte a Manchester.

Manchester ricorda le vittime dell’Arena.
“Noi amiamo la morte come voi amate la vita”, è il truce slogan che accompagna gesti scellerati, come l’ultima orribile strage di ragazzine e ragazzini a Manchester. Un distillato d’odio, disperazione, vendetta contro la vita. Ma non suona nuovo.

L’idea della Morte come purificatrice ha riempito la propaganda nazionalista e interventista – da noi “irredentista” e futurista- accompagnando al macello milioni di europei nella Prima Guerra Mondiale. Alla quale segui dopo appena vent’anni, la Seconda Guerra Mondiale, dove il teschio campeggiava nei berretti delle uniformi delle SS, simbolo premonitore delle stragi, delle pulizie etniche, della Shoah. Per non essere da meno, anche le nostrane Brigate nere avevano il teschio sul basco, per sentirsi così all’altezza degli alleati tedeschi, nel condurre rastrellamenti, partecipare agli eccidi, alle deportazioni, alle torture.

Tutta la retorica guerrafondaia si è sempre basata sul gesto estremo di un uomo solo, che immola la sua vita alla “causa”. Dunque, neppure il gesto suicida di chi si fa saltare in aria per portarsi appresso nella morte più vite possibili è un fatto né nuovo né straordinario.

Per concepire, organizzare e mettere in atto gesti come quelli di cui parliamo bisogna essere emotivamente carichi del più definitivo fanatismo. La strage di Manchester è uguale alle carneficine che sciiti e sunniti si scambiano nei paesi in cui si contendono la leadership. Non sappiamo più come contarle in Iraq, per esempio, dove gli Usa e la Nato, dunque anche noi, siamo andati a destabilizzare un equilibrio che ha poi scatenato l’inferno che Daesh vuole restituirci, in parte riuscendovi.

È inutile far finta: ormai ovunque in Europa viviamo sotto scorta della paura. Città blindate, militari ovunque, controlli continui. Il che dimostra che tutto questo apparato non ha l’efficacia che si vorrebbe avesse. Dunque, sperare che il terrorismo islamico sia un problema di ordine pubblico è illusorio.

Anche sul piano del dialogo interreligioso si sono fatti passi significativi. Ma se non si tiene conto che l’Islam, come per altro il Cristianesimo e lo stesso Ebraismo, sono fedi monoteiste, ma non monolitiche non si capisce come stanno davvero le cose nel mondo arabo. Chiedere ai musulmani di condannare il terrorismo ha più il sapore di una spendibilità verso le opinioni pubbliche spaventate, più che efficacia tra i membri delle comunità islamiche delle nostre città.

Neppure la sociologia ha strumenti efficaci per spiegare perché un ventenne nato e cresciuto a Manchester possa arrivare a odiare al tal punto la città in cui vive e la gente con cui è cresciuto, tanto da rendersi disponibile a fare strage di suoi coetanei. Era successo in Francia e in Belgio. È evidente che il disagio sociale sia un ottimo serbatoio cui attingere quella disperazione utile a formare i kamikaze. Ma da solo non basta a capire perché scatti la molla della strage.

Non ci rimane che la politica, come unico strumento per affrontare la questione del terrorismo. Ma la politica occidentale vive il peggior momento della sua funzione sociale dal Dopoguerra.

Delegittimata dalla crisi finanziaria, poi da quella economica, sul piano interno la politica non ha fronteggiato la crisi sociale, ha invece assecondato le peggiori scelte ideologiche dettate dal neo liberismo, quelle scelte che hanno logorato il patto sociale, disgregato il welfare, indebolito la coesione sociale: oggi la politica non è più credibile agli occhi degli elettori, come potrebbe esserlo di fronte agli immigrati di prima e seconda generazione?

Sul piano estero, la politica degli Usa con l’appoggio della Ue continua a giocare contro ogni ragionevole riequilibrio del Medioriente. Prima la guerra in Afghanistan, poi in Iraq, poi l’illusione delle “primavere arabe”, poi la dissoluzione della Libia. Una serie drammatica di errori che ha portato distruzione, vittime, ed esodi in massa.
La “guerra al terrorismo” è diventata una guerra terrorista da ambo i lati. Da un lato la ferocia del Califfato, dall’altro bombardamenti indiscriminati, in mezzo il doppiogiochismo dei nuovi satrapi, che hanno preso il posto dei precedenti Saddam, o Gheddafi o Mubarak.
D’altronde, come si fa a parlare di pace e pacifica convivenza quando il nuovo inquilino della Casa Bianca ha portato in Arabia Saudita 110 miliardi di dollari in armi?

L’ultimo scellerato atto compiuto da Trump è stato il tentativo di compattare i sunniti contro gli sciiti dell’Iran. Ma il Califfato è sunnita e ci sono truppe iraniane sul campo che stanno combattendo contro Daesh, ottenendo significativi successi. Dunque, da una lato si combatte Daesh, dall’altro in qualche modo lo si blandisce. Siamo alla solita strategia imperiale Usa in Medioriente. Quanto alla Ue, l’unica preoccupazione è che non partano quei dannati barconi – che invece sono barconi dei dannati – che tanto turbano le opinioni pubbliche europee. A Bruxelles non ci sono altre strategie, se non ognuno per sé a fare affari col petrolio o col cemento.

C’è proprio tutto quello che serve perché il fuoco dell’odio rimanga acceso più a lungo possibile e continui ad ardere odio, vendetta, disperazione e morte nelle nostre città.

Il mondo gronda d’ingiustizie, disuguaglianze, inciviltà. Che muoiano sotto le bombe di un drone, che affoghino nel Mar Mediterraneo, che vengano trucidati da un kamikaze nel primo concerto della loro vita, muoiono i nostri bambini.

Manchester è un altro capitolo della storia di un mondo di adulti che non sanno più neanche difendere i propri figli, perché hanno perso voglia, speranza, coraggio di cambiarlo. Beh, buona giornata.

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democrazia Dibattiti Finanza - Economia - Lavoro Movimenti politici e sociali Popoli e politiche Potere

E il neoliberismo partor

di Carlo Bordoni-Il Fatto Quotidiano

L’antipolitica come rinuncia dello Stato alla politica tradizionale? È la tesi di Étienne Balibar, docente emerito all’Università di Parigi, noto per i suo saggi Leggere il Capitale (con Louis Althusser) e La paura delle masse, che si ripropone ora con Cittadinanza, pubblicato da Bollati Boringhieri.

Antipolitica come annullamento degli antagonismi politici, delle differenze tra i partiti, dell’omologazione delle forze in campo, all’interno di una generale stagnazione dove emergono individualità carismatiche che catalizzano l’interesse pubblico.

La crisi delle ideologie, quelle convinzioni fideistiche su cui si basavano i partiti della sinistra, in grado di raccogliere il consenso di larghe masse popolari, ha lasciato un vuoto, prontamente colmato da una logica individualista e privatistica.

Balibar riprende da Aristotele il termine politeía, per indicare un concetto più ampio di cittadinanza: lo speciale rapporto che s’instaura tra la pólis (città) e il cittadino, facendone un attore politico. E quindi politeía come partecipazione alla cosa pubblica.

Ora, il vacillare di questo rapporto mette in discussione la democrazia.

Due sono le cause principali: la prima è la perdita di un’identificazione collettiva tra cittadino e Stato, che si manifesta con un eccesso di burocrazia (insieme di complessità formali che mascherano l’inosservanza di aspetti sostanziali) e col prevalere di strutture sovranazionali. L’altra causa è appunto l’emergere dell’antipolitica, che non è unicamente una reazione di tipo populista e nazionalista.

Secondo una teoria già proposta da Wendy Brown, il neoliberalismo sottopone le funzioni sociali dello Stato al calcolo economico. Una pratica insolita, che introduce criteri di redditività neservizi pubblici, come se si trattasse di aziende private, regolando sotto un profilo economicistico i campi dell’istruzione, della sanità, della ricerca scientifica, dei servizi sociali, della sicurezza.

L’antipolitica è pertanto un atteggiamento di de-responsabilizzazione dello Stato, di rinuncia alla sue prerogative tradizionali e la loro progressiva privatizzazione. Le responsabilità si dividono così in una miriade di deleghe sempre più frazionate, fino a convergere sul singolo individuo. Unico responsabile di se stesso.

Del resto il neoliberalismo all’americana, adottato anche da noi e ravvisabile nei provvedimenti presi dal governo Monti, si sposa bene con l’uscita dalla società di massa: la cosiddetta “demassificazione”. Il processo di individualizzazione che ha riportato in primo piano il concetto di “moltitudine”.

Chissà che in futuro non ci aspetti una società “caina”, dove ognuno potrà interpretare a suo modo la frase biblica: “Sono forse io il custode di mio fratello?”

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democrazia Dibattiti Media e tecnologia Politica Società e costume

Attenti, il berlusconismo continua.

di BARBARA SPINELLI-la Repubblica

NEL PRESENTARE il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell’esecutivo e ha aggiunto un’osservazione significativa, e perturbante. “Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo”.

La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che “concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale”; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d’imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista – la litote, l’eufemismo – ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché “stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro” (e non senza asprezza aggiunge: “Spero, che stiano uscendo”) snida crudamente la realtà.

È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l’arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.

Questo significa che l’emergenza democratica in cui viviamo da quando s’è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni ’90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell’idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.

Questa volta, a differenza di quanto accadde nel ’94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l’Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell’età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d’interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell’Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l’insania di Berlusconi e affossando l’accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l’italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: “I fatti dimostreranno” che conflitto d’interessi non c’è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il “potere occulto delle banche”, la “confusione tra politica e affari”) e tanto irritò Passera, per ora resta.
Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c’è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l’elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l’inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.

Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l’Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.

La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l’acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.
In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui – nelle Supplici di Eschilo – s’alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: “Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell’abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente”. Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l’avvento di Monti mostra che l’anagrafe non c’entra. Sylos Labini che nel ’94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: “Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall’incantesimo funesto del cerchio” che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).

Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L’ironia del premier sull’espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che “sì, assolutamente” usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l’avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.

Monti è l’occasione, il kairòs che se non cogliamo c’inabissa. Per i partiti, è l’occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la “lunga corsa” intrapresa dopo il ’45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall’Annuncio o l’Evento: quell’Evento, dice Giuseppe De Rita, “che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo”.

Non c’è un solo partito che abbia idee sull’Europa da completare. Non ce n’è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l’Europa politica non c’è. Monti denunciò a giugno l’eccessiva deferenza fra Stati dell’Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.

Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest’uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l’Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di “tritacarne mediatico”, è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell’abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l’aiuto di un’informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.
(Beh, buona giornata)

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Attualità Società e costume

Business&politica.

«…che io a vent’anni stavo in barca con D’Alema e gli altri a novant’anni ancora dovevano fare quello che io avevo fatto in due anni da diciotto a vent’anni. A trenta stavo a dormire a casa di Berlusconi io, a trenta». Giampi Tarantini dixit. Beh, buona giornata.

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democrazia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Dove affondano le radici del decreto- salva liste.

Un quarto degli italiani non sa niente di politica. Istat: uomini più attenti delle donne-blitzquotidiano.it

Un quarto della popolazione italiana non si informa mai di politica: il 23,3% degli italiani con più di 14 anni non è interessato alla vita politica del Paese: si tratta, in valori assoluti, di quasi 4 milioni di uomini e di 7 milioni 847 mila donne.

Il dato allarmante è stato diffuso stamane dall’Istat nel rapporto “La partecipazione politica: differenze di genere e territoriali”. L’Istituto di statistica certifica anche che il 60,7% del campione considerato si informa almeno una volta a settimana e il 35,9% ogni giorno. Parla di politica almeno una volta a settimana il 39,4%, ne parla solo occasionalmente il 26,2%, mentre non ne parla mai il 31,9%.

L’ascolto di dibattiti politici è meno diffuso e coinvolge il 23,6% della popolazione: solo 12 milioni di persone dichiarano, infatti, di aver ascoltato dibattiti politici almeno una volta nell’anno.

Le donne sono meno interessate alla politica rispetto agli uomini: solo il 53,6% delle donne si informa settimanalmente contro il 68,5% degli uomini. Inoltre le donne parlano di politica almeno una volta a settimana solo nel 31,3% dei casi contro il 48,1% degli uomini. Ben il 40,1% delle donne non parla di politica e il 29,3% non si informa mai.

Le fasce di età meno interessate alla politica sono giovani e anziani: parla di politica almeno una volta a settimana il 24,5% dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni e il 25,2% delle persone con più di 75 anni, mentre a non parlarne mai sono, rispettivamente, il 46,8% e il 54,2%. (Beh, buona giornata).

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Attualità Media e tecnologia

I direttori dei tg italiani e le vicende del premier italiano: gli scandali sono fatti o semplici opinioni?

(da corriere.it)
Come affrontare nei tg nazionali l’inchiesta di Bari che ha travolto come un ciclone la politica italiana e la vita privata e pubblica del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi? Il settimanale Tv Sorrisi e Canzoni, in edicola martedì 30 giugno, lo ha chiesto ai sette direttori dei tg nazionali nella rubrica «I magnifici 7». Ecco le loro risposte.
AUGUSTO MINZOLINI – TG1: «La vera inchiesta di Bari riguarda la malasanità, 700 milioni di euro di appalti rubati alle tasche degli italiani. Questa è politica. Ma i media ammalati di gossip prediligono la escort-story».

ANTONIO DI BELLA – TG3: «E Lewinsky/Clinton, e Sarko/Rachida? Il confine è ormai labile. Ma se c’è un’inchiesta della Procura, l’unica cosa da fare è mandare un inviato sul posto e valutare se quel che ha raccolto ha interesse pubblico o no».

CLEMENTE J. MIMUN – TG5: «È un mix. Difficile non notare che non si parli più dell’ipotesi tangenti sugli appalti sanitari in una regione, la Puglia, governata dalla sinistra, ma solo di signorine ingaggiate per feste nelle case di personaggi influenti, residenze del premier comprese. Il Tg5 ha parlato di tutto».

EMILIO FEDE – TG4: «È solo l’azione di una muta di cani famelici non sono degni nè del gossip, nè della politica, nè di una società civile. Schegge impazzite».

GIORGIO MULÈ – STUDIO APERTO: «È un’inchiesta che viene, allo stato, usata per fini politici nel tentativo di indebolire e offuscare l’immagine di Berlusconi. Per fare questo, giornali che hanno fatto del rigore la loro bandiera hanno temporaneamente ammainato il vessillo cedendo al gossip più becero».

ANTONELLO PIROSO – TG LA7: «Politica, ahimé. Perché lambisce un politico. Se in un’intercettazione un soggetto parla di ragazze da lui pagate per andare a feste a casa del premier, non può che essere così. Ricordando però che il premier non è indagato. E che chi lo vuole battere lo deve fare sul terreno della politica, e non del gossip».

EMILIO CARELLI – SKY TG24: «Né l’uno né l’altro. Si tratta semplicemente di un’inchiesta giudiziaria che per il suo contenuto può avere risvolti di gossip e che impatta sulla politica italiana nel momento in cui riguarda anche il presidente del Consiglio». (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

Mentre l’Europa va a destra, l’economia va a fondo.

Quali prospettive per l’economia mondiale? – Economiadi Stefano Sylos Labini – da eticaeconomia.it/megachip.info

Oggi ci troviamo in un momento cruciale nell’evoluzione dell’economia mondiale. Da un lato il sistema capitalistico è precipitato in una gigantesca crisi di sovrapproduzione la quale è scoppiata per effetto del crollo della domanda aggregata.

Dall’altro lato le politiche keynesiane di spesa in deficit, che in questo periodo sono affiancate da una fortissima espansione monetaria attuata dalle Banche Centrali di tutto il mondo, rappresentano nel breve periodo l’unico sistema di intervento in grado di trainare la ripresa della domanda, della produzione e dell’occupazione. Così l’espansione del debito può far crescere il Pil e il gettito fiscale esercitando una spinta verso il contenimento del rapporto tra debito e reddito. La ripresa dell’economia a sua volta è una condizione fondamentale per riattivare il credito bancario e più in generale la creazione di moneta (potere di acquisto) da parte del mercato.

Nel modello di sviluppo che ha prevalso a partire dagli anni di Reagan e della Thatcher (inizio degli anni ’80) e che ci ha fatto precipitare nell’attuale crisi finanziaria ed economica, la crescita dei salari, della spesa sociale e dell’offerta di moneta pubblica (base monetaria) è stata sostituita con un’espansione eclatante dell’indebitamento privato . Così la domanda di beni di consumo, di abitazioni e di attività finanziarie è stata alimentata in larga misura dal credito bancario e da strumenti derivati[1].

Oggi il modello di sviluppo fondato su una crescente divaricazione nella distribuzione della ricchezza mostra tutti i suoi limiti perché l’eccesso di indebitamento privato può avere degli effetti nefasti nel momento in cui la crescita dell’economia tende a rallentare, si creano delle aspettative negative ed inizia a ridursi il prezzo degli immobili e delle azioni che garantivano i debiti privati. Nel settembre del 2008 tali fenomeni hanno provocato il crollo della fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento e la paralisi del credito bancario all’economia. Si è determinata così una violentissima restrizione monetaria che ha prodotto un’enorme vuoto di domanda e quindi la caduta della produzione e dell’occupazione.

Si tratta perciò di rivedere il modello di sviluppo che si è imposto negli ultimi 30 anni perché senza un nuovo consumatore che prenda il posto del consumatore americano iper-indebitato, il mondo rischia di andare incontro ad un periodo prolungato di rallentamento economico.

In altri termini, la crisi che il mondo attraversa non è ciclica ma strutturale ed è legata all’eccessiva dipendenza dal consumatore americano. Il pianeta ha bisogno di maggior consumo in India, Cina ed Europa altrimenti, sarà difficile che ci sia una domanda adeguata in grado di assorbire le enormi potenzialità produttive che oggi esistono nei paesi avanzati e nei paesi di recente industrializzazione come Cina e India. E una maggiore domanda la si può ottenere solo puntando sull’espansione dell’occupazione e sulla crescita dei salari di centinaia di milioni di persone. Ciò significa che gli interventi pubblici attuati nel breve periodo vanno accompagnati con politiche per la redistribuzione del reddito che si devono fondare su una decisa lotta all’evasione fiscale e su una maggiore tassazione dei redditi alti, dei beni patrimoniali e delle attività finanziarie.

Nei paesi avanzati la creazione di occupazione e l’aumento dei salari rappresentano delle condizioni fondamentali non solo per il sostegno dei consumi, ma anche per la riduzione del lavoro precario e per eventuali riforme volte ad innalzare l’età pensionabile. Quest’ultima è una richiesta che proviene in primo luogo dalle Associazioni degli Industriali, le quali durante le fasi di crisi si comportano esattamente al contrario poiché ricorrono alla cassa integrazione e ai pensionamenti anticipati delle unità di lavoro più anziane con i livelli retributivi più alti.

L’eccesso di offerta in rapporto alla domanda e la disponibilità di forza lavoro abbondante e a basso costo a livello mondiale hanno determinato la continua perdita di forza contrattuale dei lavoratori sul piano economico e la crisi delle forze di sinistra sul piano politico. I salari dei lavoratori dei paesi avanzati con il procedere della globalizzazione e con la comparsa di nuove aree produttive sulla scena mondiale hanno subito una concorrenza fortissima da parte dei lavoratori immigrati a basso costo in patria e dei prodotti a basso costo realizzati nei paesi in via di sviluppo. A questo si aggiunge una tendenza verso la frantumazione delle attività produttive determinata dai fenomeni di esternalizzazione e del sub-appalto oltre ad un abnorme espansione del lavoro precario e ad un aumento rilevante della disoccupazione. Per tali motivi oggi è molto difficile mettere in pratica politiche redistributive in grado di far crescere i redditi più bassi nei paesi avanzati.

Per cercare di rompere questa situazione negativa la prima cosa da fare sarebbe quella di creare un salario minimo al di sotto del quale non si può scendere. E’ vero che questo intervento potrebbe determinare il ricorso al lavoro nero, per questo il salario minimo deve essere composto da una quota che viene pagata dall’impresa a cui si aggiunge una quota che deve essere corrisposta dallo Stato sottoforma di affitti agevolati, tariffe elettriche, telefoniche e del gas scontate, detassazioni sui beni di prima necessità, servizi a prezzo sociale (scuola, spese mediche, ecc.).

Ma come fare se i paesi avanzati hanno un deficit pubblico e delle spese per interessi sul debito molto elevate ? Probabilmente un intervento di sostegno potrebbe essere effettuato attraverso la creazione di base monetaria per assorbire quote rilevanti di debito pubblico. Ciò significa che anche le Banche Centrali dovrebbero svolgere un ruolo attivo nello sviluppo dell’economia, un ruolo che non deve essere solo difensivo e rivolto principalmente a sostenere il sistema bancario come sta avvenendo nel periodo attuale. Come abbiamo visto, in questi mesi la Federal Reserve ha prodotto un’eclatante espansione della base monetaria per cercare di arginare il crollo della domanda, della produzione e dell’occupazione e per evitare il fallimento di gran parte del sistema finanziario americano. E allora perché gli interventi delle Banche Centrali devono essere limitati solo ai periodi di crisi violenta e non devono proseguire sino a che non si raggiungono livelli di piena occupazione e di salari dignitosi per tutti ?

Secondo le concezioni dominanti una tale linea di intervento alimenterebbe l’inflazione, ma se i salari corrisposti dalle imprese crescono con la stessa velocità della produttività non si produce alcuna tensione sui prezzi al consumo, e se esiste capacità produttiva inutilizzata difficilmente si avrà un eccesso di domanda sulla produzione. In effetti oggi l’unico rischio di inflazione proviene dalla crescita del prezzo del petrolio per un aumento troppo rapido dei consumi rispetto all’offerta, per le tensioni geopolitiche e per i fenomeni di speculazione finanziaria. La possibilità di scongiurare l’“inflazione da petrolio” dipende in primo luogo dalla capacità del pianeta di riuscire a sviluppare nel lungo periodo fonti energetiche diverse rispetto ai combustibili fossili. Cioè dipende dalle strategie di politica energetica e industriale che saranno perseguite per aumentare le spese in ricerca, gli investimenti e la produzione di nuove tecnologie energetiche.

Accanto ad un sostegno immediato dei salari e delle fasce sociali più deboli, è augurabile anche un intervento per la creazione di occupazione attraverso grandi progetti tecnologici e infrastrutturali, come sta già avvenendo negli Stati Uniti. In Europa questi progetti potrebbero essere finanziati con gli “eurobonds”. La riduzione della disoccupazione oltre ad alimentare i consumi permetterebbe di far ottenere ai lavoratori un maggiore potere contrattuale e quindi consentirebbe di portare avanti politiche incisive per la redistribuzione del reddito, condizione fondamentale per garantire uno sviluppo sostenibile nel lungo periodo.

Inoltre, è necessario che il settore bancario, in cui vi sono gigantesche concentrazioni di potere, sia messo sotto un controllo politico e sociale molto più stringente di quanto possano fare oggi le autorità antitrust e gli organismi di regolazione internazionali proprio per canalizzare le risorse finanziarie verso gli investimenti produttivi e le spese sociali.

Per concludere, i paesi avanzati hanno altre grandi responsabilità oltre a quelle di offrire salari dignitosi e un’occupazione per tutti i cittadini residenti nei propri territori. Come detto, devono trainare una rivoluzione energetica per ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e l’impatto ambientale della produzione e dei consumi sul clima del pianeta. Inoltre, è nell’interesse dei paesi avanzati promuovere lo sviluppo dei paesi poveri. Si tratta di decisioni non più rinviabili per ridurre i fenomeni migratori che stanno mettendo sempre più a rischio la coesione sociale nei paesi avanzati e che non sono moralmente accettabili per le popolazioni povere le quali vengono sradicate dai loro territori e sono costrette ad emigrare in ambienti ostili con dei costi umani altissimi. (Beh, buona giornata).

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[1] E’ importante sottolineare che l’enorme espansione della massa monetaria creata dal mercato sino alla crisi di settembre del 2008 non ha determinato una crescita significativa dei prezzi dei beni di consumo, mentre ha alimentato l’inflazione dei prezzi degli immobili e delle quotazioni azionarie. L’inflazione immobiliare e finanziaria a sua volta attraeva masse sempre più grandi di capitali in questi settori finché i prezzi non hanno iniziato a diminuire.

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Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Pubblicità e politica: uno spot che è tutto un programma.

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democrazia Lavoro Popoli e politiche

Libertà, giustizia, uguaglianza: “Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato.”

di Eric Hobsbawm – «The Guardian»- megachip.info

Qualunque logotipo ideologico adottiamo, lo spostamento dal mercato libero all’azione pubblica dovrà essere molto maggiore di quanto i politici immaginano.

Il XX secolo è già alle nostre spalle, ma non abbiamo ancora imparato a vivere nel XXI, o almeno a pensarlo in modo appropriato. Non dovrebbe essere così difficile come sembra, dato che l’idea fondamentale che ha dominato l’economia e la politica nel secolo scorso è scomparsa, chiaramente, nel tubo di scarico della storia. Avevamo un modo di pensare le moderne economie industriali -in realtà tutte le economie-, in termini di due opposti che si escludevano reciprocamente: capitalismo o socialismo.

Abbiamo vissuto due tentativi pratici di realizzare entrambi i sistemi nella loro forma pura: da un lato le economie a pianificazione statale, centralizzate, di tipo sovietico; dall’altro l’economia capitalista a mercato libero esente da qualsiasi restrizione e controllo. Le prime sono crollate negli anni ’80, e con loro i sistemi politici comunisti europei; la seconda si sta decomponendo davanti ai nostri occhi nella più grande crisi del capitalismo globale dagli anni ’30 ad oggi. Per certi versi è una crisi più profonda di quella, nella misura in cui la globalizzazione dell’economia non era a quei tempi così sviluppata come oggi e la crisi non colpì l’economia pianificata dell’Unione Sovietica. Ancora non conosciamo la gravità e la durata della crisi attuale, ma non c’è dubbio che vada a segnare la fine di quel tipo di capitalismo a mercato libero che si è imposto nel mondo e nei suoi governi nell’epoca iniziata con Margaret Thatcher e Ronald Reagan.

L’impotenza, quindi, minaccia sia coloro che credono in un capitalismo di mercato, puro e destatalizzato, una specie di anarchismo borghese; sia coloro che credono in un socialismo pianificato incontaminato dalla ricerca del profitto. Entrambi sono in bancarotta. Il futuro, come il presente e il passato, appartiene alle economie miste dove il pubblico e il privato siano reciprocamente vincolati in un modo o nell’altro. Ma come? Questo è il primo problema che si pone oggi a noi tutti, e in particolare a quelli di sinistra.

Nessuno pensa seriamente di ritornare ai sistemi socialisti di tipo sovietico, non solo per le loro carenze politiche ma anche per la crescente indolenza e inefficienza delle loro economie, anche se questo non deve portarci a sottovalutare le loro impressionanti conquiste sociali ed educative. D’altro canto, finché il mercato libero globale non è esploso l’anno scorso, anche i partiti socialdemocratici e moderati di sinistra dei Paesi del capitalismo del Nord e dell’Australasia si erano impegnati sempre di più nel successo del capitalismo a mercato libero. Effettivamente, dal momento del crollo dell’URSS ad oggi non ricordo nessun partito o leader che denunciasse il capitalismo come una cosa inaccettabile. E nessuno era così legato alle sue sorti come il New Labour, il nuovo laburismo britannico. Nella sua politica economica, tanto Tony Blair che Gordon Brown (e questo fino all’ottobre del 2008) potevano essere definiti senza alcuna esagerazione come dei Thatcher in pantaloni. E lo stesso vale per il Partito Democratico degli Stati Uniti.

L’idea fondamentale del nuovo Labour, a partire dal 1950, era che il socialismo non fosse necessario, e che si poteva aver fiducia che il sistema capitalista facesse fiorire e generare più ricchezza di qualsiasi altro sistema. I socialisti non dovevano fare altro che garantire una distribuzione egualitaria. Ma a partire dal 1970 la crescita accelerata della globalizzazione creò sempre più difficoltà e sgretolò fatalmente la base tradizionale del Partito Laburista britannico, e per la verità alle politiche di aiuto e sostegno di qualsiasi partito socialdemocratico. Molte persone, negli anni ‘80, pensarono che se la nave del laburismo non voleva colare a picco, cosa che era una possibilità reale, dovesse mettersi al passo con i tempi.

Ma non fu così. Sotto l’impatto di quello che vedeva come la rivitalizzazione economica thatcherista, il New Labour, a partire dal 1997, si bevve tutta l’ideologia, o piuttosto la teologia, del fondamentalismo del mercato libero globale. Il Regno Unito deregolamentò i suoi mercati, vendette le sue industrie al miglior offerente, smise di fabbricare beni per l’esportazione (a differenza di Germania, Francia e Svizzera) e puntò tutto sulla sua trasformazione in centro mondiale dei servizi finanziari, e di conseguenza in paradiso dei riciclatori multimilionari di denaro. Così l’impatto attuale della crisi mondiale sulla sterlina e l’economia britannica sarà probabilmente più catastrofico di quello su ogni altra economia occidentale e questo renderà la guarigione più difficile.

E’ possibile affermare che ormai tutto questo è acqua passata. Che siamo liberi di tornare all’economia mista e che la vecchia scatola degli attrezzi laburista è qui a nostra disposizione -compresa la nazionalizzazione-, così che non dobbiamo far altro che utilizzare di nuovo questi attrezzi che il New Labour non avrebbe mai dovuto smettere di usare. Comunque questa idea fa pensare che sappiamo come usare questi attrezzi. Non è così.

Da un lato non sappiamo come superare l’attuale crisi. Non c’è nessuno, né i governi, né le banche centrali, né le istituzioni finanziarie mondiali, che lo sappia: tutti questi sono come un cieco che cercasse di uscire da un labirinto dando colpi alle pareti con bastoni di ogni tipo nella speranza di trovare la via d’uscita.

Dall’altro lato sottovalutiamo il persistente grado di dipendenza dei governi e dei responsabili delle politiche dai dogmi del libero mercato, che tanto piacere gli hanno regalato per decenni. Si sono forse liberati del principio fondamentale per cui l’impresa privata orientata al profitto è sempre il mezzo migliore e più efficace di fare le cose? O che l’organizzazione e la contabilità imprenditoriali dovrebbero essere i modelli anche per la funzione pubblica, l’educazione e la ricerca? O che il crescente abisso tra i multimilionari e il resto della gente non sia tanto importante, dopotutto, sempre che tutti gli altri -eccetto una minoranza di poveri- stiano un po’ meglio? O che quello di cui ha bisogno un Paese, in qualsiasi caso, è il massimo di crescita economica e di competitività commerciale? Non credo che abbiano superato tutto questo.

Comunque una politica progressista richiede qualcosa in più di una rottura più netta con i principi economici e morali degli ultimi 30 anni. Richiede un ritorno alla convinzione che la crescita economica e l’abbondanza che comporta siano un mezzo, non un fine. Il fine sono gli effetti che ha sulle vite, le possibilità vitali e le aspettative delle persone.

Prendiamo il caso di Londra. E’ evidente che a tutti noi importa che l’economia di Londra fiorisca. Ma la prova del fuoco dell’enorme ricchezza generata in qualche parte della capitale non è il fatto di aver contribuito al 20 o 30% del PIL britannico, ma come questo ha influito sulle vite dei milioni di persone che vivono e lavorano lì. A che tipo di vita hanno diritto? Possono permettersi di vivere lì? Se non possono, non è per niente una compensazione il fatto che Londra sia un paradiso dei super-ricchi. Possono ottenere posti di lavoro pagati decentemente, o nella realtà un lavoro qualsiasi? Se non possono, a che serve tutto questo affannarsi per avere ristoranti da tre stelle Michelin, con chef diventati essi stessi stelle. Possono mandare i loro figli a scuola? La mancanza di scuole adeguate non si compensa con il fatto che le Università di Londra possano allestire una squadra di calcio fatta di vincitori di premi Nobel.

La prova di una politica progressista non è privata ma pubblica, non solo importa l’aumento del reddito e del consumo dei privati ma l’ampliamento delle opportunità e, come le chiama Amartya Sen, delle capabilities -capacità- di tutti per mezzo dell’azione collettiva. Ma questo significa -deve significare- iniziativa pubblica senza fini di profitto, neanche se fosse solo per redistribuire l’accumulazione privata. Decisioni pubbliche dirette a conseguire un miglioramento sociale collettivo dal quale tutti ne guadagnerebbero. Questa è la base di una politica progressista, non la massimizzazione della crescita economica e del reddito personale.

In nessun ambito questo sarà più importante che nella lotta contro il problema più grande che ci troviamo ad affrontare in questo secolo: la crisi dell’ambiente. Qualsiasi logotipo ideologico adottiamo, ciò significherà uno spostamento di grandi dimensioni dal libero mercato all’azione pubblica, un cambiamento più grande di quello proposto dal governo britannico.

E, tenuto conto della gravità della crisi economica, dovrebbe essere uno spostamento rapido. Il tempo non è dalla nostra parte. (Beh, buona giornata).

Tradotto per Senzasoste da Andrea Grillo

Eric Hobsbawm (1917), storico e accademico britannico. È presidente del Birbeck College dell’Università di Londra, e autore di numerose opere di storia contemporanea, la prima delle quali è stata Primitive Rebels: studies in archaic forms of social movement in the 19th and 20th centuries (1962). E, tra le altre,The Age of Revolution: Europe 1789-1848, The Age of Capital: 1848-1875, The age of extremes 1914-1991, etc. La sua pubblicazione più recente è On Empire: America, War, and Global Supremacy (2008). [da «MicroMega»].

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democrazia Media e tecnologia Popoli e politiche Pubblicità e mass media

Veline&politica: “E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico.”

Le veline e l’evoluzione
della specie (im)politica
di Ilvo Diamanti -la Repubblica

Lo scandalo riguardo alla velinizzazione della politica italiana è effettivamente scandaloso. Cioè: è scandaloso che ci si scandalizzi. Certo, l’indignazione della signora Veronica Lario contro la candidatura (annunciata) di alcune belle ragazze nelle liste del PdL, cioè: del partito guidato (diretto, presieduto, governato ecc.) dal marito non poteva che rimbalzare fragorosamente sui media. Per il semplice motivo che la signora Lario per esprimere il suo pensiero al marito, invece di parlargli di persona o al cellulare, ha usato i media. E i media hanno fatto il loro mestiere.
Amplificando la vicenda. Come, d’altronde, si attendeva la signora Lario. Che intendeva manifestare la sua indignazione anche verso i media, che hanno tanto spazio e tanto tempo da perdere intorno alle veline. Invece di fare informazione e informazione politica. Il problema, però, è che – non da oggi – la distanza fra questi elementi è molto sottile. Quasi non si percepisce. Fra la politica, l’informazione, l’informazione politica, i media. E le veline. Che adornano ogni salotto politico che si rispetti, a partire dai più seguiti e influenti. Sulle reti e nelle ore di maggiore ascolto.

Il loro archetipo, d’altronde, va in onda ogni sera sugli schermi di Canale 5. La rete ammiraglia del Presidente del PdL, del Milan, di Mediaset. Nonché marito della signora Lario. Ci riferiamo, ovviamente, alle veline di “Striscia la notizia”. Tiggì satirico concepito da Antonio Ricci. Il quale ne fece l’icona e il simbolo dell’informazione di regime. Per dire: tutti i tiggì della tivù pubblica – e non – sono condotti da sedicenti giornalisti di regime che ballano, mostrano le gambe e il sedere. Anche se sono meno gradevoli. E raramente, anzi: mai, ne ripetono il successo di ascolto e di audience. Non si sa se per merito dell’informazione irriverente degli inviati di Striscia o per il contributo all’informazione offerto dalle Veline. Diciamo: per entrambi i motivi. Lo stesso discorso vale per altri programmi Mediaset. Dalle Iene a Mai dire…

Dappertutto Veline. Esibite sempre in modo un po’ ambiguo. Strizzando l’occhio allo spettatore. Sottinteso che in fondo si tratta di satira. Non di uso furbo delle belle ragazze a fini di audience. Lo stesso avviene, in modo perlopiù rovesciato, anche nella Rai. Dove, nelle trasmissioni leggere o presunte tali, sgambettano veline e ballerine di ogni genere e tipo. Intervallate da “momenti alti” di dibattito politico. Anzi: neppure intervallate: fianco a fianco. Coscia a coscia. Come nei contenitori pomeridiani della domenica. E in tutti gli altri format che ormai coprono l’intera giornata. Mattine sull’Uno e pomeriggi sul Due. Pranzi compresi.

Veline, cuochi, giornalisti, cronaca, politica, cultura. Perché non c’è politico disposto a rinunciare a un’occasione mediatica, che garantisca visibilità, ascolto, pubblico. Vuoi mettere le centinaia o migliaia di persone che stanno in una piazza o in una tivù, se non c’è la televisione? Ma se c’è la televisione, perché non seguirne le regole e le logiche? Per cui, perché non affiancare al leader, sul palco e sulle piazze, la bella ragazza, il volto del giornalista famoso, del cantante, del regista o del comico satirico? E poi, nella vita quotidiana, li ritrovi, uno accanto all’altro, nelle occasioni mondane. Ritratti puntualmente dalla stampa people ma anche da quella seria. Certificati e fotografati su Dagospia. Non per caso, a tradimento. Ma per scelta consapevole. Perché le veline, i cuochi, i cantanti, gli artisti, i registi, i nobili decaduti, gli intellettuali, i calciatori, i presentatori, i cuochi, i giornalisti. Insieme ai politici. Non andrebbero alle feste, inaugurazioni, celebrazioni. Se non ci fossero Novella, Eva, Chi, Dipiù. E Vanity e A. E Dagospia. A fotografarli, ritrarli, diffonderne l’immagine. Cioè: tutto quel che conta.

Ma non è un fatto nuovo, se non per motivi di misura. Di quantità. In fondo cantanti, comici, giornalisti, registi e quant’altro sono già stati – taluni sono ancora – in politica. Eletti nel parlamento italiano o europeo. In qualche caso, per rimanerci, si spostano da un punto all’altro dello spazio politico, da un partito all’altro, in modo rapido e disinvolto.

Non voglio dire che tutto questo (mi) vada bene. Però non (mi) sorprende. Mi sorprende di più lo scandalo che solleva. Lo scandalo delle veline non dovrebbe scandalizzare più di tanto. A meno che non ci si scandalizzi di tutti i passi di questo percorso, che viene da lontano. Questo trend. Che procede parallelo all’abbandono dei luoghi sociali della politica.

All’evoluzione dei partiti in macchine presidenziali al servizio di un candidato. E tutti gli altri intorno a far da corona. (Corona?). Una corte di consulenti e consiglieri. Cortigiani, cortigiane. Ma tutto questo non scandalizza. Se non a parole. In fondo, così fan tutti. E’ la metamorfosi del cittadino in spettatore. Dell’elettore in pubblico. Quando , al momento di votare, per riflesso pavloviano, sceglie: presentatrici e presentatori, attrici e attori, grandi fratelli e grandi sorelle. Veline. L’evoluzione della specie politica. O impolitica. Dipende dai punti di vista. (Beh, buona giornata).

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Attualità Natura Popoli e politiche Salute e benessere

Peste suina: il virus, il panico, i governi.

In un bell’articolo apparso oggi sul quotidiano la Repubblica, il professor Umberto Veronesi scrive: “Se da un lato i rischi per la salute in un mondo consumista e globalizzato aumentano, dall’altro aumentano anche gli strumenti per capirle e le misure per farvi fronte. Faccio quindi un appello alla gente perché, proprio nei momenti di maggiore insicurezza, come questo, abbia ancora più fiducia nella scienza, nella medicina, e nelle capacità dei suoi uomini di salvaguardare il loro bene più prezioso: la salute.”

Tutto giusto, se non fosse che il problema non è la fiducia nella scienza, quanto la sfiducia nellla politica, in particolare nei Governi. Ha detto una volta Nelson Mandela che certi governi dell’Africa sono stati una epidemia peggiore dell’Aids, virus ha ha flaggellato quel continente e che ancora continua a mietere vittime. I governi del mondo globalizzato hanno fatto “carne di porco” di quasi tutti i diritti, compreso il diritto alla salute, che ha sempre lasciato il posto al profitto. E’ questo che crea panico, più del virus della peste suina. Beh, buona giornata.

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democrazia Popoli e politiche

Che cos’è diventata la politica ai tempi del berlusconismo.

LA POLITICA ACCORCIATA

di Aldo Schiavone -La Repubblica

IL POTERE politico, nel tempo della crisi. Non solo la sua composizione sostanziale: i rapporti di forza che lo determinano, le strutturee le decisioni che gli danno effettività e consistenza. Anche il suo riflesso mediatico, che è non meno penetrantee reale; lo spettacolo che mette in scena ogni giorno di sé, il modo in cui si propone e viene percepito attraverso i mille racconti che frantumano e poi di continuo ricompongono la nostra vita quotidiana. È questo, credo, il grande tema del momento, su cui bisogna fermarsi a ragionare. In ogni emergenza, infatti – che si tratti di economia o di terremoto, e tanto più se di tutt’ e due insieme – l’ immagine della politica tende inevitabilmente a trasformarsi.

Lo stato d’ eccezione – e la storica fragilità dell’ Italia ne moltiplica a dismisura le occasioni – spinge in maniera inesorabile a richiedere e a costruire una rappresentazione “contratta” e semplificata del potere, e a soddisfarsene come l’ unica adeguata alla concitazione e all’ incalzare delle circostanze. Fra la ferita e la terapia non sembra siano necessarie mediazioni.

C’ è bisogno di presa diretta. Una politica “accorciata” al massimo (c’ è chi dice “verticalizzata”, ma dubito che sia la parola giusta), e anche una politica “vicina” e “veloce”, che non si nasconde nelle nebbie dell’ indistinto. Se la situazione precipita, il leader che può tirarcene fuori deve essere identificabile, certo, presente: e forte e immediato il suo rapporto con le masse in pericolo. Definirei questa condizione come l’ inevitabile “deriva populista” che accompagna sempre, in ogni democrazia, e tanto più se condizionata dai media, una stagione di difficoltà e di paure.

È qualcosa di simile a una “legge tendenziale”, cui non si può sfuggire. Vi sono però almeno due modi, fondamentalmente diversi, di comportarsi di frontea questa specie di obbligato slittamento, a questa metamorfosi che fa ormai parte in qualche modo della nostra fisiologia democratica. Il primo è quello che, per così dire, tende a rendere “istituzionale” la spinta populista, ad assumerne acriticamente i contenuti emotivi di volta in volta più incalzanti e meno elaborati, a prolungarne e a dilatarne indefinitamente gli effetti nello spazio sociale e nel tempo storico, e a farne l’ unico centro di una strategia politica che non sa e non vuole vedere altro.

Esso mira unicamente a stabilire e ad alimentare un rapporto fideistico fra il leader e il “suo” popolo, e a comprimere e marginalizzare tutto il resto – altre forme di rappresentanza, divisione dei poteri, contrappesi decisionali – come un inutile impaccio. L’ emergenza – crisi economica, terremoto, gestione dei rifiuti a Napoli – è solo il pretesto per cementare ed esibire questo legame di salvezza, dove i ruoli sono assolutamente predeterminati: da una parte un popolo bisognoso e immobile, spettatore passivo e indistinto di una “grazia” che arriva dall’ alto, sotto forma di tempestività, lungimiranza, risorse; e dall’ altro un “capo” che sceglie e decide per tutti, al più coadiuvato da un ristretto manipolo di tecnici e di esperti. È un modo di stressare, per così dire, la democrazia, schiacciandola su una sola delle sue componenti, per quanto essenziale: la ricerca e la verifica del consenso, il transfert di sovranità alla base dell’ investitura a governare.

È lo stile di Berlusconi: per esempio, quando dice della tempesta economica che bisogna solo aspettare che passi, e al resto pensa lui, con pochi provvedimenti d’ urgenza, perché non c’ è altro da fare; o quando gira fra le popolazioni del terremoto e assicura che sarà lui stesso il garante della ricostruzione. Sono la politica e la democrazia ridotte alla loro forma più elementare e impoverita: al solo corto circuito carismatico. Ma vi è un diverso modo di reagire alla deriva di cui stiamo parlando. Ed è la risposta che definirei della “frontiera democratica”. Essa non nega, ma accetta di fare i conti con la spinta populista; non rifiuta, ma valorizza la componente carismatica nella ricerca del consenso al tempo della crisi; e però utilizza entrambe non come fini a se stesse, per la pura conservazione del potere, bensì come mezzi per la realizzazione di un disegno più ampio, per trasformare cioè, in una parola, il consenso in egemonia.

A suo tempo, ne fu capace De Gaulle, ed è anche la ragione per cui la sua eredità riuscì a incrociare, al momento opportuno, il cammino di Mitterrand. E soprattutto, questa seconda risposta riequilibra onda populista e personalizzazione carismatica attraverso una continua richiesta di partecipazione collettiva, di presenza democratica “dal basso”; innesta nel circuito del consenso messaggi nuovi, e mette al centro della propria strategia non la conservazione in quanto tale del potere, ma un’ idea complessiva di autoriforma della società, come unica via per superare davvero l’ emergenza e lo stato d’ eccezione. Usa il consenso per cercare di costruire un’ egemonia intellettuale e morale. È lo stile di Obama (se gli andrà bene, come tutti speriamo).

In questo senso, credo che al nostro centrosinistra farebbe bene un po’ di populismo, e anche una certa dose di forza carismatica. Voglio dire, una vocazione a intercettare i bisogni, le ansie, le fantasie – forse non tutte “politicamente corrette”, ma questo è il vero e ineludibile nodo della questione – di quella parte di popolo già “liquefatta” dalla trasformazione postindustriale, e ora dalla crisi, con cui ha purtroppo smesso da un pezzo di intendersi. Ma prima di cercare un nostro Obama, occorrerà porsi il problema di una generale riattivazione politica e democratica del corpo sociale del Paese, di ridargli insomma un’ anima “popolare” condivisa, e nello stesso tempo orientata verso nuovi orizzonti, dettati dalla ragione, e non solo dalle pulsioni emotive: più conoscenza, più saperi, più proporzione fra profitti e lavoro. E insieme più coesione, più merito, più eguaglianza, più senso critico. Ne saremo capaci? (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

E Obama inventò l’e-democracy.

di Lorenzo Montagna, commercial director Yahoo! Italia

Tutto il percorso che ha portato Barack Obama alla 44ma presidenza degli Stati Uniti, dalle primarie alla candidatura ufficiale, dall’Election Day all’Inauguration Day, è stato caratterizzato da un nuovo approccio ai media, in particolar modo internet. Usando le sue stesse parole, un ‘cambiamento’ totale che rivoluzionerà per sempre il rapporto tra web, politica e democrazia. Sicuramente Obama non è stato il primo personaggio politico ad affacciarsi al web, ma è quello che l’ha fatto con più convinzione e maggiore determinazione.

L’epoca pre-Obama è caratterizzata dall’uso non mirato e marginale del web per fare propaganda politica. Si restava, comunque, nell’ambito di una comunicazione one- to-many, dove i commenti (se presenti) restavano senza risposta e la partecipazione era inesistente. Ecco, la partecipazione. Il merito di Obama (e del suo staff) è stato passare dalla comunicazione al dialogo, allargando la possibilità di partecipazione prima a pochi gruppi di sostenitori e poi, a macchia d’olio, a un intero partito, a un paese, al mondo.

Obama ha sicuramente tratto vantaggio dal web, ma è vero anche il contrario. La sua elezione ha fatto da traino a un media che aveva bisogno della consacrazione al di fuori della cerchia degli addicted. Aveva bisogno di uno shock, di un evento che dimostrasse a tutti le sue straripanti potenzialità di aggregazione e di interattività. Così come lo sbarco sulla Luna nel 1969 fu determinante per l’affermazione della tv, 40 anni dopo l’elezione di Obama lo è per internet: un’esperienza aggregante che un’intera generazione ricorderà di aver vissuto soprattutto online.

L’Obama-mania è culminata il 20 gennaio con l’Inauguration Day, un evento che ha messo a dura prova la resistenza del mezzo e che ha fatto registrare un incredibile boom di contatti. Yahoo! Notizie, per esempio, negli USA è stato visitato da più di 9 milioni di utenti unici (1), piazzandosi al terzo posto tra i portali di news e confermandosi un punto di partenza ideale per informarsi in rete, mentre su Flickr (2) 3.439 utenti hanno seguito live la cerimonia caricando più di 13.500 foto direttamente da Washington o dedicate all’evento. Così il tanto citato ‘popolo della rete’ è stato definitivamente sdoganato passando da nicchia a opinion maker, allargando il proprio bacino a tutti coloro i quali volevano sentirsi parte della rivoluzione in corso. Ecco perché, al di là dell’importanza storica, l’elezione di Obama sarà ricordata come uno degli eventi più coinvolgenti della storia. Questa è anche l’opinione dei nostri utenti che recentemente hanno collocato l’evento subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle e la morte di Giovanni Paolo II in un sondaggio lanciato da Yahoo! Notizie (3).

Obama ha capito per primo il vero funzionamento della rete intesa non più come vetrina espositiva, ma finalmente come un intreccio di connessioni e ne ha sfruttato appieno le potenzialità del buzz. Tutto ciò che Obama ha detto, fatto e pensato durante la campagna elettorale è stato condiviso attraverso le più famose piattaforme del web. Non mostrato, ma condiviso. Le 53.526 foto caricate sul suo account Flickr sono state viste e commentate milioni di volte, ma non sono rimaste un fenomeno confinato alla rete, sono state riprese da tutti i siti, le televisioni e i giornali del mondo.

Il segnale che qualcosa sta cambiando, e che internet sta passando da media di nicchia a comun denominatore di molti, è il passo deciso verso forme di e-democracy concrete.

Alcune pubbliche amministrazioni, le più lungimiranti, stanno aprendo canali di interazione con i cittadini, altre si limitano alla messa in rete di documenti o alla digitalizzazione di procedure.

Alcuni personaggi politici stanno aprendo canali video e incentrando le proprie campagne sull’online.

Obama docet e sull’onda del suo successo segnalerei la campagna di comunicazione del ‘Plan E’, la soluzione alla crisi economica messa a punto dal governo Zapatero. Un lastminute website chiaro e funzionale dove il premier e i ministri spagnoli spiegano con video e immagini i piani del governo per uscire dalla crisi. È assente la parte ‘2.0’ di interazione e commento, ma è apprezzabile il tentativo d’importazione del modello web-centrico USA. (Beh, buona giornata).

Note:

1 Fonte: Nielsen Online , NetView Custom Analysis, 22 gennaio 2009

2 http://www.flickr.com/groups/inauguration2009/

3 Coinvolti più di 6.000 votanti. I risultati sono su http://it.notizie.yahoo.com/sondaggi/42319-risultati-wv.html

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Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche Società e costume

Lo scandalo è che in Italia gli scandali non sono fatti gravi, ma semplici opinioni.

La nostra infinita emergenza
di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

Sono ormai anni che viviamo nell’emergenza, e quasi non ci accorgiamo che ogni mossa, ogni parola detta in pubblico, ogni sopracciglio intempestivamente inarcato, son sottoposti a speciali esami di idoneità, che mescolano etica e estetica, dover essere e presunto buon gusto. La mossa, la parola, il sopracciglio, devono adeguarsi all’ora del disastro: sia esso attentato terroristico o ciclone, tsunami o terremoto. Chi rompe le righe si copre di colpe, prestamente censurate. Vergogna e indecenza sono il marchio impresso sulla fronte di chi non ha tenuto conto del perentorio buon gusto. L’emergenza è diventata una seconda pelle delle democrazie, e per questo non ci accorgiamo quasi più dell’anormale convertito in normale: delle libertà che per l’occasione vengono sospese, dell’autonomia di giudizio che vien tramutata in lusso fuori luogo.

È un po’ come il corno che cresce d’improvviso sulla fronte di tutti i concittadini di Bérenger, protagonista dei Rinoceronti di Ionesco: arriva il momento in cui la protuberanza è talmente familiare ed estesa che chi non la possiede si sente un reietto, e lo è. Anche durante il terremoto in Abruzzo è stato così, e questo spiega lo scandalo assolutamente abnorme generato da una trasmissione televisiva – Anno Zero di Santoro – che era un po’ diversa dalle altre perché fondata sulla denuncia polemica: dell’organizzazione dei soccorsi, e soprattutto della secolare commistione fra affari, corruzione, malavita, edilizia.

Indecente è stata definita la trasmissione, perché questa non era ora di far scandalo: di «seminare zizzania con i morti ancora sotto le macerie, di descrivere l’Italia come il solito Paese di furbi, incapaci di rispettare ogni legge scritta e morale», ha scritto Aldo Grasso sul Corriere della Sera, l’11 aprile. Lo spazio smodato dato su giornali e telegiornali all’evento è esemplare, perché conferma una malattia democratica diffusa. Incapaci di dominare eventi più grandi di loro, le democrazie vivono sempre più di emergenze, ne hanno bisogno esistenziale. A partire dall’ora in cui è pronunciata la frase fatale: «Questo non è il momento», già è stato di eccezione. In tempi normali è proprio questa l’ora delle controversie. Se non nel mezzo del disastro, quando farne l’archeologia e denunciare?

Non così in stato d’eccezione, quando è il regnante a decretare natura e vincoli del momento. La sua sovranità è essenzialmente sulla vita e la morte, e il momento è dunque quello delle bare allineate, del supremo dolore, del lutto vissuto nell’unanime afflizione. Grazie a questo momento si crea un’unità magica, propizia all’intensificazione massima della sovranità. Viene mobilitato anche l’Ecclesiaste: «C’è un tempo per demolire e un tempo per costruire». La Bibbia per la verità parla all’anima, ma nell’emergenza anima e politica si fondono. Assieme, esse giustificano lo stato d’eccezione che sempre esordisce con la soppressione, non si sa se davvero provvisoria, di libertà e abitudini alla critica vigenti in epoche di pace. Giorgio Agamben, che ha studiato tale materia, racconta come morte e lutto siano ingredienti dello stato d’eccezione sin da Roma antica: l’emergenza si chiamava iustitium, e in quei giorni veniva abolito il divieto di mettere a morte un cittadino senza ricorso a un giudizio popolare (Agamben, Lo Stato di eccezione, Torino 2003).

Stato d’eccezione o emergenza sono in realtà imbellimenti di quel che effettivamente accade, camuffano lo stato di guerra: per l’Oxford English Dictionary, sono suoi sinonimi, eufemismi. È in guerra che i comportamenti liberi, biasimatori, son ribattezzati disfattisti. Nell’emergenza guerra, disastro e morte richiedono un dover-essere e un dover-dire. È a questo punto che lo stato di eccezione si tramuta in regola, e il sistema giuridico politico in «macchina di morte». La morte fa tacere il popolo e al tempo stesso nutre il sovrano. È il grande correttore, regolatore: non dici cose scomposte davanti a una salma, anche se veritiere. Il potere usa la morte: diviene necrofago. L’uomo colpito da catastrofe è ridotto a vita nuda e quest’ultima sovrasta la vita buona, prerogativa di chi tramite la politica e la libera opinione esce dalla minorità. La nudità politica, scrive Hannah Arendt nelle Origini del Totalitarismo, può esistere anche senza diritti civili.

Il fenomeno non è nuovo, Agamben lo spiega molto bene. I giorni dello iustitium sono anche i giorni in cui si celebra il lutto del sovrano. Leggi e libertà non sono abolite ma sospese, perché l’essenza del potere (potere di vita e di morte) non appaia vuoto. Da allora ogni disastro, naturale o terrorista, è occasione di affermare tale essenza. Di mettere in scena non il morire o il multiforme soffrire dei cittadini, ma la possibile morte del sovrano e della stessa politica. L’unità si fa non attorno alle salme ma al sovrano, il quale dice: «Sono io in causa, e la vera posta in gioco è la dilazione della mia messa a morte, l’anticipazione rituale del lutto della mia persona».

Nella storia della democrazia c’è anche questo: l’eccezione che cessa d’esser tale, facendosi regola. Che non proclama più giorni di lutto, ma epoche. Tutto è guerra, in permanenza si tratta di riconfermare il sovrano unendo il mio col suo, la solidarietà emotiva di cui ho bisogno io e quella di cui necessita lui. L’idea che tale sia la guerra moderna nasce nel ’14-’18, ed è teorizzata da uno dei suoi protagonisti, Erich Ludendorff, nella Guerra Totale scritta nel 1935. Nella guerra democratica totale scompare la distinzione tra fronte e retrovia, militari e civili (Heimatfront è la fusione hitleriana – animista, dice Ludendorff – tra fronte e patria). Il governo delle emozioni permette di metter fra parentesi libertà e norme, e in questo ha le stesse funzioni della violenza fuori-legge. Il giornalista che aderisce agli imperativi di tale emergenza distrugge il proprio mestiere.

Nei disastri c’è chi soffre, chi governa, chi racconta (messaggero nella tragedia antica, giornalista oggi) e chi indaga rammentando. Ogni ambito ha un suo dover-essere, una sua autonomia. Se la priorità per il messaggero sono i sofferenti, si racconterà tutto quel che essi provano: gratitudine ma anche rabbia, sollievo per i soccorsi e ira suscitata da uno Stato complice di speculazioni edilizie. Chi ha letto Gomorra, ricorderà quel che Saviano scrive nel capitolo sul cemento armato, «petrolio del Sud», a pagina 235-236: «Tutto nasce dal cemento. Non esiste impero economico nel Mezzogiorno che non veda il passaggio nelle costruzioni: appalti, cave, cemento, inerti, mattoni, impalcature, operai… L’imprenditore italiano che non ha i piedi del suo impero nel cemento non ha speranza alcuna. È il mestiere più semplice per far soldi nel più breve tempo possibile.… Io so e ho le prove. So come è stata costruita mezza Italia. E più di mezza. Conosco le mani, le dita, i progetti. E la sabbia. La sabbia che ha tirato su palazzi e grattacieli. Quartieri, parchi e ville. A Castelvolturno nessuno dimentica le file dei camion che depredavano il Volturno della sua sabbia… Ora quella sabbia è nelle pareti dei condomini abruzzesi, nei palazzi di Varese, Asiago, Genova».

L’emergenza, come la guerra, ha sue leggi speciali. Non sono le leggi della dittatura, perché la dittatura crea nuove leggi. Lo stato d’eccezione permanente è più insidioso: non instaura regolamenti nuovi, ma sospende leggi e libertà creando vuoto legale, anomia. L’Ecclesiaste a questo punto non è parola di Dio, ma decreto del sovrano che assieme al giornalista-messaggero invoca unanimismo. Il giornalista nega se stesso, quando consente a mettere sullo stesso piano gli abusi dell’edilizia e gli «abusi di libertà» di chi punta il dito su tali abusi: invece di vigilare, giustifica – per sé e i concittadini – lo stato d’eccezione. (Beh, buona giornata).

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Attualità Popoli e politiche Pubblicità e mass media Società e costume

Un ragionamento sulle gaffes di Berlusconi.

da blitzquotidiano.it

Questo è un aggiornamento, basato sui fatti recenti, di un commento dedicato alla propensione alle gaffes del primo ministro italiano Silvio Berlusconi.

Lo si è visto durante il terremoto. Serio, durante i funerali, anche se visibilmente annoiato e impaziente. Ma composto, ineccepibile.

E ha dimostrato una capacità di rapporto con la gente, certo basata sul populismo più che sul sinceeroi sentimento, ma che ha fatto di sicuro bene alle migliaia e migliaia di abruzzesi rimasti senza casa e costretti a vivere sotto le tende. Passare con loro la Pasqua è stata una scelta giusta e intelligente, che si discosta dal freddo e imbarazzato comportamento del passato.

Non è che questo renda più buono Berlusconi: per i suoi avversari, però dovrebbe essere una ulteriore prova di quanto sia abile e per loro pericoloso.

Se poi ci voleva una conferma della tesi che le gaffes di Berlusconi sono in prevalenza frutto di scelte politiche, il terremoto in Abruzzo, nel grande dolore che ha provocato, l’ha data.

A smontare questa teoria non è valsa la montatura fatta da alcuni giornali stranieri di una frase detta da Berlusconi ad alcuni bambini rimasti senza casa a causa del terremoto in Abruzzo. Semmai si tratta della logica conseguenza di un uso e abuso di battute di spirito da parte del premier italiano, che spesso viene classificato come “gaffes”.

Per chi pensa che il premier Silvio Berlusconi non faccia mai niente a caso, quelle che per gli osservatori superficiali sono delle gaffes diventano invece degli atti politici ben precisi.
Non a caso Berlusconi le fa: come direbbero i suoi odiati giudici, reitera. Uno come lui, che vive di tv, politica e sondaggi, non lo farebbe se ne avesse, dai sondaggi dei riscontri positivi dalla sua base elettorale, o almeno una consistente parte di essa.

Facendo il cucù alla cancelliera tedesca Angela Merkel, trattando da pari a pari, come un coscritto, il presidente francese Nicolas Sarkozy, Berlusconi fa superare al nostro inconscio italiano un complesso di inferiorità verso gli stranieri, che trova riscontro in tanti film di Alberto Sordi o di Totò.

Siamo abituati a essere guardati dall’alto in basso un po’ in tutto il mondo. Ci consoliamo dicendoci da soli che siamo simpatici perché distribuiamo pasta e pomodoro (salvo poi essere ripagati da bombe e fucilate): infatti quegli stessi stranieri extracomunitari che umilmente ci servono come badanti o camerieri, a casa loro ci chiamano proprio così, “macaroni”. E così fanno anche i francesi: anche in questo caso, un classico del cinema, “Rififi”, di Jules Dassin, conferma.

Berlusconi in un certo senso pareggia il conto, ci rende giustizia, ci fa sentire alla pari degli altri. Noi lo neghiamo, ma intimamente li sentiamo superiori a noi. Che poi così facendo ribadisca nelle loro teste il concetto che non siamo gente simpatica sì, ma poco seria e quindi poco affidabile, diventa marginale. A un’intepretazione politica è certamente ascrivibile la più clamorosa delle gaffes, quella a Buckinghan Palace, davanti alla regina d’Inghilterra, anzi, dietro le sue spalle. E anche la susseguente ira di Berlusconi, che se l’è presa con i giornali invece che con sé stesso, ha una evidente motivazione politica.

Vediamo i due episodi.
Berlusconi, dopo la foto di gruppo a Buckingham Palace la vigilia del summit dei G20, non sta nella pelle, vuole a tutti i costi la foto con il presidente americano Barack Obama e lo chiama a gran voce, come si sente chiaramente nel video diffuso da Youtube. «Mister Obamaaaaaa!», chiama a voce alta, provocando, come in tanti hanno potuto vedere, il fastidio della sovrana.

La foto che ne consegue, è anch’essa una foto di gruppo , molto meno informale della prima, con tutti i personaggi ritratti felici e sorridenti come scolari in gita. Al vertice del gruppo, più in alto di tutti, c’è Berlusconi. Accanto Obama. Berlusconi non sta nella pelle dalla gioia. Obama, col pollice trionfalmente alzato e un ghigno soddisfatto, è anche lui al settimo cielo. Le ragioni della gioia di Obama sono evidenti: un summit che poteva naufragare davanti agli occhi del mondo intero per il nulla di fatto che vi è stato ottenuto, è invece riuscito a trasferire al mondo un’immagine di successo il cui effetto psicologico, se non altro sui sondaggi, almeno qualche tempo dovrebbe continuare.

E Berlusconi? Beh, lui ha le sue ragioni e sono più di una. Ha fatto la pace con Obama. Posando con lui, Obama ha mostrato di non essersela presa proprio per la battuta sulla abbronzatura del presidente americano. Anzi, non solo posa, ma posa felice, e quasi quasi le loro teste si sfiorano nel sorriso.
Obama, che ha escluso l’Italia dal suo viaggio in Europa quasi per punire il governo Berlusconi dell’eccessivo appiattimento su Bush (e dato che l’Italia conta nel mondo molto poco, gli americani hanno fatto finta di niente con l’Inghilterra di Gordon Brown ma a noi ce l’anno fatta pagare, umiliandoci: Obama è stato in Gran Bretagna, Francia, Germania e Turchia, ha visto testa a testa i premier di Spagna e Grecia, ma con Berlusconi solo la foto, con tutti gli altri, e a gentile insistenza).

Ora tutto sembra superato, Obama verrà in Italia in luglio, per il G8, ma nel frattempo Berlusconi gli ha strappato un invito a Washington, del genere «se proprio vuoi, vieni pure». Non c’è che dire: «Silvio l’è propi simpatic, ogni tanto sarà un po’ monello, ma alla fine tutti lo perdonano e vince semper lu».

In questa logica, anche l’irritazione per il risalto che siti e giornali italiani hanno dato all’aristocratico scatto di nervi della regina è un fatto politico. La regina, oltre a essere una signora di ottant’anni che non sopporta i rumori e i toni di voce eccessivi, è anche discendente da una stirpe che, per dritto o per traverso occupa quel trono da quasi mille anni. Subire un rimbrotto da una persona così è come entrare al Grand’Hotel con le scarpe gialle o bicolore e essere guardati dall’alto in basso da ospiti e portieri con quel “mepris” che ti fa arrossire per la brutta figura (espressione italiana entrata ormai nel linguaggio internazionale).
Il rimprovero della regina è old money contro new money, è la maionese impazzita che rovina il pesce.

È quello sguardo che ti dice: sei sempre lo stesso, un povero “macarone”. E dopo tanti sforzi per accreditarsi con “Mister Obamaaa”, la delegittimazione più nera e umiliante.

E un po’, che uno sia pro o contro Berlusconi sul piano politico poco importa, la cosa dovrebbe irritare tutti. Non c’è solo Berlusconi a fare gaffes al mondo. Un giornale inglese di recente ha stilato l’elenco delle venti gaffes più recenti del presidente americano Barack Obama e del suo vice Joe Biden. E non hanno proprio nulla da imparare dal povero cavaliere. Ma tant’è, Lui è Lui, è ricco, e soprattutto italiano. E gli italiani nel mondo sono, ci piaccia o no, quel che i romeni sono in Italia. Anche per questo, forse, un politico che, nonostante l’età, nutre ancora grandi ambizioni di rappresentare l’unità nazionale, alle belle o brutte figure dovrebbe stare più attento. (Beh, buona giornata).

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Popoli e politiche

La democrazia e i pericoli del leader carismatico.

di LUCIA ANNUNZIATA da lastampa.it

Scriveva, negli Anni Venti, Max Weber che la leadership carismatica è definita da «una certa qualità della personalità di un individuo, in virtù della quale egli si eleva dagli uomini comuni ed è trattato come uno dotato di poteri o qualità soprannaturali, sovrumane, o quanto meno specificamente eccezionali. Questi requisiti sono tali in quanto non sono accessibili alle persone normali, ma sono considerati di origine divina o esemplari, e sulla loro base l’individuo in questione è trattato come un leader».

Pensando a queste note, ieri, non si poteva che provare simpatia per il presidente della Camera mentre teneva il suo discorso alla Fiera di Roma per dire addio ad An e scioglierla nel Pdl. Nell’eterna saga del suo dualismo con Silvio Berlusconi (uno dei pochi punti fermi della politica italiana, esattamente come il dualismo Veltroni/D’Alema) Gianfranco Fini ha provato, come sempre fa da anni, a mantenere il proprio ruolo di alleato leale ma diverso, mettendo paletti e definendo regole per il futuro partito unico. Ma, in realtà, che partita davvero può giocare un normale (sia pur talentuoso) politico di fronte a un leader quale quello raccontato da Weber?

La vera novità del Pdl unificato, che nascerà formalmente nell’assemblea convocata a Roma da venerdì a domenica prossima, è proprio la scelta di una leadership carismatica. Concetto che nella storia abbiamo visto spesso emergere, nel bene e nel male, da Gandhi a Hitler (la definizione, dice Weber, non ha in sé un giudizio «morale»). Ma mai nessuno ha finora provato a tradurlo in una regola politica, applicandolo cioè alla formazione di un partito, che rimane, dopo tutto, un’entità burocratica, sia pure nel senso più alto. Compito di una organizzazione è selezionare la classe dirigente, coordinare le politiche di un’area di pensiero, lavorare al rapporto fra cittadini e istituzioni (coltivando consenso o dissenso), produrre cultura politica. Un partito è insomma uno dei bracci operativi della democrazia, nel senso proprio di fluidificare il rapporto tra potere e cittadinanza.

Tant’è che i partiti moderni, in particolare quello americano, sebbene considerato «leggero» (e a cui pure si riferisce il nuovo Pdl), sono su base elettiva – a cominciare dalle primarie. Il «carisma», è vero, è sempre stato un concetto forte della politica, in particolare negli Usa. Ma come attributo della personalità: ad esempio, Carter (senza carisma) e Obama (carismatico) sono stati eletti e hanno governato con le stesse regole. Viceversa, i partiti in cui la classe dirigente non è selezionata da una scelta di base (penso al partito comunista dell’Unione Sovietica) sono solo una finzione che copre o autoritarismo o populismo.

Tecnicamente, dunque (e mi piacerebbe ascoltare il parere dei costituzionalisti), partito e leadership carismatica dovrebbero essere incompatibili. E segni di questa incompatibilità si avvertono fin da ora anche sulla strada appena iniziata dal Pdl.

Silvio Berlusconi è l’indiscusso leader della sua area politica e della stessa Italia. Altro però è che venga eletto come guida del suo partito senza nessuna (nemmeno formale) selezione. Sappiamo che se un pazzo volesse presentarsi contro di lui nella prossima assemblea non potrebbe, perché non è prevista nemmeno la procedura per un diverso candidato: si può immaginare qualcosa di più debole? La leadership così eletta si riproduce infatti immediatamente nell’alterazione delle regole della stessa organizzazione: sarà ancora Silvio Berlusconi, eletto plebiscitariamente, a nominare gli organismi che guideranno il partito. Allora a cosa servono i delegati, e a che serve il partito se non a esprimere la propria classe dirigente? Aggiungiamo che nelle intenzioni del premier la segreteria sarà formata dai ministri più qualcun altro: che ruolo ha un partito espressione diretta di un governo, visto che invece dovrebbe lavorare esattamente lì dove il governo non arriva?

Si può obiettare, e a ragione, che il Pd prova che nella sostanza le primarie e le elezioni assembleari possono essere aggirate e ridursi a commedia. Ma, è sempre il Pd a provarlo, il principio comunque diventa vitale quando poi si arriva alla crisi di una gestione.

Torniamo così a Fini. Il presidente della Camera non può non sapere queste cose. Per questo ha riproposto un partito con «dialettica interna», che non si appiattisca sul «pensiero unico», né sul «culto della personalità», né su un presidenzialismo «che emargini il Parlamento». Ma la sua è una concezione normale, terrena potremmo dire, del lavoro politico. Quella di Silvio Berlusconi è invece una concezione eccezionale. Il partito che nasce è una emanazione e un sostegno al leader assoluto, del governo come delle piazze. Del resto è già così: chi in Italia può competere per forza popolare e fortuna personale con Silvio Berlusconi? Solo che fondare un partito su una leadership carismatica vuol dire formalizzare questa superiorità assoluta.

Quella del presidente della Camera potrebbe essere dunque definita una battaglia permanentemente persa. E molti osservatori lo scrivono. Ma c’è un’idea politica anche nell’ostinazione con cui si ripresentano le proprie convinzioni. E soprattutto c’è sempre un’idea politica nell’attesa stessa. Tanto per citare di nuovo Max Weber: «Per la sua peculiare natura e per la mancanza di un’organizzazione formale, l’autorità carismatica dipende dalla cosiddetta legittimità politica percepita. Se dovesse vacillare la forza di siffatta fede, lo stesso potere del capo carismatico potrebbe decadere rapidamente, il che per l’appunto costituisce una manifestazione di come questa forma di autorità sia instabile». (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

A proposito di povertà.

da Guglielmo Forges Davanzati e Andrea Pacella – da economiaepolitica.it

Nel rapporto 2008, l’Istat quantifica la soglia di povertà per una famiglia di due componenti come equivalente a una spesa media mensile per persona pari a 986,35 euro. Stando alle ultime rilevazioni ufficiali disponibili, nel periodo compreso fra il 2002 e il 2006, il numero delle famiglie povere è aumentato, per l’Italia nel suo complesso, del 6.80%, con significative differenze regionali.

Si tratta del periodo che intercorre fra l’adozione dell’euro e l’avvio dell’esperienza di governo del centro-sinistra, nel quale si sono manifestate con la massima intensità le politiche di deflazione salariale. E’ la fase nella quale l’impoverimento in Italia è da imputare essenzialmente alle strategie di riduzione dei costi di produzione, e dei salari in primis, che le nostre imprese – nella sostanziale assenza di innovazione tecnologica – hanno trovato conveniente porre in essere per tentare di recuperare margini di profitto nei mercati internazionali. Per quanto attiene alla politica economica, in questa fase, il rispetto del dogma della ‘sana finanza pubblica’ unito alle politiche monetarie restrittive della BCE hanno contribuito a comprimere i salari reali. Da un lato, infatti, la riduzione della spesa pubblica, riducendo l’occupazione, ha ridotto il potere contrattuale dei lavoratori, già reso minimo dalle politiche di ‘flessibilità’ del lavoro. Dall’altro, l’aumento dei tassi di interesse ha accresciuto le passività finanziarie delle imprese, spingendole a caricare tali costi addizionali sui costi di produzione e, dunque, sui prezzi.

Va notato che il Mezzogiorno sembra aver sperimentato una performance migliore rispetto a tutte le altre aree del Paese, con una riduzione percentuale delle famiglie povere quasi pari all’8%. E tuttavia, in termini assoluti, il numero delle famiglie meridionali in condizioni di povertà risulta di gran lunga superiore al numero delle famiglie povere residenti nelle altre macro-regioni. Questa situazione può essere in larga misura spiegata con la ripresa dei flussi migratori dal Sud al Nord del Paese nell’unità di tempo considerata, così che la riduzione dei residenti poveri, oppure la riduzione dell’ampiezza delle famiglie povere, i cui componenti si sono trasferiti in regioni con maggiore domanda di lavoro, può aver determinato un trend di relativo arricchimento. La condizione di povertà nel 2007 risulta poi essere ancora marcata nel Mezzogiorno, se si considerano le Isole. In questa macro-area si registra, infatti, un’incidenza di povertà relativa di gran lunga superiore rispetto alla media nazionale e in crescita rispetto alla precedente rilevazione: il numero di famiglie povere nel Mezzogiorno si attesta a 1725000, con un incremento dello 0,72% rispetto al 2006[1].

L’incidenza della povertà è più contenuta nelle famiglie i cui membri sono occupati (in forma autonoma o subordinata), anche se la presenza di persone in cerca di occupazione o di individui ritirati dal lavoro senza un’autonoma fonte di reddito costituisce un elemento che pesa significativamente sul livello di povertà dell’intero nucleo familiare. La povertà in Italia colpisce maggiormente gli individui in cerca di occupazione, gli anziani e le famiglie con componenti a carico. Inoltre, la povertà colpisce significativamente le famiglie con a capo un operaio (13,9%). Il numero di queste ultime, infatti, è circa il doppio del numero di famiglie con a capo un lavoratore autonomo (6,3%) ed è quasi quattro volte superiore al numero delle famiglie con a capo un libero professionista (3,7%). A ciò va aggiunto che, nel 2007 e per l’Italia nel suo complesso, le famiglie che si trovano in condizioni di povertà relativa sono 2 milioni 653 mila e rappresentano l’11,1% delle famiglie residenti in Italia. A fronte di questa evidenza, il nostro Governo limita ad azioni irrisorie le politiche di contrasto alla povertà. Ferma restando l’obiezione di natura etica nei riguardi di un provvedimento che rende di pubblico dominio la condizione individuale di indigenza, resta da chiarire su quali basi si è stimato che 40 euro mensili derivanti dall’uso della social card possano alleviare in modo significativo le condizioni di povertà estrema.

Il “capitalismo compassionevole” – la filosofia che, in ultima analisi, ispira questi interventi – è un topos degli esecutivi di Destra e, in quanto tale, non sorprende la natura e l’entità di queste misure. Si resta, invece, perplessi quando si apprende che questa linea – ovvero la sostanziale inazione – viene rivestita di scientificità. Andrea Garnero, recentemente e sulle colonne on-line della voce.info, suggerisce di non introdurre in Italia il reddito minimo, criticando a riguardo il RMI francese, adducendo la duplice motivazione che ciò incentiverebbe il lavoro nero e l’evasione fiscale e costituirebbe un aggravio insostenibile per le finanze pubbliche.

A ciò aggiunge che il reddito minimo costituisce un disincentivo al lavoro. La prima motivazione potrebbe avere semmai un fondamento se letta a contrario: è proprio laddove i lavoratori inoccupati non dispongono di redditi non da lavoro, sono costretti ad accettare posti di lavoro irregolari. La seconda motivazione è, soprattutto oggi, del tutto inconsistente, alla luce del sostanziale venir meno dei vincoli di Maastricht e del Patto di Stabilità, nonché delle numerose dimostrazioni teorico-empiriche dell’assenza di stringenti criteri scientifici che possano legittimare politiche di pareggio di bilancio[2]. A ciò si può aggiungere che, anche nel tendenziale rispetto dei parametri di Maastricht, risorse aggiuntive per far fronte al problema potrebbero essere ricavate da più efficaci azioni di contrasto all’evasione fiscale, che l’Agenzia delle Entrate stima nell’ordine dei 250 miliardi di euro (circa il 20% del PIL), dei quali sono stati recuperati, nel 2007, solo 6 miliardi.
Appare allora chiaro che la reale motivazione che sottende questi argomenti sta nel fatto che l’erogazione di un reddito minimo – qualunque sia la modalità con la quale viene concepito – ha il duplice effetto di accrescere il salario di riserva, aumentando, per questa via, il potere contrattuale dei lavoratori, e di disincentivare non la ricerca di lavoro in quanto tale, ma la ricerca di un’occupazione con mansioni non coerenti con le qualificazioni acquisite.

Per contro, se si conviene che la crisi in atto è una crisi da bassi salari[3], ciò che occorrerebbe fare è semmai muoversi nella direzione opposta rispetto a quanto si sta facendo in Italia, e rispetto a quanto suggerito da Garnero, con azioni finalizzate ad accrescere le retribuzioni in termini reali, soprattutto a beneficio dei percettori di redditi più bassi con maggiore propensione al consumo. Con una specificazione rilevante. La pura erogazione di un sussidio in moneta può rivelarsi inefficace per questo obiettivo, in condizioni nelle quali le imprese – soprattutto mediante strategie finalizzate ad accrescere la concentrazione industriale – possono accrescere i prezzi. Il che non solo non è da escludere, ma è anche verosimile, dal momento che l’aumento dei salari reali – per una struttura di mercato data e in assenza di incrementi di produttività – riduce i margini di profitto.

In tal senso, l’introduzione di un reddito minimo può dar luogo a esiti inflazionistici, se le imprese sono in grado di neutralizzare per questa via il rafforzamento del potere contrattuale dei lavoratori[4]. Per l’obiettivo di contrasto alla povertà, questa considerazione porta a ritenere preferibile – rispetto all’erogazione monetaria – la fornitura diretta di beni e servizi da parte dell’operatore pubblico, proprio perché offre ai beneficiari la certezza del miglioramento delle loro condizioni materiali di vita.

Il che potrebbe essere realizzato mediante misure di ridistribuzione del reddito che garantiscano una maggiore produzione di beni e servizi pubblici mediante la tassazione dei redditi più alti, in primo luogo colpendo i profitti derivanti dalle speculazioni finanziarie. (Beh, buona giornata).

[1] Il numero delle famiglie povere nel Mezzogiorno (Sud e Isole) nel 2006 è, infatti, pari a 1712621.
[2] Si veda il materiale contenuto nel sito http://www.appellodeglieconomisti.com/.
[3] Sul tema si rinvia, fra gli altri, all’intervento di Sergio Rossi del 6.2.2009, su www.economiaepolitica.it.
[4] Per una trattazione più ampia e analitica del tema, si rinvia a A.Graziani, The monetary theory of production, Cambridge: Cambridge University Press, 2003.

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Finanza - Economia - Lavoro Popoli e politiche Società e costume

“I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione – o trasvalutazione – dei valori.”

di BARBARA SPINELLI da lastampa.it

C’è sempre il sospetto, quando si parla con frequenza assillante di un bene o una virtù, che i tempi in cui se ne parla siano specialmente vuoti: che quel bene si assottigli, e in particolare il bene comune. Che le virtù si faccian rare: in particolare quelle esercitate nella sfera pubblica, presidiate da istituzioni e costituzioni durevoli ma discusse. Sono i tempi in cui con più fervore garriscono le bandiere dei valori, come ebbe a scrivere Carl Schmitt nel breve saggio del 1960 intitolato La Tirannia dei Valori (Adelphi, 2008). Salvare i valori da questi sbandieramenti è urgente, perché è pur sempre in nome di principi e valori che la stortura andrà corretta.

Tempi simili son dichiarati cinici, nichilisti. In genere son colorati di nero. Enzo Bianchi, in un testo scritto su La Stampa dopo la morte di Eluana, li chiama tempi cattivi, da cui usciamo non concordi ma più divisi (15-2-09). Tempi in cui il vociare attorno ai valori si dilata, invadendo lo spazio più intimo dell’uomo «al solo fine del potere», e distruggendo i valori stessi. Tempi in cui il sale perde il suo sapore e però diventa molto salato, corrosivo. Può accadere addirittura che s’unisca al salace, producendo strane misture di gossip, lascivia e moralismo. Negli Ultimi Giorni dell’Umanità, Karl Kraus descriveva l’eccitata vigilia della Guerra ’14-’18 come epoca di valori tanto più gridati, quanto più fatui. I giornalisti, tramutati in vati, erano ingredienti decisivi di quest’epoca enfatica, violenta e cieca.

Non è diversa la crisi che viviamo, e di sicuro s’aggraverà man mano che lo sconquasso finanziario ci toccherà da vicino. Come custodire in tali condizioni il potere, quando governi e politici sono ingabbiati nella dura necessità di un precipizio che controllano a mala pena o non controllano affatto, essendosi affidati alle illusorie forze degli Stati-nazione? Possono dire, con Cocteau: «Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli organizzatori». È quello che fa il presidente del Consiglio in Italia: prima negando la crisi, poi accusando i media d’ingigantirla evocando tragedie, sempre usando i valori come diversivi. I valori sono già oggi e diverranno sempre più lo strumento per governare con magniloquenza e distrarre l’attenzione da sfide vere, mal comprese e mal spiegate. Prendono il posto del mistero che ci oltrepassa, s’impongono con rigide gerarchie: ci sono valori superiori, e poi più giù valori inferiori o perfino disvalori. Al disastro dell’impotenza, a una politica incapace di reinventare linee divisorie, si replica con ferree graduatorie: ogni schieramento pretende d’esser custode dei valori supremi, relegando l’avversario nelle terre dei disvalori. Facendo garrire i valori, nessun mistero ci oltrepassa: invece della crisi, si parla d’altro.

Non sono in questione solo la morte e la vita, come nel caso Englaro. I valori in blocco, cioè l’insieme di virtù e beni, vengono tramutati in espediente, in trucco che distrae. La giustizia, la libertà, l’eguaglianza, la vita, la pace, l’autonomia, il benessere dei più, la moderazione del dialogo politico non sono in sé squalificati: restano beni essenziali, per la costituzione e il cittadino. Ma nello stesso momento in cui sono adoperati a fini di potere si snaturano, trasformandosi in mezzi. Il potere, innalzato a fine, non li serve ma se ne serve per affermarsi e negare l’avversario.

I valori come assillo che finisce col distruggere quel che si vuol restaurare non sono una novità. Apparvero nell’800, in risposta a un nichilismo ritenuto letale per i valori supremi e addirittura per Dio. Oggi tornano in auge, come strumento di lotta all’avversario, deturpando parole e abolendo antiche distinzioni. Secondo Kant ad esempio, sono le cose ad avere un valore (le si fanno valere sulla base d’un prezzo, sono scambiabili) mentre le persone, se considerate fini e non mezzi, hanno una dignità che non si paga ma si rispetta. Basti pensare al termine valore-rifugio: in economia funziona, nell’etica no. Anche la Chiesa si presta a un’operazione che assolutizzando i valori li incattivisce, e non è un caso che il Concilio Vaticano II – con il suo desiderio di vedere la realtà da più punti di vista – sia considerato da tanti un impedimento. Ci sono parole di Giovanni XXIII difficilmente immaginabili oggi: «Qualcuno dice che il Papa è troppo ottimista, che non vede che il bene, che prende tutte le cose da quella parte lì, del bene: ma già, io non so distaccarmi naturalmente, a mio modo, dal nostro Signore, il quale pure non ha fatto che diffondere intorno a sé il bene, la letizia, la pace, l’incoraggiamento». L’arroganza dei valori è da anni prerogativa della destra, ma non sempre fu così. Anche quando si chiamavano virtù, c’era chi non dissociava valori e violenza. Nella Rivoluzione francese Robespierre diceva: «Il terrore è funesto, senza virtù. La virtù è impotente, senza terrore».

I valori degradati a mezzi cambiano il linguaggio, e ci cambiano sfociando nella svalutazione – o trasvalutazione – dei valori. Fin quando sono fini, essi devono costantemente confrontarsi con valori non meno possenti, se vogliono generare regole condivise da chi – pur discordando – deve pur sempre convivere. Se vogliono evitare l’antinomia, che è lo scontro fra norme egualmente primarie ma diverse. Per proteggere il fine, devono scendere a patti. Le costituzioni sono lo sforzo tenace, acribico, di conciliare leggi morali in conflitto tra loro ma egualmente preziose, da preservare una per una (per esempio l’eguaglianza e la libertà, il diritto alla vita e il diritto a dominare la propria morte). Quando invece i valori sono espedienti, possono divenire prevaricatori, visto che il fine è il potere di chi li maneggia: qui è la loro possibile tirannia. Se i valori sono un fine, i mezzi vanno adattati alla loro molteplicità. Se cessano di esserlo, lo scontro si fa feroce e il valore vincente assurge a valore non solo supremo ma unico. Forse per questo esistono pensatori e filosofi non minori che diffidano della parola valore, preferendo parlare di principi, beni o norme.

La crisi economica che traversiamo è tragica, checché ne dica il presidente del Consiglio, proprio perché il politico per padroneggiarla converte i fini in mezzi e viceversa. Perché svaluta valori o li assolutizza, capricciosamente servendosene. La crisi attualizza più che mai quel che Marx scriveva nel Manifesto: «La borghesia non salva nessun altro legame fra le singole persone che non sia il nudo interesse, il “puro rendiconto”.(…) Tutto quel che è solido evapora, tutto ciò che è sacro è sconsacrato, e alla fine l’uomo è costretto a guardare con freddo spirito le sue reali condizioni di vita e le relazioni con i suoi simili».

Il valore unico, come il pensiero unico, taglia le ali a altri valori e non preservandoli crea squilibri. Prefigura alternativamente o guerre di tutti contro tutti, o estesi conformismi. Assolutizza perfino i modi del conversare democratico. La scorsa settimana ne abbiamo avuto un esempio. Venuto da fuori, straniero al comune sentire come i persiani delle Lettere di Montesquieu o il bambino di Andersen che scopre il re nudo, un allenatore di calcio (José Mourinho, dell’Inter) ha denunciato la «grandissima manipolazione dell’opinione pubblica», la «prostituzione intellettuale» di tanti giornali, il «pensare onesto» che in Italia fatica a guardare i fatti e s’abbarbica a idee preconfezionate. Ad ascoltarlo c’era da trasecolare: Mourinho sembrava parlasse non del calcio, ma dell’Italia tutta. Subito è stato zittito in nome dei sacrosanti «toni bassi»: quest’altro valore supremo, usato come mezzo per non affrontare il merito di una questione e azzittire avversari o magistrati. Toni bassi abbandonati senza pudore, ogni volta che fa comodo al capriccio dei potenti. (beh, buona giornata).

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Leggi e diritto Popoli e politiche

Zagrebelsky: “Le nostre società sono un continuo produrre disuguaglianza: nelle condizioni economiche e culturali, nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione alle deliberazioni pubbliche.”

di Cesare Martinetti – «La Stampa»

L’ex presidente della Consulta Zagrebelsky prepara la Biennale di Torino. “Se non ci sono argini il potere è portato a espandersi e corrompersi”

In Italia c’è qualcosa che si può definire «disagio democratico»? Stiamo scivolando verso il populismo, la demagogia o l’oligarchia, come molti dicono? La crisi del Partito Democratico è una questione interna alla sinistra o investe l’intero quadro della democrazia? C’è materia sufficiente per rimettersi a ragionare sui principi. È quello che si propone di fare Biennale Democrazia che si svolgerà a Torino dal 22 al 26 aprile, alla quale Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista ed ex presidente della Consulta, sta lavorando con un gruppo di giuristi, filosofi e sociologi torinesi.

Professor Zagrebelsky, com’è nata e cos’è la Biennale?
«È nata dall’idea di Pietro Marcenaro di proseguire ciò che si fece con le “Lezioni Bobbio” nel 2004, una serie di incontri su grandi temi di etica pubblica e filosofia della politica che si svolse tra la primavera e l’autunno del 2004. Il successo fu straordinario, al di là delle previsioni».

Perché Biennale? E perché Democrazia?
«Perché si ripeterà ogni due anni e tratterà dei grandi temi della democrazia, a incominciare dalle sue “promesse non mantenute”, secondo la formula di Bobbio. Il tema è altamente “politico” ma le iniziative previste non saranno in alcun modo passerelle per “i politici”. Questa è una pre-condizione per evitare strumentalizzazioni e preservarne il carattere esclusivamente scientifico».

Ma il fatto stesso di porsi il problema dello stato della democrazia non è già prendere una posizione politica?
«La democrazia è un regime sempre problematico. È un insieme di diritti, regole e procedure che mirano a un ideale, l’autogoverno consapevole dei cittadini. È un ideale di convivenza da perseguire e nessuno mai potrà dire che esso è raggiunto definitivamente».

Un ideale sempre in bilico, dunque?
«Forze nemiche della democrazia sono sempre all’opera per il suo svuotamento. Per esempio, una condizione di successo della democrazia è l’uguaglianza delle posizioni. Ora le nostre società sono un continuo produrre disuguaglianza: nelle condizioni economiche e culturali, nell’accesso alle informazioni, nella partecipazione alle deliberazioni pubbliche. La democrazia non è solo voto e elezioni. Voto e elezioni possono anche essere inganni, se non si nutrono di presupposti sostanziali».

Dunque, c’è un pericolo per la democrazia?
«In un certo senso, un pericolo c’è sempre. Con la conclusione della seconda guerra mondiale, la democrazia sembrava essere il regime politico acquisito per sempre. Oggi, questa fede ingenua in un movimento naturale della storia, come storia di emancipazione dei popoli dall’oppressione, non esiste. Tutto si è complicato, nulla è sicuro».

Ma lei crede che vi sia un «caso italiano»?
«Vi sono segni che non si possono non vedere. Toccano il modo di scegliere i rappresentanti e quindi la legittimità della sede principale della democrazia, il Parlamento. Il nostro sistema elettorale è così complesso che il cittadino elettore non ha la minima idea di come il suo voto viene poi “macinato” nella macchina elettorale, non sa nemmeno per chi vota, perché la scelta è fatta dai vertici dei partiti che detengono il monopolio delle candidature. Si conoscono solo le facce dei capi e queste facce trascinano i consensi per i loro adepti. E ci stupiamo se si parla di disagio democratico?».

Il disagio non è solo italiano, però.
«Certo, vi sono ragioni che vanno ben al di là. Per esempio, il fatto che la gran parte delle decisioni pubbliche presentano caratteristiche tecnico-scientifiche, fuori della competenza dei comuni cittadini. La potenza della tecnocrazia dipende da questo. Come coinvolgere i cittadini in modo consapevole – parlo di una questione ritornata d’attualità – nella politica dell’energia nucleare. La vita pubblica è sempre più determinata dalla scienza».
Come insegnano la vicenda Englaro e, in genere, le questioni bio-politiche.
«Certo. La tecno-crazia insidia la demo-crazia. Il destino sembra segnato da forze che si sono rese indipendenti, ineluttabili».

Ma questo non è sempre stato vero?
«Non nella misura odierna. Viviamo un’epoca in cui sembra che il corso degli eventi sociali non possa che essere così com’è. La politica ha perso in gran parte la sua funzione direttiva. Si risolve semplicemente nel correre dietro alle cose per tamponare le difficoltà, nei momenti di crisi. Sembra che il movimento sia imposto da fuori».

Da chi?
«Direi piuttosto: da che cosa? Da potenze immateriali che tutto muovono, che sembrano inesorabili. Per esempio, lo sviluppo, l’innovazione, il consumo: tre cose quantitative e non qualitative, che si legano e spingono tutte nella stessa direzione. Di fronte alla crisi dell’economia mondiale e alle sue conseguenze non si discute di alternative, che collochino sul terreno del possibile altri modi di vivere o di consumare».

È il pensiero unico?
«È un grave pericolo il non saper più guardare le cose da diversi lati, l’aver perso l’idea stessa di alternative. È cecità che riduce la politica alla gestione dell’esistente, magari nella direzione dell’abisso, senza nemmeno accorgersene. Se così è, a che cosa si riduce la partecipazione politica?».

Torniamo al nostro Paese. La crisi del partito democratico ha a che vedere con ciò che abbiamo chiamato disagio democratico?
«Direi di sì. Nessuna democrazia vive senza opposizione, senza qualcuno che, per l’appunto, sappia “guardare le cose dall’altra parte”. Oltretutto, senza una sponda, un limite, chi dispone del potere è portato a espandersi illimitatamente. Aggiungo: ma anche a corrompersi al suo interno. Senza opposizione, le forze dissolutici interne del potere non hanno ragione di trattenersi. È l’intero sistema che è in pericolo. Per questo, c’è da augurarsi che coloro che si sono assunti il compito di rimettere in piedi l’opposizione si rendano conto della responsabilità non solo verso un partito, ma verso la democrazia».

Diceva Bobbio: gli italiani sono democratici meno per convinzione che per assuefazione. L’assuefazione può facilmente portare a una crisi di astinenza e quindi a una ripresa delle energie democratiche ma anche a una crisi di rigetto. Ciò può spianare la strada a un regime?
«Forse solo favorirà la certa tendenza al rovesciamento della piramide democratica, alla concentrazione in alto del potere: il potere che scende dall’alto e produce consenso dal basso, lo schema della demagogia».

Sta succedendo in Italia, oggi?
«Poniamo mente alla concentrazione di potere economico, culturale (editoria, televisioni) e politico, i tre poteri su cui si fondano le società umane: concentrazione al loro interno e tra loro. Sono cadute le barriere. Chi parla ancora della necessità che il mondo dell’economia non sia oggetto di incursioni da parte della politica? Chi osa porre il problema dell’autonomia della comunicazione e della cultura? Quanti tra gli intellettuali si preoccupano dell’indipendenza dal potere economico e da quello politico? Quanti nel mondo della politica ritengono che sia un loro dovere occuparsi di politica, appunto, e non di banche, finanziamenti, posti in consigli di amministrazione? È venuta meno l’etica delle distinzioni. Il potere si accentra e procede dall’alto. Demagogia significa letteralmente: popolo che “è agito”, non “che agisce”».

Siamo già alla demagogia?
«Il pericolo è antico, anzi connaturato alla democrazia. Basta leggere Tucidide o Aristofane. Nulla di nuovo sotto il sole. Oggi, il pericolo è accresciuto da un certo modo d’intendere e organizzare il bipolarismo indotto dal sistema elettorale maggioritario, un modo che ingigantisce, fino al rischio della deflagrazione, la persona dei leader. Il culto del personaggio è certo una manifestazione di degrado democratico. Il presidenzialismo all’italiana potrebbe ridursi a questo».

Quali gli antidoti?
«Non vorrei sembrar tirar l’acqua al mio mulino, ma vorrei dire: difendere la Costituzione cercando di comprenderne i suoi contenuti, di cultura politica, di ethos civile, di promozione della partecipazione e dell’assunzione delle responsabilità. La Costituzione è nata in un certo momento storico a opera di certe forze politiche. Ma, se la raffrontiamo con gli esempi migliori del costituzionalismo mondiale, possiamo constatare facilmente ch’essa non sfigura affatto».

Perché?
«Al di là di tutto, degli interessi in gioco e del conflitto sociale, mi pare che ci sia una difficoltà maggiore, che allontana dalla politica e favorisce lo svuotamento della democrazia: la tirannia del tempo, cui tutti siamo drammaticamente sottoposti. Quando il tempo manca, perché non delegare a qualcuno la nostra esistenza?».

E che propone «Biennale Democrazia»?
«Propone una parentesi di cinque giorni nella routine di ogni giorno e chiede ai cittadini di riservarsi uno spicchio del loro tempo per dedicarlo a una riflessione comune sul nostro modo d’essere cittadini in una democrazia. Chiede di ribellarsi alla schiavitù del tempo che è nemica della libertà». (Beh, buona giornata).

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