Tra i comportamenti “irresponsabili” andrebbe annoverato anche quello di chi, pur ricevendo la fiducia in Senato, s’inalbera e dà le dimissioni, in un momento molto delicato per l’equilibrio sociale del paese, che la guerra in Ucraina ha appesantito anche sul piano psicologico.
Quindi, diamoci tutti una calmata, la caccia ai colpevoli di una crisi di governo che ancora non è stata certificata dal Parlamento è la vecchia commedia dei fraintendimenti.
Il disagio sociale è un dato di fatto sempre più rilevante, i prossimi mesi raggiungerà livelli insostenibili, lo dicono tutte le rilevazioni: l’aumento delle tariffe energetiche sta incrociando la falce dell’inflazione, con la certezza di diventare la mietitrice del potere di acquisto di redditi gracili.
Salari, stipendi, partite iva e pensioni sono il vero problema che Draghi era chiamato ad affrontare concretamente.
Il M5s lo ha messo sul tavolo. In modo sgangherato, con la solita prosopopea grillina? Oltre la forma, è la sostanza politica che bisogna prendere in considerazione.
Il Pd non può svicolare, perché questo è il punto che i suoi stessi elettori hanno ben presente.
Neanche la Cgil può più fare sofismi, come è successo con quel penoso comunicato di sostegno alla continuità di un governo che finora ha sempre rinviato decisioni che potevano scontentare Confindustria.
Il governo Draghi è stata un’invenzione della politica per gestire il Pnrr, la versione italiana del Next generation Eu. Come giustamente ha scritto Donatella Di Cesare, gli avvenimenti hanno sovrastato l’agenda di Palazzo Chigi. Draghi è andato oggettivamente in difficoltà.
Oltre le polemiche di queste ore, – comprensibili, tanto prevedibili quanto stucchevoli -, o la questione sociale entra in cima all’agenda del governo o nessuna altra alchimia reggerà fino alle prossime elezioni.
Con la sconfitta della sinistra di governo si chiude un ciclo storico.
Quando nacque la Lega Nord, che nonostante abbia recentemente cassato il riferimento geografico per prestidigitazioni elettoralistiche è pur sempre il più “settentrionale”partito rappresentato in Parlamento, la politica italiana e di conseguenza i media ebbero un atteggiamento di scherno e repulsa.
La qual cosa determinò due fenomeni: favorì il suo radicamento tra i ceti popolari, a cominciare dalla classe operaia del triangolo di industriale; spinse la Lega nelle braccia della destra ciarlatana di Berlusconi, “sceso in campo” per salvare il suo perimetro di business della tv commerciale. Che poi divenne un partito, Forza Italia, che riuscì a governare, aggregando pezzi della vecchia Dc, qualche ex socialista, i radicali di Pannella e sdoganando la destra fascista, guidata da Fini.
La sinistra, comunista e socialista di allora commise l’errore storico di non raccogliere le istanze sociali dell’elettorato leghista, non capendo che il secessionismo fiscale era una semplice forma di protesta, non la sostanza delle aspirazioni della base leghista, che invece intuiva il pericolo che il progressivo crollo dei pilastri del welfare avrebbe impoverito la capacità di difendere il reddito.
Quel pericolo divenne via via certezza. Il crollo del CAF (I’accordo Craxi-Andreotti-Forlani), che fu il periodo di più alto accumulo di deficit pubblico, fu poi spazzato via da “Tangentopoli” favorì la nascita del berlusconismo. I cui governi favorirono le classi medio alte, oltre che i suoi interessi aziendali. Le tasse non scesero, i salari non aumentarono, il welfare continuò la sua lenta e inesorabile logoramento.
All’errore storico di sottovalutare le spinte centrifughe dalla coesione sociale prodotte dalla Lega di Bossi, si aggiunse la scelta letale di abbandonare l’idea del partito di lotta per imboccare la via a senso unico del partito di governo. Infatti per due volte Prodi tentò di sistemare i conti pubblici, non senza assegnare “sacrifici” al lavoro e allo stato sociale. Ogni volta che avrebbe voluto dare vita alla “fase 2”, cioè una qualche redistribuzione della ricchezza, fatalmente cadde. Per via del “fuoco amico” della sinistra alleata al centrosinistra.
Col Pd, il centrosinistra va al governo dopo il disastro dell’ultima compagine berlusconiana. Ma continua a essere forza di governo e non più protagonista e interlocutore del profondo disagio, dell’impoverimento, dell’insicurezza sociale: è nella miscela esplosiva, composta da meno stato sociale e meno reddito, che vien fuori, in tutta la sua pirotecnica forza distruttiva, il movimento di Grillo.
E di nuovo l’errore storico si riaffaccia nella linea politica del Pd: sottovalutazione delle radici sociali del M5s, denigrazione, mancanza di una vera e propria strategia per gestire le contraddizioni che le politiche neoliberiste hanno prodotto nel tessuto sociale, fina a strapparne a brandelli la stessa idea di democrazia.
Gli errori storici del Pd vengono da lontano, ma, al contrario di quello che sosteneva Togliatti, non vanno lontano. Si sono fermati domenica 4 marzo.
La debacle elettorale marca a fondo la sconfitta dell’idea della “sinistra di governo”.
Dalla teoria del “compromesso storico” che diede vita al “governo di unità nazionale” propugnato da Moro e Berlinguer,ma guidata da Andreotti, fino all’esperienza dell’Ulivo di Prodi, per arrivare al Pd di Renzi, la lunga marcia di avvicinamento al potere ha lasciato dietro di sé, sempre più distanti, milioni di italiani che riponevano nelle idee incarnate dalla Sinistra la speranza, ma anche la convinzione di una sempre realizzabile uguaglianza sociale.
È successo l’esatto contrario: proprio negli anni del cosiddetto “renzismo”, la fotografia mostra ricchi più ricchi e poveri più poveri. I famosi “80 euro” sono stati la paghetta che ha confermato in pieno la sensazione in molti della propria condizione miserevole.
D’altro canto, il declino della sinistra di governo ha travolto come una valanga anche le esperienze della sinistra meno istituzionale – detta “radicale” con un ossimoro inventato da Bertinotti – fino alla sinistra antagonista, come si definisce l’arcipelago dei sindacati di base, dei centri sociali, delle associazioni che si occupano del sociale.
Il definitivo sganciamento dalla complessità sociale della sinistra di governo ha fatto insorgere un sentimento minoritario tra i giovani, i lavoratori più coscienti, i militanti della vertenza sul diritto all’abitare. In un primo momento si è anche creduto possibile un dialogo tra la sinistra antagonista e parte del M5s. Ma poi le strade si sono biforcate.
Oggi la situazione è che le spinte sociale della Lega sono andate spedite a destra. Quelle del M5s al centro, pur con un linguaggio estremista, che via via tenderà a stemperarsi.
La Sinistra, in tutte le sue espressioni politiche, culturali e sociali è in crisi. Il neoliberismo, forma della propaganda economico-politica del Capitalismo, è riuscito nell’intento di capovolgere il paradigma della lotta di classe, conquistando un vantaggio competitivo sugli stessi sentimenti dei ceti sociali più numerosi e a basso reddito. Non è successo solo in Italia.
Il problema è che in gioco non c’è la tattica migliore per andare al governo, al Parlamento, o nei consigli regionali o comunali. Né è in gioco cosa fare per conquistare spazi di rappresentanza nelle istituzioni.
L’odierno “Che fare?” riguarda quale risposta dare alla domanda di giustizia sociale. Cioè quale capacità critica del sistema capitalistico sia possibile sviluppare, in teoria e in pratica.
C’è un unico modo concreto per capirlo, teorizzarlo e metterlo in pratica: stare all’opposizione è il laboratorio di una nuova visione. E questo vale per la sinistra tutta.
A Gevova, dal palco di RepIdee, il road show di Repubblica, Renzi ha detto che il suo competitor è Salvini, non Landini. Sì, certo, il gusto tutto renziano della battutina da primo della classe ha spesso il sopravvento nei suoi ragionamenti.
Tuttavia, senza fare processi alle intenzioni, si può ragionevolmente sostenere che Salvini fa comodo al governo in carica perché rappresenta un’opposizione totalmente allo sbando, che raccatta il peggior ciarpame ideologico di una destra fascista, violenta e senza prospettive, fatta solo di odio razzista e nostalgie di seconda mano, che appare come la cifra dello sfaldamento e la decomposizione organica di quello che fu Berlusconi e il berlusconismo.
La manipolazione del manipolatore, o “l’uso parziale alternativo” delle felpe di Salvini sembrerebbe una strategia utile al disorientamento delle forze sociali nel perimetro dei consensi del centrodestra. Tenere in pista Salvini serve al Pd per dimostrare di essere una formazione capace di governare con equilibrio riformatore; ma serve anche al centrodestra, perché dimostra la necessità di essere moderati, unitari, compassionevoli.
Insomma, Salvini sa bene di essere un pupazzo che prima o poi verrà bruciato. E quindi pesta sul pedale dell’acceleratore, e facendo a meno di freni inibitori, va dritto per una strada senza uscita, un sentiero sterrato dalle sue ruspe immaginarie.
In verità, non è questo che mi preoccupa: se mi permettete, mi fa semplicemente schifo. Nel senso che mi provoca un vero e proprio disgusto per le forme infime in cui si manifesta il cinismo della politica in Italia.
Infatti, Salvini non crede a una parola di quello che dice, recita la parte che la commedia gli ha assegnato; Renzi gli fa da puparo, mentre Berlusconi passa col cappello a chiedere gli ultimi spiccioli di consenso verso un nuovo partito di centrodestra, magari “repubblicano”, da contrapporre a quello “democratico”.
Ma in tutto questo, il veleno delle idee sbagliate, l’inquinamento delle coscienze, le narrazioni tossiche vengono scaricate in quantità industriali sull’opinione pubblica, facendo danni paragonabili alle fughe radioattive: i media, come centrali nucleari danneggiate, stanno spargendo particelle pericolose per l’ambiente della convivenza civile nel nostro Paese. Si respira un’aria mefitica perché è utile, oserei dire “organico” alla strategia sia del centrosinistra che del centrodestra, o comunque dei suoi pezzi e ruderi.
Alla ultime elezioni, la Lega ha guadagnato più o meno 250 mila voti. Per qualcuno sono inutili, perché hanno spostato niente. Per altri sono “danni collaterali” di un strategia politica precisa. Ma quegli elettori sono cittadini che sono stati ingannati con la complicità delle nostre tv.
Complimenti per la trasmissione a Floris, Giannini, Vespa, Formigli, Gruber, Giletti, Paragone, Del Debbio, eccetera, eccetera.
Questo connubio cinico tra strategie politiche e marketing televisivo è raccapricciante, quanto lo sono le felpe, gli sfondoni, le farneticazioni, i saluti romani e l’intera paccottiglia propagandistica di Salvini.
Come credete sia cominciati i pogrom contro gli ebrei, i gitani, gli omosessuali? Cominciarono per vile compiacenza, si imposero per bieca convenienza, continuarono per complice connivenza, si consumarono tra la generale indifferenza.
Fermiamoli finché siamo in tempo. Beh, buona giornata.
In verità stavolta il porcellum câentra poco. La legge elettorale di Calderoli non ha comunque smentito la sua impressionante capacità di deformare il parlamento e la volontà del popolo sovrano secondo un bislacco sistema di sbarramenti plurimi, ma ad aver destabilizzato la relativa quiete della seconda Repubblica è stato semplicemente il fatto che il MoVimento 5 Stelle abbia preso il 25,55% dei voti validi.
Ipotizziamo che la ripartizione dei seggi alla Camera dei Deputati fosse avvenuta con la vecchia legge elettorale (ex art. 77 del DPR 361/1957) in vigore fino al 1993: un democratico proporzionale con attribuzione dei resti più alti col metodo del collegio unico nazionale e lasciando immutata la quota estero e lâuninominale della Valle dâAosta, avremmo avuto questa situazione:
Si può notare che ci saremmo ritrovati con 5 liste extraparlamentari in meno (Rivoluzione Civile, Fare, La Destra, Grande Sud-Mpa e Die Freiheitlichen), e quindi oltre un milione e mezzo di cittadini avrebbero avuto una loro legittima rappresentanza in Aula, ma ai fini della cosiddetta governabilità sarebbe cambiato poco.
A fare pertanto la differenza anche con questa legge elettorale sarebbero i 161 grillini. Tuttavia la prassi del proporzionale imporrebbe in questo caso al M5s lâonere e lâonore di dover formare un governo e quindi ai grillini di doversi cercare in aula gli almeno 155 deputati necessari per formare una maggioranza. Non è una cosa da poco.
di Stefano Cappellini-ilmessaggero.it
A Matteo Renzi va riconosciuto un merito non secondario: ha coraggio. Non è merce molto diffusa nel Pd. Il modo in cui Renzi è diventato sindaco di Firenze, vincendo primarie nelle quali correva contro i candidati ufficiali del partito, ne è stata la dimostrazione principale. Anche nella sua contestazione all’attuale leadership democratica dimostra una intraprendenza che troppo a lungo, e per più di una generazione, è mancata ai giovani del Pd.
Aggiungiamo che la necessità di rinnovare il gruppo dirigente democratico è tema di assoluta urgenza, che può essere negato solo per cecità politica o per malafede. La gran parte della nomenclatura del Pd, con poche ma significative eccezioni, ha cavalcato tutti i vent’anni della Seconda Repubblica e con poca gloria. Gli stessi maggiorenti e capicorrente sono stati di volta in volta ulivisti e anti-ulivisti, prodiani e anti-prodiani, destrorsi e sinistrorsi. Il problema di un radicale ricambio non è dunque tanto una questione di vetustà, ma soprattutto di credibilità. Le ragioni di Renzi rischiano però di essere indebolite, fino quasi a essere cancellate, dai limiti della sua proposta politica. Limiti di forma e insieme di sostanza.
Innanzitutto c’è una questione che potremmo definire di appartenenza. Pier Luigi Bersani rischia di mancare il bersaglio quando accusa Renzi di «tirare calci», perché le contese per la leadership non sono mai un pranzo di gala e se ai giovani si toglie l’arma del conflitto dovranno far conto solo sulla cooptazione dei vertici. Con i risultati che abbiamo sotto gli occhi. Ma Bersani ha ragione quando, con la metafora dei calci, vuole intendere anche che la battaglia di Renzi sembra condotta, e non da oggi, contro il Pd, più che dentro il Pd.
Renzi ha spiegato a Firenze che ha scelto di non nominare Berlusconi, perché «così si guarda avanti». L’ultima campagna elettorale ha dimostrato che non basta ignorarlo, Berlusconi, per metterselo alle spalle. Renzi è peraltro uno di quei leader che dal berlusconismo attingono eccome, imitandone la tendenza a fare più attenzione alla confezione che al contenuto. Non è il primo né l’unico a sinistra, anzi. Per testimoniare la carica di innovazione dei cosiddetti rottamatori riuniti a convegno alla stazione Leopolda di Firenze s’è inventato la parola d’ordine del wiki-Pd. Un nome di battesimo internettiano, suggestivo e certo familiare alle orecchie dei ventenni-trentenni.
Ma in cosa consiste il wiki-Pd? Perché dovrebbe essere meglio del bronto-Pd? A chi è in grado di
parlare questa formula, oltre che alla comunità dei social network e degli smartphone? Mistero. Troppo spesso ci si dimentica che Berlusconi ha sì inaugurato la stagione della politica spettacolo e ipermediatica, ma poi i suoi storici slogan vincenti sono stati «meno tasse per tutti» e «aiutare chi è rimasto indietro». Sospettiamo che la wiki-politica sia una formula molto cool e smart, utile a fare (ottima) immagine, meno a rendere il Pd una credibile forza di governo, seppure in mano a una nuova generazione.
Ma peggio ancora va nei passaggi in cui Renzi cerca di dare una sostanza all’etichetta giovanilistica. A parte la polemica con i «vecchi», il messaggio principale arrivato dalla Leopolda è che Marchionne è in cima al pantheon dei rottamatori. Una apologia del marchionnismo che oltre ad arrivare decisamente fuori tempo massimo – nel momento in cui il manager è pesantemente sotto accusa per il deficit di politica industriale della Fiat – è incompatibile con l’ambizione di guidare il principale partito del centrosinistra. Non perché Renzi sia «di destra», come gli ha rimproverato Nichi Vendola, a torto, visto che neppure nella maggioranza di centrodestra la linea Marchionne riscuote l’acritico consenso che Renzi e i suoi gli hanno tributato a Firenze. Un grande partito di centrosinistra non si sdraia sulle ragioni dell’una o dell’altra parte.
Nella recente contesa Fiat-Fiom il Pd ha giustamente cercato, con fatica ma a ragione, di coniugare le istanze di una grande impresa nell’economia globalizzata e le sacrosante ragioni del mondo del lavoro, cui un grande partito di centrosinistra non può voltare le spalle in nome di astratti furori ideologici. Parlare all’elettorato del campo opposto è un obiettivo giusto. Ma non è con il salto di barricata o con la scorciatoia del marchionnismo che la strategia di allargare i consensi può funzionare.
E se a Renzi non è chiaro, per rendersene conto gli basta fare un salto in Parlamento, dove il capolista del Pd in Veneto alle ultime elezioni, Massimo Calearo, già falco di Federmeccanica e berlusconiano ante litteram, è tornato alle origini e non nega mai il suo voto di fiducia al governo del Cavaliere. (Beh, buona giornata).
La nostra proposta per la sinistra di alternativa
(da Liberazione di giovedì 14 ottobre 2010)
Il colloquio tra Bersani e Vendola dell’altro ieri ha finalmente superato lo scoglio delle primarie che aveva sin’ora reso impossibile il confronto politico. Questo incontro apre la fase della discussione tra le forze che vogliono costruire un accordo di governo. Bersani e Vendola hanno concordato come questa proposta di governo comprenda l’UdC e la proposta di modificare la legge elettorale con una governo di transizione. Adesso si tratta di costruire il fronte democratico che vada a oltre le forze che fanno l’accordo di governo. Abbiamo infatti sempre ritenuto che non vi siano le condizioni per un accordo di governo con le forze del centro sinistra – nella proposta di Bersani e Vendola comprendenti anche il centro – mentre riteniamo necessario dar vita ad una alleanza democratica che abbia l’obiettivo esplicito di sconfiggere Berlusconi, di difendere la costituzione , di mettere in campo essenziali misure di giustizia sociale e di modificare la legge elettorale in senso proporzionale.
A questo punto si tratta di cambiare passo e lavorare alla concretizzazione della nostra ipotesi politica.
In primo luogo la costruzione di una vera opposizione che porti alla caduta del governo Berlusconi. E’ infatti evidente che l’equilibrio instabile che regge questo governo può durare a lungo e produrre altri danni. Ogni giorno che passa questa maggioranza non fa altro che scaricare ulteriormente sulle spalle dei più deboli i costi di una crisi che morde sempre più pesantemente. Basti pensare al Disegno di legge sul lavoro che sostanzialmente introduce il contratto individuale di lavoro per tutti i nuovi assunti. Con questa misura che presto sarà in discussione alla Camera le giovani generazioni non saranno solo inchiodate ad un destino di precarietà ma si troveranno dentro una guerra tra poveri che non ha precedenti nel paese. Costruire l’opposizione, a partire dalla manifestazione del 16 ottobre che non deve essere un momento a se stante ma deve proseguire con la costruzione di iniziative di mobilitazione su tutto i territorio. Per noi la costruzione dell’opposizione è il punto propedeutico alla costruzione del fronte democratico
In secondo luogo il problema della costruzione del progetto e dell’unità della sinistra. A partire dalle prossime settimane si terrà il Congresso della Federazione della Sinistra che rappresenta un passo decisivo per l’aggregazione di una sinistra degna di questo nome, automa dal PD e con un proprio profilo strategico anticapitalista. A partire da questo processo noi lanciamo a tutte le forze di sinistra una sfida: per uscire dalla crisi non basta un movimento ma occorre un programma di alternativa. Noi proponiamo a tutte le forze di sinistra, a partire da quelle che saranno presenti alla manifestazione del 16 ottobre, di definire concordemente la piattaforma con cui avviare il confronto con il PD. Se la crisi è il frutto del neoliberismo, occorre una politica che rovesci questa politica economica: dalla redistribuzione del reddito all’intervento pubblico in direzione della riconversione ambientale dell’economia. Dal no alla guerra al finanziamento dello stato sociale, della scuola, della ricerca e dell’università.
(Beh, buona giornata).
David Cameron, leader dei conservatori, è il nuovo primo ministro britannico. Il vincitore delle elezioni politiche del 6 maggio ha accettato dalla regina Elisabetta II l’incarico per formare un nuovo governo. Il capo dei Tory si è detto intenzionato a formare una “coalizione piena” con i liberaldemocratici per “un governo solido” che “affronti i problemi del paese, primo fratutti il deficit”.
L’incarico a Cameron arriva a pochi minuti dalle dimissioni del suo predecessore, il laburista Gordon Brown, che ha lasciato Downing Street dopo aver constatato il fallimento delle trattative tra i suoi emissari e i rappresentanti dei lib-dem. Beh, buona giornata.
Lettera aperta a Nichi Ve (da il manifesto del 27 gennaio 2010)
Caro Nichi, colgo l’occasione di questo comune giorno di festa per porti una domanda: perché la positiva dinamica che abbiamo messo in moto in Puglia non può essere ripetuta anche nelle altre parti d’Italia?
Nella tua regione, di fronte all’arroganza del gruppo dirigente del PD abbiamo fatto fronte comune. Prima rifiutando la proposta che tu non venissi candidato e poi con il comune sostegno alla tua candidatura nelle primarie. Questo fronte comune ha vinto e il tuo splendido risultato ne è la testimonianza.
In Puglia ha cioè funzionato nei fatti una coalizione di sinistra di alternativa, in grado di tenere un profilo politico autonomo dal PD, che è riuscito, come riuscimmo nel 2005, a vincere le primarie. Una coalizione di sinistra di alternativa che ha aperto contraddizioni nel PD proprio in quanto ha saputo agire con una soggettività propria, non subalterna o manovriera. Si è fatta una battaglia limpida, senza sotterfugi, sia sul piano politico che su quello dei contenuti e la chiarezza ha pagato.
Del resto quando ci siamo visti e sentiti nelle settimane scorse proprio questo punto avevamo messo al centro. Di fronte ad un PD che è caratterizzato da una deriva centrista, con tratti di vera e propria subalternità all’UdC, abbiamo convenuto sulla necessità di coordinare le forze della sinistra al fine di incidere positivamente nella discussione in tutte le regioni. Nella reciproca autonomia avevamo individuato la necessità di unire gli sforzi, di fare una battaglia comune, di evitare che il PD potesse metterci gli uni contro gli altri nella ridefinizione moderata del suo asse politico.
In tutta franchezza , proprio questa battaglia comune a me pare sia venuta meno. Mentre in Puglia abbiamo agito concordemente, questo non avviene nelle altre regioni d’Italia.
Non ho lo spazio per fare una disanima complessiva per cui mi soffermerò solo sul caso della Lombardia, che a me pare emblematico. In questa regione Sinistra e Libertà ha deciso di sostenere Penati a candidato a Presidente proprio mentre questo ha posto un veto sulla presenza della Federazione della Sinistra nella sua coalizione. Qui ci troviamo in una situazione incredibile: il candidato del PD decide di porre una discriminante anticomunista per far parte della sua coalizione e si caratterizza su contenuti che sono grosso modo l’opposto dei contenuti che tu hai sostenuto nelle primarie pugliesi. Sinistra e Libertà, invece di fare battaglia politica e di rompere con Penati, decide di partecipare alla sua coalizione. Mentre in Puglia la sinistra, insieme, ha ottenuto un risultato straordinario, in Lombardia Sinistra e Libertà si fa strumento del tentativo di distruzione della sinistra da parte di Penati.
Caro Nichi ti chiedo quindi di battere un colpo. Se i ricatti non si possono accettare in Puglia, non debbono essere accettati nemmeno in Lombardia. Se è possibile lavorare per l’alternativa in Puglia, deve essere possibile farlo anche altrove. La primavera non la si costruisce in una regione sola.
Cgil torna in piazza a Roma, Epifani: “Licenziamenti a valanga”-repubblica.it
Maurizio Sacconi, ministro del welfare: “Mi sembra un piccolo mondo antico ancorato al ‘900”
ROMA – La Cgil torna in piazza a Roma contro il governo, da cui esige risposte su lavoro e crisi. La manifestazione nazionale è stata indetta per sottolineare che il peggio della crisi non è affatto alle nostre spalle e che la ripresa sarà lunga e difficile. A sfilare a fianco dei lavoratori della Cgil anche Italia dei Valori, Partito democratico e studenti universitari. Il corteo, partito nel primo pomeriggio da piazza della Repubblica, si è concluso in piazza del Popolo con un intervento del segretario generale Guglielmo Epifani.
“E’ una piazza straordinaria, grazie a tutti voi che siete qui: queste luci vive permettono anche a chi voleva oscurare le nostre ragioni di vederci chiaro e trasparente”: con queste parole il leader della Cgil Guglielmo Epifani ha aperto il suo intervento dal palco di piazza del Popolo.
“Chiediamo che il governo cambi registro per affrontare i nodi della crisi” ha detto il leader della Cgil Epifani, sintetizzando lo spirito del corteo di protesta. “Questa è una manifestazione che vuole chiedere al governo cose precise perchè gli effetti più negativi della crisi arriveranno nelle prossime settimane e investiranno l’occupazione”, ha aggiunto. “La crisi avrà gli effetti più negativi sull’occupazione nelle prossime settimane” ha detto ancora il segretario della Cgil, sottolineando come “il governo non stia facendo nulla per sostenere il lavoro e i pensionati”.
“In un anno sono stati persi, bruciati, 570 mila posti di lavoro di cui 300 mila di precari: una media di 50 mila posti in meno al mese. Questo il consuntivo di un anno da quando la Cgil lanciò l’allarme valanga disoccupazione”, ha denunciato ancora Epifani. “La valanga che avevamo previsto – ha aggiunto Epifani – non ha più neanche la ciambella di salvataggio della cassa integrazione, ma è fatto di mobilità, ristrutturazioni, chiusure e licenziamenti a valanga e ancora di altri precari senza tutela”.
Sull’analisi mostra di concordare il segretario del Pd Luigi Bersani, che nel messaggio inviato a Epifani invoca “una svolta nella politica economica del governo”. “La vera exit strategy a cui dobbiamo dare priorità oggi è la exit strategy dalla disoccupazione di lunga durata e dalla stagnazione dei redditi da lavoro – ha scritto Bersani – Il governo ha perso 18 mesi preziosissimi, ha lasciato impoverire il nostro migliore capitale sociale e la nostra più innovativa capacità produttiva faticosamente irrobustita negli ultimi anni”.
Critico invece il ministro del Welfare Maurizio Sacconi: “Mi sembra un piccolo mondo antico che rappresenta un pezzo del Paese, ma rimane ancorato al ‘900 e alle sue ideologie”. Sacconi ha sottolineato tra la Cgil e gli altri sindacati confederali: “Una manifestazione fatta da soli, esaltando in questo modo la separatezza dalle altre organizzazioni sindacali”.
Secondo gli organizzatori al termine della manifestazione c’erano 100.000 lavoratori provenienti da tutta Italia. Ad aprire il corteo uno striscione con la scritta “Il lavoro e la crisi: esigiamo le risposte”. Tante le bandiere della Cgil, della pace, ma anche di partiti della sinistra come il Pd, l’Idv, dei Comunisti Italiani e grossi palloni colorati con la scritta Flc-Cgil.
Nel corteo anche gli striscioni delle aziende in crisi come l’Eutelia: “Eutelia: come arricchire i padroni depredando i lavoratori. Landi, dove sono finiti i soldi e gli immobili di Getronics e Bull?”. I lavoratori hanno raggiunto la capitale con 3 treni e oltre 750 pullman. Tra i partecipanti anche esponenti politici nazionali come Oliviero Diliberto, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero. In testa alla manifestazione la segretaria nazionale della Cgil Susanna Camusso e il segretario regionale del Lazio Claudio Di Berardino.
La Cgil ha deciso di scendere in piazza senza Cisl e Uil, come ha spiegato ieri Guglielmo Epifani rispondendo alle domande di RepubblicaTv. “Non siamo stati in condizione di fare una manifestazione unitaria sui temi della crisi” ha spiegato il leader della Cgil. “Questo ci è riuscito solo a livello locale, non nazionale. Sarebbe stato meglio farla insieme. Un’iniziativa comune peserebbe di più e i lavoratori, in questo momento, hanno bisogno di tutto il sindacato. Comunque, per riportare al centro i problemi di chi perde il posto, meglio soli che niente”. Da piazza del Popolo Epifani ha lanciato tuttavia un appello a Cisl e Uil: “Mando a dire a Cisl e Uil che se si volesse fare lo sciopero generale sul fisco la Cgil ovviamente è pronta ed è in prima fila”.
Con la Cgil sono centinaia, fa sapere l’Unione degli universitari, gli studenti in piazza, all’indomani del primo ok del Senato a una legge finanziaria fortemente contestata anche sui risvolti per ricerca e istruzione. Riguardo alla scomparsa dei fondi destinati ai giovani ricercatori dell’università, il leader della Cgil ha detto “è una finanziaria che non dà nulla al lavoro, agli investimenti e al Mezzogiorno e non c’è soluzione neanche per i precari dell’università”. “Manca la promessa di stabilizzare i giovani ricercatori precari”, ha spiegato il segretario generale della Cgil, aggiungendo: “gli interventi del governo vanno contro il mondo del lavoro”.
di Romano Prodi-Il Messaggero
Due sono le lezioni che arrivano ai partiti di centrosinistra dalle recenti elezioni: una lezione per l’Europa ed una per l’Italia. Riguardo all’Europa la batosta complessiva dei socialisti è stata troppo ampia e diffusa per non obbligare a ripensare al semplice interrogativo se essi siano in grado di fare avanzare da soli il complesso compito del riformismo europeo.
I dubbi nascono anche dal fatto che questa diffusa disfatta avviene in un momento di grave crisi economica con profondi disagi concentrati soprattutto nelle categorie tradizionalmente rappresentate dagli stessi partiti socialisti, a partire dai lavoratori di più basso livello e dai precari.
Qualche anno fa l’idea di pensare ad una nuova alleanza fra i progressisti (chiamata forse troppo pomposamente ulivo mondiale) era stata scartata come una proposta fuori dalla storia. Ho paura che quest’idea nella storia ci debba ritornare, almeno per aiutare a rielaborare le proposte che i diversi partiti socialisti hanno presentato ai loro elettori. E ci debba ritornare con una forte e coraggiosa politica europea. Abbiamo infatti assistito ad elezioni europee nelle quali le tesi degli euroscettici erano chiarissime, mentre le voci dei filo-europei erano flebili e non si concretizzavano in proposte precise.
La lezione per il centrosinistra italiano è altrettanto chiara, anche se maggiormente scontata in quanto i danni della frammentazione si erano già resi evidenti nelle precedenti contese elettorali.
Per il Partito Democratico in particolare il risultato, soprattutto mettendolo a confronto con le cattive previsioni e con il relativo flop del Pdl,è stato abbastanza buono da garantire la durata del partito stesso. Ma è stato abbastanza cattivo per obbligare a quel grande dibattito ideologico e programmatico di cui un nuovo partito ha assolutamente bisogno. E che è finora mancato. Insomma la lezione europea e la lezione italiana si intrecciano fra di loro e rendono necessario un rinnovamento radicale. /Beh, buona giornata).
Elezioni/ Berlusconi primo ma non vince: il 35 per cento non sconfigge il governo ma smentita il leader, ed è colpa sua. Le vittorie della Lega e Di Pietro, il Pd salva la pelle, la sinistra suicida, il miracolo di Casini. In Europa il giorno nero dei socialisti, il vento di destra. E quel seggio che si inchina a Noemi. di Lucio Fero-blitzquotidiano.it
La sorpresa c’è stata: Berlusconi arriva primo ma non vince. Quel 35 per cento è più di quanto abbia raccolto ogni altro partito, ma è poco. E che sia per tutti, lui compreso, poco, proprio poco, è scelta, responsabilità e colpa proprio sua, di Berlusconi.
Tecnicamente è andata così: agli astenuti per stanchezza e sfinimento, malattie tipiche e in certa misura ormai croniche dell’elettorato di centro sinistra, stavolta si sono aggiunti gli astenuti per indigestione e inappetenza. Due malesseri, due indisposizioni forse momentanee e forse no che hanno colto un bel po’ di elettorato di centro destra. Indigestione da premier troppo pimpante, troppo narrante, troppo promettente, troppo tutto… E inappetenza, voglia un po’ calcolata e un po’ casuale di metterlo a moderata dieta di consensi questo premier già autoproclamatosi “santo” e non normale uomo della politica e della storia.
Tecnicamente dunque Berlusconi è stato fermato dall’astensione, stavolta dall’astensione anche della sua gente. Un danno, ma niente di più grave di un’ammaccattura. Se non fosse che altro e più grave danno ha subito Berlusconi: la smentita. I risultati infatti smentiscono non la sua forza ma la sua narrazione. Aveva narrato non solo di altre percentuali, 40 e passa per cento, aveva narrato di un’Italia pronta a risarcirlo in massa delle offese subite. Di un’Italia che faceva ressa ansiosa non per confermarlo premier ma per innalzarlo più in alto, sempre più in alto. Aveva chiesto più voti contro il Parlamento lento e inutile, contro la stampa, i giudici, contro tutto ciò che fa ragine alla sua azione salvifica del paese. Li aveva chiesti questi voti e non li ha avuti, alla sua potente narrazione crede un italiano su tre. Questa è una sconfitta che non tocca, non fa neanche un graffio al governo Berlusconi premier ma che è uno schiaffo, neanche tanto dolce, a Berlusconi uomo pubblico, guida e oracolo degli italiani. La sua insomma è la voce più forte che c’è, ma non è la voce narrante dell’Italia.
C’è stata la vittoria, anzi ce ne sono state due. Quella della Lega e quella di Di Pietro. Sommandole, se ne deduce che il 20 per cento degli elettori vogliono, fortemente vogliono cose impossibili, sognano e chiedono choc sociali. Vogliono la fine dell’immigrazione, l’esenzione non solo dalla crisi economica ma anche dalla riconversione di abitudini sociali ed economiche senza le quali dalla crisi non si esce, l’abolizione per decreto o per frontiera della globalizzazione…Oppure la defenestrazione, l’impeachement giudiziario di Berlusconi, un “Grande Processo” che purifichi l’Italia…E’ la volontà e la voglia di un bel pezzo, anzi di due pezzi crescenti di elettorato, sono due voglie entrambe “matte”. Cioè tanto incontenibili quanto pericolose.
Non c’è stato il funerale, anzi il Pd ha salvato la pelle. Niente di più della pelle, ma tra il restare in vita e chiudere bottega c’è un mare, anzi un oceano di differenza. Sono ancora in tempo a disperderlo quel 26 per cento, quelli che guidano il Pd sono capaci anche di questo. Sarebbero anche in tempo, incredibilmente l’elettorato glielo ha dato ancora il tempo, di diventare una forza riformista davvero. Insomma hanno avuto tempo, che in politica è una forma di “denaro”.
C’è stata la sentenza: hanno disperso e buttato via il 6,5 per cento dei voti. Le due liste di sinistra si sono suicidate non per caso e non per sbaglio. La sentenza è di inaffidabilità politica e culturale, oltre che organizzativa.
C’è stata la conferma: l’Udc di Casini esiste e resiste, anzi avanza. Il centro destra non se la mangia, il centro sinistra non la scalfisce.
Dunque un’Italia alquanto diversa da come lei stessa si aspettava di essere, diversa almeno un po’, più complicata di come veniva narrata dalla versione ufficiale.
E l’Europa? Stanca, illusa, nervosa. Ai governi e ai partiti socialdemocratici non crede più e anzi di loro non sa più tanto bene che farsene. Paga dazio Zapatero, anche se in fondo resiste, l’Spd tedesca si avvia a mollare il governo, il Labour inglese è annichilito, i socialisti francesi sembrano un vecchio partito comunista. Tengono invece i governi di centro destra nei paesi sociallmente più solidi. In quelli di fragile e recente democrazia invece avanza la destra estrema. Ci si soprende che i ceti popolari e anche il ceto medio sotto la pressione della crisi economica guardino a destra. Non è però un fenomeno nuovo, anzi è una costante della storia. E’ un’Europa stanca di dover cambiare, infinitamente stanca di dover correre il rischio che invece gli americani accettano. Illusa di poter restare come sta. Nervosa perchè in realtà non sa a chi chiedere la garanzia dell’immobilità.
Ultima nota, marginale, casalinga e mortificante: quel seggio dove Noemi arriva scortata dai vigili urbani e dalle forze dell’ordine, l’energumeno che spinge via gli altri elettori in attesa, il presidente di seggio che chiude la porta in faccia ai comuni cittadini perchè i vip stanno votando. Piccola, grande scena di un’Italia servile per vocazione, civilmente ignorante e cafona. Una scena triste e avvilente, ma questa, almeno questa, non è certo colpa di Berlusconi. In quel seggio un’Italia eticamente “meridionale” si è mostrata com’è, al naturale. (Beh, buona giornata).
Franceschini per alcune settimane ha ripetuto come un disco rotto che Berlusconi non doveva candidarsi senza rendersi conto che agli italiani non gliene frega assolutamente nulla, poi è passato a battere sul tasto della data del referendum e suoi relativi costi, anche qui senza capire il disinteresse dell’opinione pubblica nonché il disastroso esito che avrebbe per il suo partito un’eventuale vittoria dei sì.
Infine ha tirato fuori il coniglio del 25 Aprile, sfidando Berlusconi a partecipare alle celebrazioni. Geniale. Il premier ha colto la palla al balzo, ci è andato, anzi è andato tra le macerie di Onna, ha fatto un discorso equilibrato ed egemone, appunto presidenziale, si è assicurato i titoli dei telegiornali di ieri e dei giornali di oggi, oltre ovviamente all’apprezzamento degli italiani, anche di molti tra quelli che non lo amano.
A questo punto, o Franceschini ripensa e cambia radicalmente la sua strategia, oppure va fino in fondo sulla strada imboccata: invita Berlusconi al Primo Maggio, convince gli elettori di centrosinistra a votare per lui e infine lo fa eleggere per acclamazione leader del Pd. (Beh, buona giornata).
Il premier e il sisma. Fiducia in crescita
Le conseguenze politiche del terremoto
di Renato Mannheimer da corriere.it
La tragedia del terremoto ha avuto inevitabilmente anche effetti politici e ripercussioni sull’opinione pubblica. In due direzioni principali. La prima è stata l’improvviso instaurarsi di un clima meno conflittuale tra le forze politiche. Di fronte a una situazione così drammatica, molte delle tradizionali dispute tra i partiti sono state accantonate dalla necessità di operare di comune accordo per reagire il più rapidamente e il più efficacemente possibile all’emergenza. La seconda conseguenza è costituita dalla forte accentuazione della differenza di popolarità tra le principali forze politiche, con un netto accrescimento del vantaggio, già consistente, acquisito dal presidente del Consiglio. Berlusconi ha confermato le proprie capacità comunicative e la sua abilità nell’instaurare, spesso al di là di ogni intermediazione, un rapporto e un colloquio diretto con la «gente».
Gli ultimi sondaggi confermano questo quadro. Quasi metà dell’elettorato (48%) ritiene che, al di là del proprio giudizio in merito, il Cavaliere sia riuscito oggi a riscuotere più fiducia di prima. Questa opinione è relativamente più presente tra chi è politicamente simpatizzante per il centrodestra: ma anche tra gli elettori del Pd la convinzione che Berlusconi abbia ottenuto un vantaggio è assai diffusa (36%).
Se si approfondisce l’analisi e si interrogano i cittadini non tanto sulle loro considerazioni di carattere generale, quanto sulla propria reazione alle iniziative del Cavaliere, l’immagine del successo di Berlusconi viene meglio delineata e chiarita nelle sue componenti. Più di un quarto degli italiani (26%) dichiara di avere incrementato la propria personale fiducia nel Presidente del Consiglio proprio a seguito del suo comportamento in Abruzzo. Costoro sono naturalmente in gran parte già elettori del centrodestra e ne riproducono le caratteristiche sociali (anziani, casalinghe, possessori di titoli di studio medio-bassi). Ma anche una quota — modesta, ma significativa: poco meno del 10% — di votanti per il Pd «confessa» di provare, dopo il terremoto, più fiducia in Berlusconi.
Negli ultimi giorni, insomma, il Cavaliere ha visto incrementare ulteriormente la propria popolarità, grazie specialmente alla mobilitazione del proprio elettorato già acquisito, ma anche attraverso la conquista delle simpatie di un piccolo segmento dei votanti per l’avversario. La conseguenza è un ulteriore allargamento del grado di consenso goduto nel Paese — oggi superiore al 50% — e, ciò che forse è più importante, un aumento della percentuale di intenzioni di voto per il Pdl che oltrepassano oggi il 45% e, secondo alcuni, si avvicinano al 50%. (Beh, buona giornata).
Semplice boy-scout? Curatore fallimentare? Questo si vedrà. Intanto, nel giro di poche settimane, Franceschini ha rivoluzionato le parole, gli schemi e la vendibilità del prodotto Pd, che tutti davano per scaduto. «Fiducia» è la prima parola rimessa in circolo dal fanceschinismo. E le altre? Eccole, dalla A alla Zeta.
Antagonismo. Al solo pronunciarne il suono, Walter tremava: per la paura di venire considerato un comunista. Dario, da ragazzone democristiano senza sensi di colpa, se ne infischia della mediazione a oltranza per apparire potabile ai ceti moderati e di altri togliattismi scaduti ma vivissimi nel Dna degli attuali ”compagni di scuola” d’origine Pci.
Antagonismo come radicalità post-ideologica.
Besame. Mucho. Canzone prediletta da Dj-Franceschini, come lo chiama Fiorello. I notabili del Pd lo stanno baciando tutti (preoccuparsi?).
Cifre. E proposte concrete. 460 milioni di euro di risparmio con l’election day. 2 per cento di una tantum, per i poveri, da chi guadagna oltre 120mila euro. E via così. Senza un «ma anche».
Dialogo. Interrompere il dialogo è parte della dialettica democratica quanto aiutarlo.
Emergenza. Democratica. «Accadranno cose inimmaginabili», nel caso Berlusconi stravincesse le elezioni europee. Intostare il linguaggio, per coprirsi a sinistra.
Frou frou. Zero. Niente più veltronismo da terrazza romana. Ma sodo provincialismo, padre partigiano e nonno fascistone, giuramento sulla Costituzione, la cartolina spedita a Berlusconi (e non una mail), il giubbottino di renna fuori moda (solo lui e Fini lo indossano ancora)… Se non scrivesse romanzi, sarebbe meglio.
Gente. Parola semplice. Che i politologi non amano e la sinistra riformista neppure. Finalmente sdoganata. Senza la doppia ”gg” (la «ggente») che è orrendamente populistica e santoriana.
Hasta. La victoria siempre? La soglia della vittoria, per Franceschini, è non mandare il Pd troppo sotto il 30 per cento, recuperando astensionisti e delusi. Se ce la fa, canteranno tutti per lui una delle sue canzoni predilette (di Lucio Dalla): «E non andar più via».
Intransigenza. Vedi Antagonismo e anche Dialogo.
Lavoro. E crisi. Questo il terreno sul quale mettere in crisi Berlusconi.
Mangiare. «Le promesse e gli annunci di Berlusconi non danno da mangiare».
Nemici. Ora si usa dire avversari. Fra questi, il «catto-comunista» Dario viene considerato come il più insidioso. Erede di quella sinistra Dc che fece oscurare le tivvù del Cavaliere.
Oscuramento. Oscurato Walter. Riapparso Prodi. Il miracolo di San Franceschino.
Pericolo. Perdere contatto con chi vuole più riformismo, più innovazione, meno subalternità nei confronti della Cgil e nuovo welfare.
Quiz. Dopo le elezioni di giugno, Dario – che è passato dal Loft al Left – guarderà di più al centro?
Radicalismo. Ancora?
Serenità. D’Alema ha dato il la («Con Franceschini, il partito è più sereno») e al Nazareno si canta, sulla falsariga della canzone di Arisa a Sanremo: «Serenità».
Tonino. Cioè Di Pietro. Il franceschinismo l’ha come attutito.
Unione. Prodiana. Lì si tornerà.
Vice. Lo chiamavano Vice-Disastro.
Zero. La soglia di tolleranza degli elettori del Pd, se anche San Franceschino viene ridotto a un San Sebastiano, trafitto dalle solite frecce dei soliti notabili del suo partito. (Beh, buona giornata).
A giudicare dai sondaggi, il segretario del partito democratico Dario Franceschini piace agli elettori del Pd e non dispiace al resto della popolazione. Secondo una recente indagine di Mannheimer la maggior parte dei sostenitori del Pd pensa che il nuovo leader abbia sufficiente carisma e che condurrà il partito in modo «del tutto diverso» dal suo predecessore, riuscendo così a portare nuovi consensi.
E’ realistica questa immagine di una luna di miele fra il nuovo leader e l’elettorato del Pd?
Secondo me sì, per almeno tre buoni motivi. Il primo è che, nonostante il suo volto sia ormai noto da qualche anno, Franceschini non è percepito come un vecchio notabile della sinistra, come accade invece a tutti quanti i politici di lungo corso dei Ds e della Margherita: Massimo D’Alema, Romano Prodi, Piero Fassino, Walter Veltroni, Francesco Rutelli, Anna Finocchiaro, Giuliano Amato, Rosy Bindi, Franco Marini, Pier Luigi Bersani, Livia Turco, Luciano Violante. Fino a cinque anni fa la stragrande maggioranza dei comuni cittadini non sapeva chi fosse Dario Franceschini, né conosceva il suo aspetto, quella faccia da bravo ragazzo che – a dispetto dei suoi 50 anni – aiuta a differenziarlo dal resto dell’establishment democratico, fatto di gente visibilmente corrosa dalle fatiche della politica.
Il secondo motivo per cui Franceschini piace è che è veloce: decide, prende posizione, polemizza, è tagliente, non gira troppo a lungo intorno alle questioni. Adriano Celentano, inventore della dicotomia rock/lento, avrebbe detto di lui che è «rock»: tutto il contrario dello stile ellittico e sospensivo con cui da dieci anni i «lenti» leader democratici hanno affrontato (o meglio eluso) i nodi politici fondamentali della sinistra. Ma il motivo vero, il motivo più importante, per cui Franceschini piace è che ha cominciato a curare la più grave delle malattie della sinistra: il linguaggio oscuro, criptico, involuto, astratto, lontano dal senso comune. Franceschini usa parole che tutti possiamo capire, fa proposte di cui riusciamo a immaginare gli effetti, è quasi sempre concreto. Insomma si preoccupa innanzitutto di arrivare alle persone normali, e solo in seconda battuta di lanciare messaggi in codice agli addetti ai lavori. Sul piano della comunicazione, è il leader più simile a Berlusconi che la sinistra post-comunista abbia avuto finora, e proprio per questo funziona. Penso che ciò sia un bene, per l’Italia e per la sinistra: farsi capire, rivolgersi all’elettorato prima che al Palazzo è una virtù, indipendentemente dai motivi più o meno nobili per cui lo si fa.
C’è un piccolo però, tuttavia. Per quel che abbiamo sentito in queste prime settimane, Franceschini assomiglia a Berlusconi anche da un altro punto di vista: la sua stella polare è il consenso, non la modernizzazione dell’Italia. Se osservate attentamente le azioni dei due leader, è piuttosto evidente che entrambi amano le mosse demagogiche o populiste, ed evitano accuratamente le scelte coraggiose, che farebbero bene al Paese ma potrebbero mettere a repentaglio la stabilità del governo o il potere dell’opposizione. È stata demagogica la soppressione integrale dell’Ici attuata dal governo, visto che i poveri erano già stati sgravati (da Prodi) e gli effetti sulla propensione al consumo non potevano che essere trascurabili. È demagogica la richiesta di Franceschini di aumentare l’aliquota Irpef per i redditi sopra i 120 mila euro, vista la modestia del relativo gettito e visto che la stragrande maggioranza dei redditi alti non vanno in dichiarazione, in quanto tassati alla fonte con aliquote decisamente convenienti, di gran lunga inferiori a quella massima (un punto opportunamente richiamato dal professor Uckmar giusto ieri sul Corriere della Sera). Ma ancor più delle scelte, sono significative le non scelte. Destra e sinistra hanno paura di liberalizzare i servizi pubblici locali, perché distruggerebbero decine di migliaia di poltrone negli enti locali. Il governo non vuole ammortizzatori sociali di carattere universalistico (assegno di disoccupazione automatico, per tutti i settori e tutti i contratti di lavoro) perché sa che uno strumento del genere ridurrebbe fortemente il potere discrezionale della politica. L’opposizione, per bocca di Franceschini, propone sì l’assegno di disoccupazione per tutti, ma rifiuta di coprirne i costi riformando le pensioni, una patata bollente che anche il governo non ha la minima intenzione di toccare sul serio.
Visto da quest’altra angolatura, il nuovo corso di Franceschini appare assai meno nuovo di quanto poteva sembrare a prima vista. Certo, alcune idee meriterebbero di essere valutate attentamente, come l’abbinamento del referendum elettorale alle elezioni Europee, o la riduzione al 20% dell’anticipo Irpef di giugno. Ma complessivamente la direzione di marcia prevalente sembra riproporre schemi vecchiotti: visto che al centro non si riesce a sfondare, spostiamo il partito (un pochino) a sinistra per recuperare voti fra i delusi, i nostalgici di Prodi, i dipietristi arrabbiati, i laici doc, i girotondini, gli anti-berlusconiani in genere. Insomma, la priorità delle priorità è evitare che le Europee si trasformino in una Waterloo per il partito democratico, a costo di interrompere – per l’ennesima volta – il cammino riformista timidamente iniziato tanti anni fa.
È una scelta sociologicamente comprensibile, perché basata sull’istinto di sopravvivenza da cui nessun apparato burocratico è immune, anche quando proclama ideali ben più alti della mera conservazione di sé stesso. Il dubbio, semmai, è se una scelta così conservatrice sia veramente efficace per salvare il Pd da un declino irreversibile. Pensare sempre, come Ds e Margherita hanno fatto negli ultimi anni, esclusivamente all’immediato futuro – le prossime elezioni, il prossimo congresso, le imminenti primarie, la stabilità di un governo amico – può rallentare il declino, ma forse non è il mezzo più adatto a invertire una tendenza. D’altronde, per invertire una tendenza, ci vorrebbero partiti vivi, in cui minoranze combattive lottano per affermare una nuova visione politica, per contrastare un gruppo dirigente, e infine per sostituirlo con una nuova élite. Se questo non accade, e in Italia non accade più da tempo in nessun partito, è inutile aspettarsi qualcosa di più di quello che il buon Franceschini sta facendo per il suo sfortunato partito. Se mai qualcosa di nuovo apparirà sotto il sole, con ogni probabilità verrà da fuori. (Beh, buona giornata).