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Il ceto medio impoverito è sul piede di guerra: “una politica che tenga veramente conto di noi non l’abbiamo ancora vista.”

Crisi, le microimprese pagano il conto di Dario Di Vico da corriere.it
La «secessione» del piccolo ceto medio Viaggio tra imprenditori e artigiani. E le associazioni alzano il tiro

A Varese artigiani e banchieri del credito cooperativo hanno addirittura steso una «Carta dei Valori del territorio del Nord Ovest», un’area decisiva per lo sviluppo del Paese visto che ospita due cattedrali della modernità come la Fiera di Rho e l’aeroporto della Malpensa. Il documento assomiglia a un Manifesto del piccolo ceto medio, rende omaggio «al mercato» ma lo integra e lo «circonda» con una serie di principi di ispirazione comunitaria che rimandano alla «centralità della persona», alla «unità della famiglia», alla «ricerca della qualità» e al «metodo dell’ascolto». Fino a tessere l’elogio del volontariato. A Bergamo una dozzina di associazioni del mondo produttivo, comprese la Coldiretti e la Lega Coop, hanno creato un cartello per cercare di imporre un loro candidato alla testa della locale Camera di Commercio, tradizionale roccaforte degli industriali.

Da Roma lo slogan scelto dalla Confartigianato per il reclutamento 2009 suona quasi apocalittico: «O il declino o noi». Intanto da mesi le banche di Credito Cooperativo continuano a guadagnare quote di mercato con tanto di riconoscimento sia della Banca d’Italia sia del ministro Giulio Tremonti. I piccoli banchieri sostengono di aver lavorato in funzione anti-ciclica, hanno aperto i rubinetti del credito quando la recessione ha cominciato a mordere e gli altri li chiudevano. E presentano tutto ciò come un modo diverso di fare banca secondo i principi della «simmetria informativa». Banchieri e imprenditori che dispongono delle stesse informazioni. Tutto il mondo dei piccoli è in fibrillazione. Le microimprese, gli artigiani, le partite Iva, i commercianti, i piccoli professionisti non vogliono più far tappezzeria.

Si preparano a dar vita a una secessione sociale, vogliono staccarsi da una rappresentazione del Paese che non li convince, anzi li irrita. Come se la crisi avesse rotto i freni inibitori e le accuse all’establishment, che prima venivano sussurrate, oggi vengono gridate. Le loro associazioni, bianche o rosse che siano state nel Novecento, stanno così vivendo una nuova stagione di protagonismo: le iniziative in giro per l’Italia non si contano più e tutto questo ambaradan sta mettendo in mostra, tra l’altro, una nuova classe dirigente che non sembra aver paura di sfidare il mondo dei grandi interessi industriali o creditizi. La Primavera dei Piccoli non solo riguarda solo le loro terre d’elezione, a partire dal mitico Nord Est dove i registri delle Camere di Commercio segnalano un’impresa ogni otto persone vecchi e bambini compresi. Ma anche Urbino — solo per fare un esempio — dove è partita una spinta dal basso per una legge di iniziativa popolare a difesa del made in Italy con l’istituzione del marchio «100 per cento Italia» e persino a Roma, al IV municipio le associazioni di Via e i piccoli imprenditori presenti sul territorio si stanno mobilitando a difesa dei propri interessi.

La verità è che la paura fa novanta e le varie Confcommercio o Cna hanno il fondato sospetto che alla fine a pagare il conto della crisi siano loro e solo loro, i piccoli. Così mentre nelle grandi organizzazioni, come la Confindustria, emergono dopo mesi di pessimismo le prime analisi sugli spiragli del post-crisi, a Varese i dirigenti della Confartigianato hanno chiamato a raccolta i giornali per suonare l’allarme e denunciare quella che chiamano «la forbice dei tassi». «La crisi del credito costa alle imprese 13,8 miliardi l’anno — hanno accusato — e la colpa è delle banche che non adeguano i tassi di mercato a quelli di riferimento della Bce». Secondo le cifre elaborate dagli artigiani, mentre i grand commis di Francoforte hanno ridotto il costo del denaro di 2,25%, il calo di cui si sono giovate le piccole imprese che si presentano allo sportello è misero: solo lo 0,77%. Il mancato ribasso costa a un’azienda del Nord Ovest in media 3.300 euro e per un artigiano far tornare i conti diventa un rompicapo. Spiega Pietro Lavazza della Confartigianato dell’Alto Milanese: «Se da noi si continua a fare impresa è perché ci siamo noi piccoli, altrimenti l’area attorno a Legnano, che pure in passato aveva ospitato grandi complessi industriali, diventerebbe una zona dormitorio dove la ricchezza viene consumata ma non viene prodotta».

Concetti non dissimili vengono fuori dagli uomini della Confcommercio. «Attenti all’effetto banlieue» è il loro refrain. E anche in questo caso tornano in ballo i valori di un’italianità tradizionale ma non per questo arcaica. Argomenta Mariano Bella dell’ufficio studi: «I negozi continuano a chiudere e le nostre città rischiano di non somigliare più a se stesse ma per l’appunto alle banlieue parigine, quelle sempre sul filo della rivolta. Senza fruttivendoli, macellerie, panetterie avanza la desertificazione dei centri storici ma anche delle periferie. E se fino a poco tempo il commercio assorbiva occupazione dagli altri settori ora non è più così». I numeri che produce Bella sono impressionanti: nel solo 2008 hanno chiuso circa 40 mila esercizi, di cui almeno 7 mila tra alberghi e ristoranti. E la previsione, ma forse è il caso di dire la certezza, è che nel 2009 questo record negativo possa essere ampiamente superato. Si dirà: chiudono i piccoli negozi e arrivano (finalmente) i moderni supermercati. No, almeno al Nord — nel Mezzogiorno tutto è più lento — non è più così, «il travaso dal piccolo al grande sta per finire» e quindi il commercio non svolge già più quel ruolo di tampone occupazionale che ha svolto in passato contribuendo, tra l’altro, alla regolarizzazione di un buon numero di immigrati.

Se i piccoli commercianti hanno i capelli dritti anche le imprese manifatturiere di piccola dimensione sono in ambasce. Lo dimostra, tra gli altri, uno studio della Dun & Bradstreet, una società americana che ogni anno analizza le imprese italiane studiando bilanci e andamento dei loro affari. Il loro è un bollettino di guerra: nella fascia delle aziende con meno di 250 dipendenti e un fatturato inferiore ai 50 milioni di euro rischiano di chiudere o fallire oltre al 6% dei negozi, anche il 7% delle industrie manifatturiere, il 9% delle aziende di trasporto e addirittura il 12% delle imprese edili. Spiega Paolo Engheben, amministratore delegato della D&B, che «in Italia è sempre più difficile ricevere i pagamenti in orario e non solo quelli che riguardano la pubblica amministrazione. Le imprese sia grandi sia medie onorano i contratti ben oltre la scadenze delle fatture e nell’ultimo trimestre del 2008 per i ricevere i propri soldi le piccole hanno dovuto aspettare anche più di 200 giorni».

In parole povere chi sta a valle del processo produttivo, i subfornitori, rimane schiacciato dalla crisi e magari dai comportamenti delle grandi aziende, che hanno richiamato lavorazioni o interi pezzi del processo produttivo dati all’esterno. I numeri elaborati da D&B sono confermati da Movimprese, il monitoraggio su natalità e mortalità delle imprese aggiornato con regolarità dall’Unioncamere. Il segnale è di allarme rosso soprattutto per l’artigianato delle regioni settentrionali. Compreso il Nord Est. «Quella che manca è la liquidità, non i lavori — puntualizza Giuseppe Bortolussi della Cgia di Mestre —. L’artigiano non li accetta perché ha paura di non venir pagato mentre quando un falegname compra il legno o un posatore le piastrelle deve pagare in contanti». Nonostante la crisi li falcidi i piccoli artigiani, imprenditori o commercianti temono, anzi sono convinti, di non far notizia. Quando i portoni delle microimprese chiudono non c’è nessuna organizzazione sindacale a presidiarli, nessun politico a presentare (almeno) la canonica interrogazione parlamentare, nessun cronista a registrare il lutto. Se avessero tradizioni barricadere magari bloccherebbero i binari delle stazioni o andrebbero a farsi sentire sotto le finestre di quei prefetti chiamati dal governo a controllare l’andamento delle economie locali. Ma non lo fanno.

Poco meno di un anno fa Silvio Berlusconi all’assemblea nazionale della Confartigianato disse che «se una cosa va bene alle piccole imprese, va bene al Paese». I fatti, però, sostiene il presidente Giorgio Guerrini, non sono arrivati e finora il governo ha avuto occhi e orecchie solo per le banche e per la Fiat. «Ma una politica che tenga veramente conto di noi non l’abbiamo ancora vista». Del resto nonostante sia largamente maggioritario per numeri, il piccolo ceto medio non ha mai goduto di buona letteratura. Persino i precari dei call center hanno trovato il loro Aldo Nove o le loro Ferilli che li hanno immortalati nell’immaginario collettivo con un libro o con un film, loro no.

Il cinema è ancora innamorato della grande industria come se da Rocco e i suoi fratelli che raccontava l’immigrazione in fabbrica alla recente Signorina Effe , con Flm e Fiat protagoniste, non fosse cambiato niente nel nostro capitalismo. E per trovare un romanzo dedicato alle angosce del piccolo imprenditore bisogna ripescare il non recentissimo L’età dell’oro del pratese Edoardo Nesi che racconta le peripezie di un cenciaiolo alle prese con la concorrenza dei cinesi. La sinistra poi — che gli intellettuali ha sempre frequentato con maggiore intensità — il piccolo non l’ha mai amato, l’ha sempre considerato il ventre molle della nazione contrapposto alla Grande Fabbrica, al Grande Imprenditore, al Patto dei produttori. «Per i piccoli commercianti che chiudono non ci sono ammortizzatori sociali come per gli operai, queste cose contano», commenta Bella della Confcommercio. Che spiega come la sua organizzazione abbia cercato di evitare di fare «battaglie di retroguardia», ovvero lottare contro le liberalizzazioni, le lenzuolate alla Bersani. «Ma deregolare solo e sempre il commercio è stato un errore della politica. I piccoli si sono visti ancora una volta nel mirino».

Un modo di presentare il mercato e le modernizzazioni come una sciagura e non come un’opportunità per favorire la concorrenza e aprire la società. «Artigiani e micro-imprenditori — sostiene Savino Pezzotta, bergamasco doc, ex segretario della Cisl — hanno con il mercato un rapporto ambivalente. Ne temono la durezza, ma sanno starci dentro e non si tirano indietro. Se c’è da battersi per conquistare fatturato in Cina le microimprese delle mie zone non si fanno pregare, prendono l’aereo e vanno». Ma si deve trattare di un mercato che non usa due pesi e due misure, che non salva il carrozzone di Stato chiamato Alitalia e invece si gira dall’altra parte quando chiudono i battenti le piccole imprese. (Beh, buona giornata).

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