“Il downgrading non è un giudizio sulla nostra economia ma sul nostro sistema politico, è necessario ritrovare lo spirito di unità nazionale di una volta”, Barak Obama dixit. Il che e’ esattamente il problema dell’Europa, problema che ha in Italia la piu’ penosa rappresentazione, dove, come ha scritto Mario Monti e’ scattato il downgrading politico da parte di Francia e Germania sulle capacita’ del governo italiano di affrontare la crisi. Dunque, parafrasando Obama, i timori della Bce non riguardano l’economia del nostro Paese, riguardano il sistema politico italiano. Se il governo non governa la crisi, e’ la crisi a governare il Paese. Il che e’ esattamente quello che sta succedendo. La politica e’ troppo importante per lasciarla fare a questo sistema politico. O la riprendono in mano i cittadini o restera’ in balia dei poteri finanziari. Beh, buona giornata.
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di Loretta Napoleoni-www.caffe.ch/news/firme/47284.
Finanza ed economia sono invischiate in una singolare catena di Sant’Antonio. Percorriamola a ritroso. Questa settimana la Grecia, che da un mese é sull’orlo della bancarotta, ha chiesto aiuto al Fondo Monetario. Ha un buco finanziario di 300 miliardi di euro. Sembra una storia degli anni ‘70 quando il FMI era l’autoambulanza delle agonizzanti economie occidentali colpite dall’epilessia energetica.
Artefice della crisi greca é una classe politica poco seria e una delle banche d’affari più famose al mondo: Goldman Sachs che in cambio di lauti compensi ha manipolato i conti dello stato facendoli apparire molto più solidi di quello che erano. L’equivalente insomma del falso in bilancio di un’impresa. Eppure per decenni questa banca ha fornito al Tesoro americano spavaldi ministri delle finanze, gente che ha svolto anche e sopratutto un’attivita’ di controllo e regolamentazione del sistema finanziario.
La scorsa settimana la Sec, la Security and Exchange Commission statunitense, ha accusato Goldman Sachs di frode nei confronti di altri clienti, l’accusa e’ di essersi approffittata dei propri clienti nella formazione e vendita di un fondo di mutui spazzatura americani con la complicità di un grosso hedge fund di Wall Street.
A gennaio uno studio di avvocati di Pasadena, in California, ha citato in giudizio per frode 5 membri della Sec. Tra il 2004 ed il 2007 avrebbbero archiettato vendite di azioni fittizie utilizzando una società finanziaria canadese per un valore di quasi 3 miliardi di dollari.
Se volessimo potremmo continuare il nostro viaggio a ritroso, ma bastano questi fatti per farci capire che il problema attuale dell’economia e della finanza occidentale é il sistema di controllo. Ebbene il presidente Obama questa settimana ha presentato il tanto atteso programma di riforma finanziaria, peccato che non aiuti a riparare questa falla.
Investitori e cittadini vengono frodati da chi dovrebbe proteggerli e nessuno se ne accorge perché é facile muoversi sotto il radar dei controlli finanziario. Esistono troppi organi preposti tutti con poteri limitati, nessuno ha dunque una visione di grand’angolo e nessuno ha le risorse per fare bene il suo lavoro. Il presidente Obama vorrebbe allargare il numero dei controllori, propone addirittura di un organo gestito dai consumatori all’interno della Riserva federale con i poteri di regolarne i prestiti alle banche. Perché non razionalizzare invece l’intero sistema e creare un’unica e potentissima istituzione? Perche’ per far passare la riforma finanziaria Obama ha bisogno dell’approvazione del Congresso dove non ha una maggioranza schiacciante. E la sua riforma piace poco.
Difficle dunque mettere fuori legge la catena di Sant’Antonio della finanza globalizzata. La limitazione che il presidente vorrebbe imporre alle banche, e cioé l’obbligo di giocarsi in borsa soltanto i soldi propri o quelli dei clienti consenzienti, sarebbe auspicabile ma bisognerebbe verificare come questo consenso viene raggiunto. Anche il contenimento dell’investimento bancario negli hedge funds e nelle società di private equities necessita di un controllo statale capillare Persino che al momento non é possibile. Persino il contenimento dell’attività dei i lobbisti, i grandi burattinai di Washington, ha bisogno di un rigido sistema di controllo. Ma concepire un organo in grado di ‘spiare’ il comportamento dei membri del Congresso sarebbe inconcepibile in America. Il problema quindi persiste: chi controlla i controllori? (Beh, buona giornata).
HAITI:CLINTON,PROFONDAMENTE OFFESA DA CRITICHE STRANIERE (fonte: Agi)
Hillary Clinton si e’ detta “profondamente offesa” dalle critiche straniere al modo in cui gli Stati Uniti hanno gestito l’emergenza terremoto ad Haiti, e ha ribadito che Washington sta facendo tutto il possibile per aiutare il Paese caraibico. “Sono profondamente offesa dagli attacchi rivolti al nostro Paese, alla generosita’ della nostra gente e alla leadership del nostro presidente che sta tentando di rispondere alle condizioni disastrose dopo questo terremoto”, ha detto il capo della diplomazia americana. Clinton non ha fatto riferimenti a singole critiche ma ha spiegato che “parte della stampa internazionale ha frainteso o deliberatamente travisato” la decisione dell’amministrazione americana di inviare ad Haiti soldati oltre ai civili. Beh, buona giornata
Perché il potere ha paura del web
Scontro tra Cina e Usa sul motore di ricerca. In gioco c’è la libertà d’informazione. E il concetto di sovranità nazionale ai tempi di Internet di FEDERICO RAMPINI-repubblica.it
“Il nostro obiettivo è cambiare il mondo”, è uno slogan di Eric Schmid, il chief executive di Google. Lo stesso Schmid che quattro anni fa, all’inaugurazione del motore di ricerca in mandarino, con l’indirizzo locale segnato dal suffisso “. cn”, dichiarò: “Siamo qui in Cina per rimanerci sempre”. Ora quelle due affermazioni – cambiare il mondo, rimanere in Cina – sono diventate tra loro inconciliabili. Se Google non accetta le regole di Pechino, e la censura delle autorità locali, la sua avventura cinese dovrà chiudersi. Lo scontro epico che si è aperto fra la più grande potenza di Internet e la più grande nazione del pianeta, è destinato a ridefinire nei prossimi anni l’architettura globale del web, i limiti geopolitici della libertà d’informazione, e il nuovo concetto di sovranità nello spazio online.
Il precipitare degli eventi ha colto tutti di sorpresa, almeno in Occidente. Questo copione non è stato scritto né a Mountain View, il quartier generale di Google nella Silicon Valley californiana, né tanto meno a Washington nelle sedi del potere politico. Negli scenari più pessimisti elaborati dal Pentagono, quando due anni fa l’Esercito Popolare di Liberazione centrò in pieno un proprio satellite in un test di guerre stellari, fu detto che la conquista dello spazio sarebbe stata la prossima sfida tra l’America e la Cina. Nessuno aveva messo in conto quello che sta accadendo da due settimane: l’improvviso gelo tra i soci del G2 per il controllo del cyber-spazio.
Eppure quando Google lanciò la sua versione in mandarino nel 2006, la censura di Stato esisteva già. Come Microsoft, come Yahoo, come Rupert Murdoch, anche il colosso di Mountain View accettò il patto con il diavolo: collaborare con il regime facendo propri i suoi tabù, interiorizzarne i limiti alla libertà di espressione, autocensurarsi con dei filtri di software automatici approvati dalle autorità locali. Sembrava logico. Google si comportava come tante altre multinazionali “normali”, separava le regole universali del business capitalistico dal contesto politico locale. Come un qualsiasi fabbricante di auto o di jeans, Schmid pensò di poter chiudere gli occhi sugli abusi contro i diritti umani, e partire alla conquista del più vasto mercato mondiale. Anzi, nel 2006 la questione di coscienza per gli americani sembrava risolta una volta per tutti dalle parole ottimiste di Bill Gates: “Per quanti limiti possano mettere all’attività di Microsoft, l’avvento di Internet introduce nella società cinese un volume d’informazioni senza precedenti. La Cina sarà comunque migliore di prima, grazie a noi”. Ai vertici di Google, a onor del vero, non tutti la pensavano così. Sulle condizioni dello sbarco in Cina aveva dei forti dubbi uno dei due co-fondatori dell’azienda, Sergey Brin. Per la sua biografia personale – nato nell’Unione sovietica, emigrò in America da bambino con i genitori – aveva intuito un’incompatibilità insolubile, tra la “natura” profonda del business di Google e quella della Repubblica Popolare.
La casistica dei conflitti tra i regimi autoritari e la libertà online è ricca di precedenti, dall’Iran alla Birmania. Ma la questione cambia completamente quando la posta in gioco è un mercato di 330 milioni di utenti, ormai il più popoloso del pianeta. Il comunicato del governo cinese che stigmatizza Google e ribatte alle critiche di Hillary Clinton, fa esplicito riferimento alle “regole della rete cinese”. Nessuno immagina che possa esistere un “Internet iraniano”. Ci sono solo le barriere che Teheran frappone per l’accesso locale alla rete: che resta una, indivisa e globale. Ma l’idea che la Cina possa organizzarsi come un cyber-universo autonomo da noi, è altrettanto impensabile?
In Occidente diamo ormai per scontato da anni che la superficie terrestre sia scandagliata minuziosamente da GoogleMap. Ricordo il divertimento con cui mi accorsi, quando abitavo a San Francisco, che dalle foto satellitari si poteva vedere non solo casa mia ma anche la targa della mia auto. Non appena mi trasferii a Pechino nel 2004 scoprii che intere zone della capitale cinese invece erano oscurate, a cominciare dal quartiere di Zhongnanhai dove risiede la nomenklatura comunista. Ciò che a noi appare naturale, o inevitabile, cioè che la mappatura terrestre sia fatta da un’impresa privata americana, non è accettabile a Pechino. E’ un’intrusione virtuale nella sovranità: un valore per il quale gli Stati scendono in guerra da secoli. E visto da Pechino il confine che separa un colosso privato come Google dal governo di Washington, è labile.
Ken Auletta, autore del saggio “Googled” (il passivo del verbo “googlare”), osserva che “poche altre tecnologie – la stampa di Gutenberg, il telefono – hanno avuto effetti sociali rivoluzionari come questo motore di ricerca, che ha sconvolto il nostro modo di produrre informazione, selezionarla, consumarla”. Ma Internet essendo nato in America, tutta l’organizzazione del world wide web ha un’impronta made in Usa. Porta i segni inconfondibili di un “sistema”: regole e valori nati negli Stati Uniti, per estensione occidentali, non necessariamente percepiti come universali a Pechino. Dove noi parliamo di “architettura aperta”, altri capiscono “egemonia americana”.
La Grande Muraglia di Fuoco, è il nome che i dissidenti hanno affibbiato alla censura online della Repubblica Popolare. E’ il più moderno e sofisticato apparato di controllo dell’informazione, con almeno 15.000 tecnici informatici in servizio permanente. Eppure il governo di Pechino ha avuto bisogno fino a ieri di appoggiarsi sul “collaborazionismo” di Google, Yahoo, Microsoft. I dissidenti, o anche i giovani cinesi più curiosi e dotati per l’informatica, hanno appreso ad aggirare la Grande Muraglia. Usano metodi simili a quelli degli hacker: ad esempio per dissimularsi attraverso domicili online all’estero. Sono esattamente i metodi mutuati dai cyber-pirati al servizio del governo, nelle incursioni denunciate da Google il 12 gennaio. Hanno violato la privacy della posta elettronica Gmail di numerosi militanti dei diritti umani; nonché di un grande studio legale di Los Angeles impegnato in un processo contro aziende di Stato cinesi per violazioni di copyright. E hanno profanato le email di 34 aziende hi-tech nella Silicon Valley, un grave episodio di spionaggio industriale che getta un’ombra sulla sicurezza di tutto l’impero Google.
L’esperto d’informatica Holman Jenkins evoca per questa offensiva un precedente poco noto. “All’inizio degli anni Novanta ci fu un’escalation di episodi di pirateria navale nel Mare della Cina meridionale. Hong Kong, che era ancora una colonia inglese, raccolse le prove che i pirati erano in realtà al servizio delle forze armate cinesi. Era un modo per rivendicare la sovranità di Pechino su rotte di comunicazione strategiche”. I cyber-pirati che la Cina ha scatenato contro Google, innescando un conflitto che ha portato fino all’intervento dell’Amministrazione Obama, starebbero facendo un gioco simile. Come il corsaro Francis Drake al servizio di sua maestà Elisabetta I contro l’impero spagnolo. In palio stavolta c’è uno spazio virtuale, perfino più strategico delle rotte marittime. La Cina punta molto in alto, se ha sentito il bisogno di intimidire Google fino a mettere in discussione la privacy dei suoi clienti industriali: tutti ormai potenzialmente spiati. I dirigenti della Repubblica Popolare possono immaginare un Trattato di Yalta del terzo millennio, con cui l’America prenda atto della loro sovranità su una parte di Internet. Se passa il loro piano, il discorso visionario di Hillary Clinton che ha esaltato Internet come “il grande egualizzatore”, si applicherebbe solo al di qua della Grande Muraglia. (Beh, buona giornata).
(fonte:corriere.it)
Il Presidente Usa Barack Obama dovrebbe assumere la guida del vertice del G8 al via in Italia, per evitare che sia uno spreco di tempo e di impegno. E’ quanto scrive nel giorno dell’apertura del summit in un editoriale il quotidiano americano The New York Times. Non sono i problemi a mancare, precisa il quotidiano, «ma una programmazione imperdonabilmente negligente da parte del governo ospite, l’Italia, e la debolezza politica di molti dei leader presenti, lascia poco spazio all’ottimismo».
LA GUIDA – Per questo, scrive il Nyt, «se questa sessione non vuole essere uno spreco di tempo e impegno, il Presidente Obama dovrà assumerne la guida», trasformando la fiducia politica che si è guadagnato negli ultimi sei mesi in capitale diplomatico. Il quotidiano invita quindi il Presidente americano a «fare nuove pressioni sulla Germania perché investa di più nel pacchetto di stimolo», a intervenire sugli altri leader per scongiurare «pericolose tendenze protezionistiche» e a sollecitare una «decisa presa di posizione da parte del G8, Russia inclusa», contro l’ambizione nucleare iraniana.
CLIMA – Sui cambiamenti climatici, gli Stati Uniti sono ancora molto indietro rispetto all’Europa, ammette il Nyt, per cui Obama dovrà fare pressioni sul Congresso americano perchè approvi la sua legge per la riduzione delle emissioni. Al vertice, i leader del G8 «dovrebbero impegnarsi a rispettare l’obiettivo» di raddoppiare gli aiuti ai Paesi poveri, e «ogni Paese dovrebbe annunciare un contributo preciso per questo e il prossimo anno». «Tradizionalmente è l’ospite a dettare tono, tema e agenda di questi incontri – prosegue il quotidiano – ma il premier italiano, Silvio Berlusconi, ha speso gran parte delle sue energie, nelle ultime settimane, a cercare di eludere le accuse pubblicate dalla stampa sulle sue frequentazioni con escort e minorenni. “Showmanship”: forse. Leadership: no». «Tutti i Paesi presenti all’Aquila hanno un chiaro interesse a favorire una più forte e rapida ripresa economica, a fermare la corsa nucleare dell’Iran, a rallentare il riscaldamento terrestre e a sostenere lo sviluppo delle nazioni più povere del mondo – conclude il Nyt – spetta ad Obama ricordarlo ai leader e stimolarli». Beh, buona giornata.
Da Obama a Obama, il declino e la maschera di Ida Dominijanni-Il Manifesto
Non sappiamo se nel tempismo di monsignor Crociata ci sia più un omaggio alla virtù illibata di Santa Maria Goretti o un intervento a gamba tesa sui vizi impenitenti di Silvio Berlusconi alla vigilia del G8. Fatto sta che il giudizio del segretario della Cei sul «libertinaggio gaio e irresponsabile che invera la parola lussuria» e non è rubricabile sotto la voce «affari privati» sembra non ammettere retromarce.
Se si somma questo giudizio a quello espresso domenica sera alla festa del Pd da Massimo D’Alema, sull’«eccessivo ritegno» avuto dal suo partito a denunciare «un’esibizione di volgarità che quando viene da alte cariche istituzionali è un fatto inequivocabilmente pubblico», è lapalissiano che il cerchio magico di autoprotezione del premier si è spezzato. Quel cerchio era imbastito sulla base dell’impresentabile argomento della tutela della sua privacy violata. Ma ormai è chiaro a tutti che di privato la sua politica della sessualità non ha proprio niente. Ed è rimasto solo lui con i suoi più fedeli velini a pensare di poter sostenere che le prossime foto in libera uscita all’estero sui fasti e i festini di Villa Certosa siano un «fotomontaggio» intrusivo della sua intimità, e non una ulteriore prova del «sistema di intrattenimento dell’imperatore» denunciato due mesi orsono da sua moglie.
Mentre minaccia la stampa internazionale come ha fatto fin qui con quella nazionale, Berlusconi ostenta, come al suo solito, una sicurezza pari alla fragilità su cui traballa. Lui è «il più esperto» fra i leader che si incontreranno all’Aquila, lui sa come infondere fiducia per uscire dalla crisi, lui sa come si sta vicino a chi perde il posto di lavoro, lui sa come soccorrere i paesi africani che finora hanno avuto nella sua agenda un rilievo pari a zero, lui può esibire al G8 «un bel biglietto da visita» per via del suo cruciale ruolo sulla crisi in Georgia e sui rapporti Usa-Russia.
A fare da megafono a questa ennesima esibizione di sicumera è il «suo» Giornale, ma perfino la potenza mediatica di Berlusconi pare ormai piccola cosa a confronto con il discredito in cui è precipitato, e ci ha precipitati, sui media internazionali. Cresciuto grazie alla sua speculazione antipolitica sul declino della politica nazionale, Berlusconi ha sottovalutato anche sul terreno dei media la forza dirompente della globalizzazione; e non solo sul terreno dei media.
Opponendo al «complotto» mediatico internazionale e agli «agguati della sinistra» alla sua privacy la sua ostentata sicurezza di presidente del G8, Berlusconi non fa che tentare di occultare, ancora una volta, la triste verità che lo riguarda. E la triste verità è che il suo declino, deciso e accelerato dalla sequenza di disvelamenti iniziata con il caso-Veronica e proseguita con il caso-Noemi e il caso-D’Addario, ha agito in realtà non contro la sua forza ma in concomitanza con la sua debolezza internazionale.
Una debolezza che non si può nemmeno imputare direttamente a lui, alla sua inadeguatezza, alle gaffe che l’hanno reso tristemente famoso nel mondo fin dalle sue performance nei suoi precedenti governi; e che va piuttosto ricondotta ai cambiamenti dello scenario geopolitico e culturale che si sono innescati con la fine dell’era Bush e l’elezione di Barack Obama.
Molto più che un cambio di governo nella potenza alleata di riferimento, l’elezione del presidente «abbronzato» ha segnato fin dallo scorso autunno, per Berlusconi, la fine di una sponda politica e ideologica che dava una parvenza di plausibilità internazionale al laboratorio italiano della destra neoliberista e neoconservatrice. E vista a-posteriori, appare tutt’altro che casuale l’imbarazzante coincidenza fra la notte dell’elezione di Obama e la notte trascorsa dal premier italiano con Patrizia D’Addario a palazzo Grazioli, quasi un rito, aggressivo e mortifero, di rimozione di un evento per lui catastrofico. Così come a posteriori acquista un’altra luce, anch’essa decadente e profetica, l’imbarazzante sequenza di performance del premier italiano al G20 di Londra, il suo patetico tentativo di entrare nella scia carismatica del giovane presidente americano, di farsi fotografare con lui, di ottenere l’invito alla Casa bianca, di surrogare con un protagonismo improvvisato la solitudine di un leader privo di first lady.
Già in quei giorni, quando il Pdl era stato da poco battezzato alla Fiera di Roma inneggiando alla «leadership carismatica» del suo Capo, fu un collaboratore di Zapatero a dichiarare che all’estero Berlusconi era considerato «uno senza vergogna, altro che carisma». Eppure, le foto di villa Certosa non circolavano ancora, Sofia Ventura non si era ancora pronunciata contro le candidature delle veline, Veronica Lario non aveva chiesto il divorzio, non c’era nessuna Noemi Letizia e nessuna Patrizia D’Addario all’orizzonte, e nemmeno una giudice, donna anche lei, che di lì a poco avrebbe emesso la sentenza sul caso Mills.
Poi si sono manifestate una dietro l’altra, smontando uno dopo l’altro i trucchi di una finta potenza pulsionale e politica. E’ con questa compagnia femminile, per una volta indesiderata, che il premier bianco affronta di nuovo il confronto col presidente «abbronzato». Fra carisma e seduttività, si sa già che non c’è gara. (Beh, buona giornata).
G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it
Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.
Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.
Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.
La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.
E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.
Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.
Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.
Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.
Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.
Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).
di Gianni Minà – da ilmanifesto.it
Alla fine il golpe militare in Honduras, il secondo paese più povero dell’America latina dopo Haiti, ha finito per nuocere più di tutti, per ora, alla nuova amministrazione Usa del presidente Barack Obama, che è rimasto praticamente con il fiammifero acceso in mano, specie considerando la sua più volte affermata intenzione di cambiare metodi e politica nel continente che, una volta, era “il cortile di casa” degli Stati uniti.
Perchè è vero che Obama ha condannato il colpo di stato in Honduras, dichirandosi “seriamente preoccupato per la situazione” e chiedendo “a tutti gli attori politici e sociali di quel povero paese di rispettare lo Stato di diritto”, ed è vero che sulla stessa linea si è espressa anche Hillary Clinton, ministro degli esteri, che ha ribadito “Sono stati violati i principi democratici”.
Ma nessuno può credere che l’ambasciatore Usa in Honduras, Hugo Llorenz, pronto a sua volta ad affermare “L’unico presidente che gli Stati uniti riconoscono nel paese è Zelaya” (proprio il premier liberale deposto e cacciato in Costa Rica) non sapesse da tempo cosa stesse per succedere.
Allora i casi sono due: o l’ambasciatore degli Stati uniti è un incapace o vogliamo credere che il governo di Washington non ha più la minima influenza sull’apparato militare che, da quasi cinquant’anni, condiziona in modo indiscutibile la vita di un paese di radici maya che, oltretutto, dai tempi in cui il presidente Ronald Reagan decise di appoggiare la “guerra sporca” alla rivoluzione sandinista in Nicaragua, è la base operativa e logistica delle operazioni militari del Pentagono in quella zona del mondo.
Operazioni che tra l’altro partono da una base militare, quella di Palmerola, assolutamente illegale perché mai è stato firmato un accordo ufficiale fra i due paesi perché questo apparato venisse edificato e fosse attivo sul suolo hondureño. Anzi, le forze armate del piccolo paese sono legate al Comando Sud dell’armata nordamericana, i cui consiglieri militari giocano un ruolo essenziale nelle loro strategie.
Fra “gli attori politici” nel piccolo paese centroamericano, di quasi sette milioni e mezzo di abitanti, le forze armate degli Stati uniti sono ancora preminenti e non a caso gli alti comandi sono stati formati tutti alla famigerata Scuola delle Americhe, prima a Panama e poi a Fort Benning in Georgia, vera fabbrica di dittatori e di assassini.
Il generale Romeo Vazquez, leader dei golpisti, ha studiato, per esempio, in quell’inquietante ”ateneo”, e da quell’insegnamento, come ha ricordato l’altroieri Manlio Dinucci, vengono i dittatori hondureñi degli anni 70 e 80, Juan Castro, Policarpo Paz Garcia e Humberto Hernandez. Salvo i pochi passati a miglior vita, tutti questi “repressori con stellette” incidono ancora nella vita politica dell’Honduras, anche se nel frattempo si sono sostituiti a loro per via elettorale presidenti presunti liberali o neoliberisti che hanno condotto il paese alla miseria più nera.
Manuel Zelaya, rubricato come liberale ed eletto nel 2006 dalla destra moderata in un paese ostaggio della delinquenza e delle gang giovanili, come il Guatemala e il Salvador, ha avuto il torto di rendersi conto che la causa di questa deriva era di origine strutturale, il prodotto dei bassissimi livelli di sviluppo umano e lo stato di estrema generalizzata povertà.
Così pensò che aderire all’ALBA, l’Alternativa Bolivariana per i Popoli d’America, un progetto di cooperazione politica, sociale ed economica tra i paesi dell’America latina ed i paesi caraibici, promossa dal Venezuela e da Cuba e successivamente da Nicaragua, Ecuador e Repubblica Dominicana (in alternativa all’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) voluta dagli Stati uniti), poteva essere una scelta incorretta ideologicamente, ma economicamente realista, specie considerando il sostegno che avrebbe assicurato ad alcune politiche sociali l’aiuto che sarebbe venuto da PDVSA, la compagnia petrolifera venezuelana.
In quell’occasione si dimise il vicepresidente, espressione degli interessi di molte imprese private, sospettose di questi accordi per la linea politica espressa dalle nazioni dell’ALBA.
Adesso è lo stesso Zelaya che è stato esiliato a forza, anche se annuncia che tornerà in patria addirittura oggi.
In questo scenario dovrà ora farsi largo politicamente Barack Obama che, dopo quanto ha dichiarato, non potrà riconoscere il nuovo governo imposto dal golpe militare e presieduto da Roberto Micheletti, ex presidente del Parlamento, ma non sarà in grado nemmeno imporre, come chiede l’Organizzazione degli Stati americani e perfino l’Onu, il reintegro nel suo incarico di Manuel Zelaya, anche se è stato democraticamente eletto.
Questo dettaglio non è di poco conto, ma perfino per organi di informazione come El Pais, giornale una volta progressista, vale solo quando a vincere è il partito conveniente in America latina alle politiche neocoloniali di molte multinazionali spagnole e non coalizioni in linea con il nuovo vento di indipendenza, di autonomia e di riscatto che spira in molti paesi del continente a sud del Texas.
Così, in questa occasione sparisce, per esempio, nell’informazione del prestigioso giornale iberico che detta la linea in Europa su come si deve interpretare la realtà latinoamericana, la condanna dell’Onu al golpe, ed anche l’oggetto del contendere in Honduras, cioè un referendum che voleva portare alla convocazione di un’assemblea costituente e non, come afferma il giornale dell’Editorial Prisa, l’aspirazione di Zelaya di “modificare la Costituzione per restare al potere”. Quindi i militari in qualche modo avrebbero agito da tutori dello stato, malgrado la maggioranza dei cittadini non glielo avesse chiesto.
Insomma, in una parte di quella che fu una volta l’informazione di sinistra c’è come un vischioso tentativo a preparare i propri lettori a digerire un colpo di stato, presentandolo come una soluzione legittima.
Peccato che proprio l’attuale ministro degli esteri del governo Zapatero, Miguel Angel Moratinos, abbia denunciato poco tempo fa come fu proprio un governo conservatore spagnolo, quello di José Maria Aznar, il primo a legittimare, insieme a quello di George W. Bush, il colpo di stato, poi fallito, in Venezuela l’11 aprile 2002 contro il presidente Ugo Chavez, che era stato scelto dai cittadini.
A El Pais evidentemente hanno la memoria corta, ma nello stesso errore non si può permettere di cadere il successore di Bush, Barack Obama, dopo le dichiarazioni di principio fatte e ribadite.
Chi ha confezionato questa polpetta avvelenata al presidente degli Stati uniti? (Beh, buona giornata).
Il vecchio clown alla Casa bianca, di Giovanna Pajetta-Il Manifesto
Silvio Berlusconi è arrivato a un passo dal colpo grosso, essere inquadrato alla Casa bianca nel momento, atteso per tutta la giornata di lunedì, in cui Barak Obama finalmente commentava la situazione iraniana. Ma le telecamere, impietose, hanno evitato in ogni modo di far vedere chi fosse l’ospite straniero. E così, mentre il presidente americano spiegava compreso “non posso rimanere in silenzio davanti alle immagini che vedo in televisione… al di là del risultato delle elezioni, gli iraniani devono poter decidere del futuro del loro paese “, l’unica altra voce che si è sentita (bruscamente zittita dallo stesso Obama) è stata quella dell’interprete italiano.
Schiacciato tra la grande battaglia per la riforma sanitaria e gli eventi, sempre più preoccupanti, di Teheran, il primo incontro di Silvio Berlusconi con il nuovo presidente egli Stati uniti, è stato in realtà molto formale. Il premier italiano ha portato in dono l’invio di altri 200 o 300 soldati italiani (probabilmente spostandoli, temporaneamente, dai Balcani) e soprattutto l’offerta di ospitare (incarcerare?) nella penisola almeno 3 ex detenuti di Guantanamo. Barak Obama ha apprezzato e ha risposto con un classico, e stereotipato “Piacere di vederti, amico mio”, sorridendo composto anche quando Berlusconi l’ha praticamente abbracciato, o con l’altrettanto classica affermazione “L’Italia è un alleato cruciale”.
Organizzato in vista del G8 di luglio all’Aquila, al centro di buona parte dei colloqui (a cui ha partecipato anche Hillary Clinton) l’incontro del resto era stato voluto fortemente da Silvio Berlusconi. Dopo gli anni della “grande amicizia” con George Bush, la distanza tra Italia e Stati uniti è cresciuta a dismisura, fino a far maturare le voci di un vero e proprio fastidio americano nei confronti di un premier più vicino a Vladimir Putin che alla Casa bianca. Poi è arrivato lo scandalo Veronica, Silvio Berlusconi è stato sbeffeggiato su tutta la stampa straniera e, come notava James Walston, professore dell’Accademia americana di Roma, il viaggio a Washington serviva per cercare di dimostrare che il nostro premier è “uno statista e non solo un vecchio clown”.
In realtà le televisioni americane hanno non hanno dato nessun rilievo alla visita, giusto qualche accenno su siti come “Politico.com”, e un benvenuto decisamente velenoso da parte della “National public radio”. La cui corrispondente da Roma ha annunciato l’arrivo “dello screditato premier italiano che, come si sa, dichiara che la crisi economica è un’invenzione dei media”. Ma del resto di questi tempi qualsiasi articolo, o servizio, sul nostro paese è impietoso. Speriamo che almeno una volta entrato nella stanza del caminetto, seduto a fianco di Barak Obama, il nostro premier si sia un po’ trattenuto, evitando quantomeno di spiegare come anche il New York Times (l’Economist, il Finacial Times…) sia in realtà un giornale che complotta contro di lui.
da repubblica.it
Il titolo, apparso sull’homepage della Bbc, è eloquente: “Oh no, Silvio!”. Ed è seguito da una domanda, per nulla retorica: “Riuscirà il premier italiano a non offendere nessuno, durante la sua visita negli Stati Uniti?”.
E’ attorno a questo interrogativo che ruota l’articolo firmato da Stephen Mulvey, e pubblicato sul sito che fa capo alla tv britannica oggi alle 15 (le 16 italiane). Tutto dedicato alle incognite della trasferta in terra americana del nostro presidente del Consiglio. Con una preoccupazione di fondo sul modo di esprimersi spesso politicamente scorretto di Berlusconi, al momento del suo sbarco nella patria mondiale del politically correct.
In particolare, il sito della Bbc ricorda la doppia gaffe del Cavaliere sul colore della pelle di Obama. La prima risale al novembre scorso, quando il capo del governo italiano definì il neopresidente Usa “giovane, bello e abbronzato”. Con conseguenti polemiche in mezzo mondo, e con decine di lettere di scuse inviate dai nostri concittadini al New York Times, imbarazzati dal siscutibile modo di scherzare del premier. Un episodio che lo stesso Berlusconi ha rievocato ieri, alla vigilia del suo imbarco per Washington, in una sorta di autocitazione: “Parto bello e abbronzato”, ha detto.
A partire da questo, l’articolo si interroga – riportando anche il parere di professori universitari e giornalisti italiani – sull’eventuale razzismo del presidente del Consiglio, sulla sua propensione alle gaffe (viene ricordata anche quella con la Regina Elisabetta a Londra), e sulla differenza abissale del suo temperamento rispetto a quello, attentissimo e controllatissimo, di Barack Obama.
E non mancano nemmeno i riferimenti alle recenti bufere che hanno coinvolto Berlusconi: l’inchiesta su eventuali suoi abusi dei voli di Stato; le foto (definite “seminude”) di Villa Certosa; le accuse della moglie di frequentare minorenni. Tutte circostanze che, almeno secondo l’autorevole sito britannico, bastano a giustificare quell’invocazione iniziale: “On ho, Silvio!”. (Beh, buona giornata).
Il Cairo, 4 Giugno 2009.
Ecco la traduzione integrale del discorso del presidente americano Barack Obama all’Università del Cairo.-repubblica.it
SONO onorato di trovarmi qui al Cairo, in questa città eterna, e di essere ospite di due importantissime istituzioni. Da oltre mille anni Al-Azhar rappresenta il faro della cultura islamica e da oltre un secolo l’Università del Cairo è la culla del progresso dell’Egitto. Insieme, queste due istituzioni rappresentano il connubio di tradizione e progresso.
Sono grato di questa ospitalità e dell’accoglienza che il popolo egiziano mi ha riservato. Sono altresì orgoglioso di portare con me in questo viaggio le buone intenzioni del popolo americano, e di portarvi il saluto di pace delle comunità musulmane del mio Paese: assalaamu alaykum.
Ci incontriamo qui in un periodo di forte tensione tra gli Stati Uniti e i musulmani in tutto il mondo, tensione che ha le sue radici nelle forze storiche che prescindono da qualsiasi attuale dibattito politico. Il rapporto tra Islam e Occidente ha alle spalle secoli di coesistenza e cooperazione, ma anche di conflitto e di guerre di religione. In tempi più recenti, questa tensione è stata alimentata dal colonialismo, che ha negato diritti e opportunità a molti musulmani, e da una Guerra Fredda nella quale i Paesi a maggioranza musulmana troppo spesso sono stati trattati come Paesi che agivano per procura, senza tener conto delle loro legittime aspirazioni. Oltretutto, i cambiamenti radicali prodotti dal processo di modernizzazione e dalla globalizzazione hanno indotto molti musulmani a considerare l’Occidente ostile nei confronti delle tradizioni dell’Islam.
Violenti estremisti hanno saputo sfruttare queste tensioni in una minoranza, esigua ma forte, di musulmani. Gli attentati dell’11 settembre 2001 e gli sforzi continui di questi estremisti volti a perpetrare atti di violenza contro civili inermi ha di conseguenza indotto alcune persone nel mio Paese a considerare l’Islam come inevitabilmente ostile non soltanto nei confronti dell’America e dei Paesi occidentali in genere, ma anche dei diritti umani. Tutto ciò ha comportato maggiori paure, maggiori diffidenze.
Fino a quando i nostri rapporti saranno definiti dalle nostre differenze, daremo maggior potere a coloro che perseguono l’odio invece della pace, coloro che si adoperano per lo scontro invece che per la collaborazione che potrebbe aiutare tutti i nostri popoli a ottenere giustizia e a raggiungere il benessere. Adesso occorre porre fine a questo circolo vizioso di sospetti e discordia.
Io sono qui oggi per cercare di dare il via a un nuovo inizio tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo; l’inizio di un rapporto che si basi sull’interesse reciproco e sul mutuo rispetto; un rapporto che si basi su una verità precisa, ovvero che America e Islam non si escludono a vicenda, non devono necessariamente essere in competizione tra loro. Al contrario, America e Islam si sovrappongono, condividono medesimi principi e ideali, il senso di giustizia e di progresso, la tolleranza e la dignità dell’uomo.
Sono qui consapevole che questo cambiamento non potrà avvenire nell’arco di una sola notte. Nessun discorso o proclama potrà mai sradicare completamente una diffidenza pluriennale. Né io sarò in grado, nel tempo che ho a disposizione, di porre rimedio e dare soluzione a tutte le complesse questioni che ci hanno condotti a questo punto. Sono però convinto che per poter andare avanti dobbiamo dire apertamente ciò che abbiamo nel cuore, e che troppo spesso viene detto soltanto a porte chiuse. Dobbiamo promuovere uno sforzo sostenuto nel tempo per ascoltarci, per imparare l’uno dall’altro, per rispettarci, per cercare un terreno comune di intesa. Il Sacro Corano dice: “Siate consapevoli di Dio e dite sempre la verità”. Questo è quanto cercherò di fare: dire la verità nel miglior modo possibile, con un atteggiamento umile per l’importante compito che devo affrontare, fermamente convinto che gli interessi che condividiamo in quanto appartenenti a un unico genere umano siano molto più potenti ed efficaci delle forze che ci allontanano in direzioni opposte.
In parte le mie convinzioni si basano sulla mia stessa esperienza: sono cristiano, ma mio padre era originario di una famiglia del Kenya della quale hanno fatto parte generazioni intere di musulmani. Da bambino ho trascorso svariati anni in Indonesia, e ascoltavo al sorgere del Sole e al calare delle tenebre la chiamata dell’azaan. Quando ero ragazzo, ho prestato servizio nelle comunità di Chicago presso le quali molti trovavano dignità e pace nella loro fede musulmana.
Ho studiato Storia e ho imparato quanto la civiltà sia debitrice nei confronti dell’Islam. Fu l’Islam infatti – in istituzioni come l’Università Al-Azhar – a tenere alta la fiaccola del sapere per molti secoli, preparando la strada al Rinascimento europeo e all’Illuminismo. Fu l’innovazione presso le comunità musulmane a sviluppare scienze come l’algebra, a inventare la bussola magnetica, vari strumenti per la navigazione; a far progredire la maestria nello scrivere e nella stampa; la nostra comprensione di come si diffondono le malattie e come è possibile curarle. La cultura islamica ci ha regalato maestosi archi e cuspidi elevate; poesia immortale e musica eccelsa; calligrafia elegante e luoghi di meditazione pacifica. Per tutto il corso della sua Storia, l’Islam ha dimostrato con le parole e le azioni la possibilità di praticare la tolleranza religiosa e l’eguaglianza tra le razze.
So anche che l’Islam ha avuto una parte importante nella Storia americana. La prima nazione a riconoscere il mio Paese è stato il Marocco. Firmando il Trattato di Tripoli nel 1796, il nostro secondo presidente, John Adams, scrisse: “Gli Stati Uniti non hanno a priori alcun motivo di inimicizia nei confronti delle leggi, della religione o dell’ordine dei musulmani”. Sin dalla fondazione degli Stati Uniti, i musulmani americani hanno arricchito il mio Paese: hanno combattuto nelle nostre guerre, hanno prestato servizio al governo, si sono battuti per i diritti civili, hanno avviato aziende e attività, hanno insegnato nelle nostre università, hanno eccelso in molteplici sport, hanno vinto premi Nobel, hanno costruito i nostri edifici più alti e acceso la Torcia Olimpica. E quando di recente il primo musulmano americano è stato eletto come rappresentante al Congresso degli Stati Uniti, egli ha giurato di difendere la nostra Costituzione utilizzando lo stesso Sacro Corano che uno dei nostri Padri Fondatori – Thomas Jefferson – custodiva nella sua biblioteca personale.
Ho pertanto conosciuto l’Islam in tre continenti, prima di venire in questa regione nella quale esso fu rivelato agli uomini per la prima volta. Questa esperienza illumina e guida la mia convinzione che una partnership tra America e Islam debba basarsi su ciò che l’Islam è, non su ciò che non è. Ritengo che rientri negli obblighi e nelle mie responsabilità di presidente degli Stati Uniti lottare contro qualsiasi stereotipo negativo dell’Islam, ovunque esso possa affiorare.
Ma questo medesimo principio deve applicarsi alla percezione dell’America da parte dei musulmani. Proprio come i musulmani non ricadono in un approssimativo e grossolano stereotipo, così l’America non corrisponde a quell’approssimativo e grossolano stereotipo di un impero interessato al suo solo tornaconto. Gli Stati Uniti sono stati una delle più importanti culle del progresso che il mondo abbia mai conosciuto. Sono nati dalla rivoluzione contro un impero. Sono stati fondati sull’ideale che tutti gli esseri umani nascono uguali e per dare significato a queste parole essi hanno versato sangue e lottato per secoli, fuori dai loro confini, in ogni parte del mondo. Sono stati plasmati da ogni cultura, proveniente da ogni remoto angolo della Terra, e si ispirano a un unico ideale: E pluribus unum. “Da molti, uno solo”.
Si sono dette molte cose e si è speculato alquanto sul fatto che un afro-americano di nome Barack Hussein Obama potesse essere eletto presidente, ma la mia storia personale non è così unica come sembra. Il sogno della realizzazione personale non si è concretizzato per tutti in America, ma quel sogno, quella promessa, è tuttora valido per chiunque approdi alle nostre sponde, e ciò vale anche per quasi sette milioni di musulmani americani che oggi nel nostro Paese godono di istruzione e stipendi più alti della media.
E ancora: la libertà in America è tutt’uno con la libertà di professare la propria religione. Ecco perché in ogni Stato americano c’è almeno una moschea, e complessivamente se ne contano oltre 1.200 all’interno dei nostri confini. Ecco perché il governo degli Stati Uniti si è rivolto ai tribunali per tutelare il diritto delle donne e delle giovani ragazze a indossare l’hijab e a punire coloro che vorrebbero impedirglielo.
Non c’è dubbio alcuno, pertanto: l’Islam è parte integrante dell’America. E io credo che l’America custodisca al proprio interno la verità che, indipendentemente da razza, religione, posizione sociale nella propria vita, tutti noi condividiamo aspirazioni comuni, come quella di vivere in pace e sicurezza, quella di volerci istruire e avere un lavoro dignitoso, quella di amare le nostre famiglie, le nostre comunità e il nostro Dio. Queste sono le cose che abbiamo in comune. Queste sono le speranze e le ambizioni di tutto il genere umano.
Naturalmente, riconoscere la nostra comune appartenenza a un unico genere umano è soltanto l’inizio del nostro compito: le parole da sole non possono dare risposte concrete ai bisogni dei nostri popoli. Questi bisogni potranno essere soddisfatti soltanto se negli anni a venire sapremo agire con audacia, se capiremo che le sfide che dovremo affrontare sono le medesime e che se falliremo e non riusciremo ad avere la meglio su di esse ne subiremo tutti le conseguenze.
Abbiamo infatti appreso di recente che quando un sistema finanziario si indebolisce in un Paese, è la prosperità di tutti a patirne. Quando una nuova malattia infetta un essere umano, tutti sono a rischio. Quando una nazione vuole dotarsi di un’arma nucleare, il rischio di attacchi nucleari aumenta per tutte le nazioni. Quando violenti estremisti operano in una remota zona di montagna, i popoli sono a rischio anche al di là degli oceani. E quando innocenti inermi sono massacrati in Bosnia e in Darfur, è la coscienza di tutti a uscirne macchiata e infangata. Ecco che cosa significa nel XXI secolo abitare uno stesso pianeta: questa è la responsabilità che ciascuno di noi ha in quanto essere umano.
Si tratta sicuramente di una responsabilità ardua di cui farsi carico. La Storia umana è spesso stata un susseguirsi di nazioni e di tribù che si assoggettavano l’una all’altra per servire i loro interessi. Nondimeno, in questa nuova epoca, un simile atteggiamento sarebbe autodistruttivo. Considerato quanto siamo interdipendenti gli uni dagli altri, qualsiasi ordine mondiale che dovesse elevare una nazione o un gruppo di individui al di sopra degli altri sarebbe inevitabilmente destinato all’insuccesso.
Indipendentemente da tutto ciò che pensiamo del passato, non dobbiamo esserne prigionieri. I nostri problemi devono essere affrontati collaborando, diventando partner, condividendo tutti insieme il progresso.
Ciò non significa che dovremmo ignorare i motivi di tensione. Significa anzi esattamente il contrario: dobbiamo far fronte a queste tensioni senza indugio e con determinazione. Ed è quindi con questo spirito che vi chiedo di potervi parlare quanto più chiaramente e semplicemente mi sarà possibile di alcune questioni particolari che credo fermamente che dovremo in definitiva affrontare insieme.
Il primo problema che dobbiamo affrontare insieme è la violenza estremista in tutte le sue forme. Ad Ankara ho detto chiaramente che l’America non è – e non sarà mai – in guerra con l’Islam. In ogni caso, però, noi non daremo mai tregua agli estremisti violenti che costituiscono una grave minaccia per la nostra sicurezza. E questo perché anche noi disapproviamo ciò che le persone di tutte le confessioni religiose disapprovano: l’uccisione di uomini, donne e bambini innocenti. Il mio primo dovere in quanto presidente è quello di proteggere il popolo americano.
La situazione in Afghanistan dimostra quali siano gli obiettivi dell’America, e la nostra necessità di lavorare insieme. Oltre sette anni fa gli Stati Uniti dettero la caccia ad Al Qaeda e ai Taliban con un vasto sostegno internazionale. Non andammo per scelta, ma per necessità. Sono consapevole che alcuni mettono in dubbio o giustificano gli eventi dell’11 settembre. Cerchiamo però di essere chiari: quel giorno Al Qaeda uccise circa 3.000 persone. Le vittime furono uomini, donne, bambini innocenti, americani e di molte altre nazioni, che non avevano commesso nulla di male nei confronti di nessuno. Eppure Al Qaeda scelse deliberatamente di massacrare quelle persone, rivendicando gli attentati, e ancora adesso proclama la propria intenzione di continuare a perpetrare stragi di massa. Al Qaeda ha affiliati in molti Paesi e sta cercando di espandere il proprio raggio di azione. Queste non sono opinioni sulle quali polemizzare: sono dati di fatto da affrontare concretamente.
Non lasciatevi trarre in errore: noi non vogliamo che le nostre truppe restino in Afghanistan. Non abbiamo intenzione di impiantarvi basi militari stabili. È lacerante per l’America continuare a perdere giovani uomini e giovani donne. Portare avanti quel conflitto è difficile, oneroso e politicamente arduo. Saremmo ben lieti di riportare a casa anche l’ultimo dei nostri soldati se solo potessimo essere fiduciosi che in Afghanistan e in Pakistan non ci sono estremisti violenti che si prefiggono di massacrare quanti più americani possibile. Ma non è ancora così.
Questo è il motivo per cui siamo parte di una coalizione di 46 Paesi. Malgrado le spese e gli oneri che ciò comporta, l’impegno dell’America non è mai venuto e mai verrà meno. In realtà, nessuno di noi dovrebbe tollerare questi estremisti: essi hanno colpito e ucciso in molti Paesi. Hanno assassinato persone di ogni fede religiosa. Più di altri, hanno massacrato musulmani. Le loro azioni sono inconciliabili con i diritti umani, il progresso delle nazioni, l’Islam stesso.
Il Sacro Corano predica che chiunque uccida un innocente è come se uccidesse tutto il genere umano. E chiunque salva un solo individuo, in realtà salva tutto il genere umano. La fede profonda di oltre un miliardo di persone è infinitamente più forte del miserabile odio che nutrono alcuni. L’Islam non è parte del problema nella lotta all’estremismo violento: è anzi una parte importante nella promozione della pace.
Sappiamo anche che la sola potenza militare non risolverà i problemi in Afghanistan e in Pakistan: per questo motivo stiamo pianificando di investire fino a 1,5 miliardi di dollari l’anno per i prossimi cinque anni per aiutare i pachistani a costruire scuole e ospedali, strade e aziende, e centinaia di milioni di dollari per aiutare gli sfollati. Per questo stesso motivo stiamo per offrire 2,8 miliardi di dollari agli afgani per fare altrettanto, affinché sviluppino la loro economia e assicurino i servizi di base dai quali dipende la popolazione.
Permettetemi ora di affrontare la questione dell’Iraq: a differenza di quella in Afghanistan, la guerra in Iraq è stata voluta, ed è una scelta che ha provocato molti forti dissidi nel mio Paese e in tutto il mondo. Anche se sono convinto che in definitiva il popolo iracheno oggi viva molto meglio senza la tirannia di Saddam Hussein, credo anche che quanto accaduto in Iraq sia servito all’America per comprendere meglio l’uso delle risorse diplomatiche e l’utilità di un consenso internazionale per risolvere, ogniqualvolta ciò sia possibile, i nostri problemi. A questo proposito potrei citare le parole di Thomas Jefferson che disse: “Io auspico che la nostra saggezza cresca in misura proporzionale alla nostra potenza e ci insegni che quanto meno faremo ricorso alla potenza tanto più saggi saremo”.
Oggi l’America ha una duplice responsabilità: aiutare l’Iraq a plasmare un miglior futuro per se stesso e lasciare l’Iraq agli iracheni. Ho già detto chiaramente al popolo iracheno che l’America non intende avere alcuna base sul territorio iracheno, e non ha alcuna pretesa o rivendicazione sul suo territorio o sulle sue risorse. La sovranità dell’Iraq è esclusivamente sua. Per questo ho dato ordine alle nostre brigate combattenti di ritirarsi entro il prossimo mese di agosto. Noi onoreremo la nostra promessa e l’accordo preso con il governo iracheno democraticamente eletto di ritirare il contingente combattente dalle città irachene entro luglio e tutti i nostri uomini dall’Iraq entro il 2012. Aiuteremo l’Iraq ad addestrare gli uomini delle sue Forze di Sicurezza, e a sviluppare la sua economia. Ma daremo sostegno a un Iraq sicuro e unito da partner, non da dominatori.
E infine, proprio come l’America non può tollerare in alcun modo la violenza perpetrata dagli estremisti, essa non può in alcun modo abiurare ai propri principi. L’11 settembre è stato un trauma immenso per il nostro Paese. La paura e la rabbia che quegli attentati hanno scatenato sono state comprensibili, ma in alcuni casi ci hanno spinto ad agire in modo contrario ai nostri stessi ideali. Ci stiamo adoperando concretamente per cambiare linea d’azione. Ho personalmente proibito in modo inequivocabile il ricorso alla tortura da parte degli Stati Uniti, e ho dato l’ordine che il carcere di Guantánamo Bay sia chiuso entro i primi mesi dell’anno venturo.
L’America, in definitiva, si difenderà rispettando la sovranità altrui e la legalità delle altre nazioni. Lo farà in partenariato con le comunità musulmane, anch’esse minacciate. Quanto prima gli estremisti saranno isolati e si sentiranno respinti dalle comunità musulmane, tanto prima saremo tutti più al sicuro.
La seconda più importante causa di tensione della quale dobbiamo discutere è la situazione tra israeliani, palestinesi e mondo arabo. Sono ben noti i solidi rapporti che legano Israele e Stati Uniti. Si tratta di un vincolo infrangibile, che ha radici in legami culturali che risalgono indietro nel tempo, nel riconoscimento che l’aspirazione a una patria ebraica è legittimo e ha anch’esso radici in una storia tragica, innegabile.
Nel mondo il popolo ebraico è stato perseguitato per secoli e l’antisemitismo in Europa è culminato nell’Olocausto, uno sterminio senza precedenti. Domani mi recherò a Buchenwald, uno dei molti campi nei quali gli ebrei furono resi schiavi, torturati, uccisi a colpi di arma da fuoco o con il gas dal Terzo Reich. Sei milioni di ebrei furono così massacrati, un numero superiore all’intera popolazione odierna di Israele.
Confutare questa realtà è immotivato, da ignoranti, alimenta l’odio. Minacciare Israele di distruzione – o ripetere vili stereotipi sugli ebrei – è profondamente sbagliato, e serve soltanto a evocare nella mente degli israeliani il ricordo più doloroso della loro Storia, precludendo la pace che il popolo di quella regione merita.
D’altra parte è innegabile che il popolo palestinese – formato da cristiani e musulmani – ha sofferto anch’esso nel tentativo di avere una propria patria. Da oltre 60 anni affronta tutto ciò che di doloroso è connesso all’essere sfollati. Molti vivono nell’attesa, nei campi profughi della Cisgiordania, di Gaza, dei Paesi vicini, aspettando una vita fatta di pace e sicurezza che non hanno mai potuto assaporare finora. Giorno dopo giorno i palestinesi affrontano umiliazioni piccole e grandi che sempre si accompagnano all’occupazione di un territorio. Sia dunque chiara una cosa: la situazione per il popolo palestinese è insostenibile. L’America non volterà le spalle alla legittima aspirazione del popolo palestinese alla dignità, alle pari opportunità, a uno Stato proprio.
Da decenni tutto è fermo, in uno stallo senza soluzione: due popoli con legittime aspirazioni, ciascuno con una storia dolorosa alle spalle che rende il compromesso quanto mai difficile da raggiungere. È facile puntare il dito: è facile per i palestinesi addossare alla fondazione di Israele la colpa del loro essere profughi. È facile per gli israeliani addossare la colpa alla costante ostilità e agli attentati che hanno costellato tutta la loro storia all’interno dei confini e oltre. Ma se noi insisteremo a voler considerare questo conflitto da una parte piuttosto che dall’altra, rimarremo ciechi e non riusciremo a vedere la verità: l’unica soluzione possibile per le aspirazioni di entrambe le parti è quella dei due Stati, dove israeliani e palestinesi possano vivere in pace e in sicurezza.
Questa soluzione è nell’interesse di Israele, nell’interesse della Palestina, nell’interesse dell’America e nell’interesse del mondo intero. È a ciò che io alludo espressamente quando dico di voler perseguire personalmente questo risultato con tutta la pazienza e l’impegno che questo importante obiettivo richiede. Gli obblighi per le parti che hanno sottoscritto la Road Map sono chiari e inequivocabili. Per arrivare alla pace, è necessario ed è ora che loro – e noi tutti con loro – facciamo finalmente fronte alle rispettive responsabilità.
I palestinesi devono abbandonare la violenza. Resistere con la violenza e le stragi è sbagliato e non porta ad alcun risultato. Per secoli i neri in America hanno subito i colpi di frusta, quando erano schiavi, e hanno patito l’umiliazione della segregazione. Ma non è stata certo la violenza a far loro ottenere pieni ed eguali diritti come il resto della popolazione: è stata la pacifica e determinata insistenza sugli ideali al cuore della fondazione dell’America. La stessa cosa vale per altri popoli, dal Sudafrica all’Asia meridionale, dall’Europa dell’Est all’Indonesia. Questa storia ha un’unica semplice verità di fondo: la violenza è una strada senza vie di uscita. Tirare razzi a bambini addormentati o far saltare in aria anziane donne a bordo di un autobus non è segno di coraggio né di forza. Non è in questo modo che si afferma l’autorità morale: questo è il modo col quale l’autorità morale al contrario cede e capitola definitivamente.
È giunto il momento per i palestinesi di concentrarsi su quello che possono costruire. L’Autorità Palestinese deve sviluppare la capacità di governare, con istituzioni che siano effettivamente al servizio delle necessità della sua gente. Hamas gode di sostegno tra alcuni palestinesi, ma ha anche delle responsabilità. Per rivestire un ruolo determinante nelle aspirazioni dei palestinesi, per unire il popolo palestinese, Hamas deve porre fine alla violenza, deve riconoscere gli accordi intercorsi, deve riconoscere il diritto di Israele a esistere.
Allo stesso tempo, gli israeliani devono riconoscere che proprio come il diritto a esistere di Israele non può essere in alcun modo messo in discussione, così è per la Palestina. Gli Stati Uniti non ammettono la legittimità dei continui insediamenti israeliani, che violano i precedenti accordi e minano gli sforzi volti a perseguire la pace. È ora che questi insediamenti si fermino.
Israele deve dimostrare di mantenere le proprie promesse e assicurare che i palestinesi possano effettivamente vivere, lavorare, sviluppare la loro società. Proprio come devasta le famiglie palestinesi, l’incessante crisi umanitaria a Gaza non è di giovamento alcuno alla sicurezza di Israele. Né è di giovamento per alcuno la costante mancanza di opportunità di qualsiasi genere in Cisgiordania. Il progresso nella vita quotidiana del popolo palestinese deve essere parte integrante della strada verso la pace e Israele deve intraprendere i passi necessari a rendere possibile questo progresso.
Infine, gli Stati Arabi devono riconoscere che l’Arab Peace Initiative è stato sì un inizio importante, ma che non pone fine alle loro responsabilità individuali. Il conflitto israelo-palestinese non dovrebbe più essere sfruttato per distogliere l’attenzione dei popoli delle nazioni arabe da altri problemi. Esso, al contrario, deve essere di incitamento ad agire per aiutare il popolo palestinese a sviluppare le istituzioni che costituiranno il sostegno e la premessa del loro Stato; per riconoscere la legittimità di Israele; per scegliere il progresso invece che l’incessante e autodistruttiva attenzione per il passato.
L’America allineerà le proprie politiche mettendole in sintonia con coloro che vogliono la pace e per essa si adoperano, e dirà ufficialmente ciò che dirà in privato agli israeliani, ai palestinesi e agli arabi. Noi non possiamo imporre la pace. In forma riservata, tuttavia, molti musulmani riconoscono che Israele non potrà scomparire. Allo stesso modo, molti israeliani ammettono che uno Stato palestinese è necessario. È dunque giunto il momento di agire in direzione di ciò che tutti sanno essere vero e inconfutabile.
Troppe sono le lacrime versate; troppo è il sangue sparso inutilmente. Noi tutti condividiamo la responsabilità di dover lavorare per il giorno in cui le madri israeliane e palestinesi potranno vedere i loro figli crescere insieme senza paura; in cui la Terra Santa delle tre grandi religioni diverrà quel luogo di pace che Dio voleva che fosse; in cui Gerusalemme sarà la casa sicura ed eterna di ebrei, cristiani e musulmani insieme, la città di pace nella quale tutti i figli di Abramo vivranno insieme in modo pacifico come nella storia di Isra, allorché Mosé, Gesù e Maometto (la pace sia con loro) si unirono in preghiera.
Terza causa di tensione è il nostro comune interesse nei diritti e nelle responsabilità delle nazioni nei confronti delle armi nucleari. Questo argomento è stato fonte di grande preoccupazione tra gli Stati Uniti e la Repubblica islamica iraniana. Da molti anni l’Iran si distingue per la propria ostilità nei confronti del mio Paese e in effetti tra i nostri popoli ci sono stati episodi storici violenti. Nel bel mezzo della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno avuto parte nel rovesciamento di un governo iraniano democraticamente eletto. Dalla Rivoluzione Islamica, l’Iran ha rivestito un ruolo preciso nella cattura di ostaggi e in episodi di violenza contro i soldati e i civili statunitensi. Tutto ciò è ben noto. Invece di rimanere intrappolati nel passato, ho detto chiaramente alla leadership iraniana e al popolo iraniano che il mio Paese è pronto ad andare avanti. La questione, adesso, non è capire contro cosa sia l’Iran, ma piuttosto quale futuro intenda costruire.
Sarà sicuramente difficile superare decenni di diffidenza, ma procederemo ugualmente, con coraggio, con onestà e con determinazione. Ci saranno molti argomenti dei quali discutere tra i nostri due Paesi, ma noi siamo disposti ad andare avanti in ogni caso, senza preconcetti, sulla base del rispetto reciproco. È chiaro tuttavia a tutte le persone coinvolte che riguardo alle armi nucleari abbiamo raggiunto un momento decisivo. Non è unicamente nell’interesse dell’America affrontare il tema: si tratta qui di evitare una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente, che potrebbe portare questa regione e il mondo intero verso una china molto pericolosa.
Capisco le ragioni di chi protesta perché alcuni Paesi hanno armi che altri non hanno. Nessuna nazione dovrebbe scegliere e decidere quali nazioni debbano avere armi nucleari. È per questo motivo che io ho ribadito con forza l’impegno americano a puntare verso un futuro nel quale nessuna nazione abbia armi nucleari. Tutte le nazioni – Iran incluso – dovrebbero avere accesso all’energia nucleare a scopi pacifici se rispettano i loro obblighi e le loro responsabilità previste dal Trattato di Non Proliferazione. Questo è il nocciolo, il cuore stesso del Trattato e deve essere rispettato da tutti coloro che lo hanno sottoscritto. Spero pertanto che tutti i Paesi nella regione possano condividere questo obiettivo.
Il quarto argomento di cui intendo parlarvi è la democrazia. Sono consapevole che negli ultimi anni ci sono state controversie su come vada incentivata la democrazia e molte di queste discussioni sono riconducibili alla guerra in Iraq. Permettetemi di essere chiaro: nessun sistema di governo può o deve essere imposto da una nazione a un’altra.
Questo non significa, naturalmente, che il mio impegno in favore di governi che riflettono il volere dei loro popoli, ne esce diminuito. Ciascuna nazione dà vita e concretizza questo principio a modo suo, sulla base delle tradizioni della sua gente. L’America non ha la pretesa di conoscere che cosa sia meglio per ciascuna nazione, così come noi non presumeremmo mai di scegliere il risultato in pacifiche consultazioni elettorali. Ma io sono profondamente e irremovibilmente convinto che tutti i popoli aspirano a determinate cose: la possibilità di esprimersi liberamente e decidere in che modo vogliono essere governati; la fiducia nella legalità e in un’equa amministrazione della giustizia; un governo che sia trasparente e non si approfitti del popolo; la libertà di vivere come si sceglie di voler vivere. Questi non sono ideali solo americani: sono diritti umani, ed è per questo che noi li sosterremo ovunque.
La strada per realizzare questa promessa non è rettilinea. Ma una cosa è chiara e palese: i governi che proteggono e tutelano i diritti sono in definitiva i più stabili, quelli di maggior successo, i più sicuri. Soffocare gli ideali non è mai servito a farli sparire per sempre. L’America rispetta il diritto di tutte le voci pacifiche e rispettose della legalità a farsi sentire nel mondo, anche qualora fosse in disaccordo con esse. E noi accetteremo tutti i governi pacificamente eletti, purché governino rispettando i loro stessi popoli.
Quest’ultimo punto è estremamente importante, perché ci sono persone che auspicano la democrazia soltanto quando non sono al potere: poi, una volta al potere, sono spietati nel sopprimere i diritti altrui. Non importa chi è al potere: è il governo del popolo ed eletto dal popolo a fissare l’unico parametro per tutti coloro che sono al potere. Occorre restare al potere solo col consenso, non con la coercizione; occorre rispettare i diritti delle minoranze e partecipare con uno spirito di tolleranza e di compromesso; occorre mettere gli interessi del popolo e il legittimo sviluppo del processo politico al di sopra dei propri interessi e del proprio partito. Senza questi elementi fondamentali, le elezioni da sole non creano una vera democrazia.
Il quinto argomento del quale dobbiamo occuparci tutti insieme è la libertà religiosa. L’Islam ha una fiera tradizione di tolleranza: lo vediamo nella storia dell’Andalusia e di Cordoba durante l’Inquisizione. Con i miei stessi occhi da bambino in Indonesia ho visto che i cristiani erano liberi di professare la loro fede in un Paese a stragrande maggioranza musulmana. Questo è lo spirito che ci serve oggi. I popoli di ogni Paese devono essere liberi di scegliere e praticare la loro fede sulla sola base delle loro convinzioni personali, la loro predisposizione mentale, la loro anima, il loro cuore. Questa tolleranza è essenziale perché la religione possa prosperare, ma purtroppo essa è minacciata in molteplici modi.
Tra alcuni musulmani predomina un’inquietante tendenza a misurare la propria fede in misura proporzionale al rigetto delle altre. La ricchezza della diversità religiosa deve essere sostenuta, invece, che si tratti dei maroniti in Libano o dei copti in Egitto. E anche le linee di demarcazione tra le varie confessioni devono essere annullate tra gli stessi musulmani, considerato che le divisioni di sunniti e sciiti hanno portato a episodi di particolare violenza, specialmente in Iraq.
La libertà di religione è fondamentale per la capacità dei popoli di convivere. Dobbiamo sempre esaminare le modalità con le quali la proteggiamo. Per esempio, negli Stati Uniti le norme previste per le donazioni agli enti di beneficienza hanno reso più difficile per i musulmani ottemperare ai loro obblighi religiosi. Per questo motivo mi sono impegnato a lavorare con i musulmani americani per far sì che possano obbedire al loro precetto dello zakat.
Analogamente, è importante che i Paesi occidentali evitino di impedire ai cittadini musulmani di praticare la religione come loro ritengono più opportuno, per esempio legiferando quali indumenti debba o non debba indossare una donna musulmana. Noi non possiamo camuffare l’ostilità nei confronti di una religione qualsiasi con la pretesa del liberalismo.
È vero il contrario: la fede dovrebbe avvicinarci. Ecco perché stiamo mettendo a punto dei progetti di servizio in America che vedano coinvolti insieme cristiani, musulmani ed ebrei. Ecco perché accogliamo positivamente gli sforzi come il dialogo interreligioso del re Abdullah dell’Arabia Saudita e la leadership turca nell’Alliance of Civilizations. In tutto il mondo, possiamo trasformare il dialogo in un servizio interreligioso, così che i ponti tra i popoli portino all’azione e a interventi concreti, come combattere la malaria in Africa o portare aiuto e conforto dopo un disastro naturale.
Il sesto problema di cui vorrei che ci occupassimo insieme sono i diritti delle donne. So che si discute molto di questo e respingo l’opinione di chi in Occidente crede che se una donna sceglie di coprirsi la testa e i capelli è in qualche modo “meno uguale”. So però che negare l’istruzione alle donne equivale sicuramente a privare le donne di uguaglianza. E non è certo una coincidenza che i Paesi nei quali le donne possono studiare e sono istruite hanno maggiori probabilità di essere prosperi.
Vorrei essere chiaro su questo punto: la questione dell’eguaglianza delle donne non riguarda in alcun modo l’Islam. In Turchia, in Pakistan, in Bangladesh e in Indonesia, abbiamo visto Paesi a maggioranza musulmana eleggere al governo una donna. Nel frattempo la battaglia per la parità dei diritti per le donne continua in molti aspetti della vita americana e anche in altri Paesi di tutto il mondo.
Le nostre figlie possono dare un contributo alle nostre società pari a quello dei nostri figli, e la nostra comune prosperità trarrà vantaggio e beneficio consentendo a tutti gli esseri umani – uomini e donne – di realizzare a pieno il loro potenziale umano. Non credo che una donna debba prendere le medesime decisioni di un uomo, per essere considerata uguale a lui, e rispetto le donne che scelgono di vivere le loro vite assolvendo ai loro ruoli tradizionali. Ma questa dovrebbe essere in ogni caso una loro scelta. Ecco perché gli Stati Uniti saranno partner di qualsiasi Paese a maggioranza musulmana che voglia sostenere il diritto delle bambine ad accedere all’istruzione, e voglia aiutare le giovani donne a cercare un’occupazione tramite il microcredito che aiuta tutti a concretizzare i propri sogni.
Infine, vorrei parlare con voi di sviluppo economico e di opportunità. So che agli occhi di molti il volto della globalizzazione è contraddittorio. Internet e la televisione possono portare conoscenza e informazione, ma anche forme offensive di sessualità e di violenza fine a se stessa. I commerci possono portare ricchezza e opportunità, ma anche grossi problemi e cambiamenti per le comunità località. In tutte le nazioni – compresa la mia – questo cambiamento implica paura. Paura che a causa della modernità noi si possa perdere il controllo sulle nostre scelte economiche, le nostre politiche, e cosa ancora più importante, le nostre identità, ovvero le cose che ci sono più care per ciò che concerne le nostre comunità, le nostre famiglie, le nostre tradizioni e la nostra religione.
So anche, però, che il progresso umano non si può fermare. Non ci deve essere contraddizione tra sviluppo e tradizione. In Paesi come Giappone e Corea del Sud l’economia cresce mentre le tradizioni culturali sono invariate. Lo stesso vale per lo straordinario progresso di Paesi a maggioranza musulmana come Kuala Lumpur e Dubai. Nei tempi antichi come ai nostri giorni, le comunità musulmane sono sempre state all’avanguardia nell’innovazione e nell’istruzione.
Quanto ho detto è importante perché nessuna strategia di sviluppo può basarsi soltanto su ciò che nasce dalla terra, né può essere sostenibile se molti giovani sono disoccupati. Molti Stati del Golfo Persico hanno conosciuto un’enorme ricchezza dovuta al petrolio, e alcuni stanno iniziando a programmare seriamente uno sviluppo a più ampio raggio. Ma dobbiamo tutti riconoscere che l’istruzione e l’innovazione saranno la valuta del XXI secolo, e in troppe comunità musulmane continuano a esserci investimenti insufficienti in questi settori. Sto dando grande rilievo a investimenti di questo tipo nel mio Paese. Mentre l’America in passato si è concentrata sul petrolio e sul gas di questa regione del mondo, adesso intende perseguire qualcosa di completamente diverso.
Dal punto di vista dell’istruzione, allargheremo i nostri programmi di scambi culturali, aumenteremo le borse di studio, come quella che consentì a mio padre di andare a studiare in America, incoraggiando un numero maggiore di americani a studiare nelle comunità musulmane. Procureremo agli studenti musulmani più promettenti programmi di internship in America; investiremo sull’insegnamento a distanza per insegnanti e studenti di tutto il mondo; creeremo un nuovo network online, così che un adolescente in Kansas possa scambiare istantaneamente informazioni con un adolescente al Cairo.
Per quanto concerne lo sviluppo economico, creeremo un nuovo corpo di volontari aziendali che lavori con le controparti in Paesi a maggioranza musulmana. Organizzerò quest’anno un summit sull’imprenditoria per identificare in che modo stringere più stretti rapporti di collaborazione con i leader aziendali, le fondazioni, le grandi società, gli imprenditori degli Stati Uniti e delle comunità musulmane sparse nel mondo.
Dal punto di vista della scienza e della tecnologia, lanceremo un nuovo fondo per sostenere lo sviluppo tecnologico nei Paesi a maggioranza musulmana, e per aiutare a tradurre in realtà di mercato le idee, così da creare nuovi posti di lavoro. Apriremo centri di eccellenza scientifica in Africa, in Medio Oriente e nel Sudest asiatico; nomineremo nuovi inviati per la scienza per collaborare a programmi che sviluppino nuove fonti di energia, per creare posti di lavoro “verdi”, monitorare i successi, l’acqua pulita e coltivare nuove specie. Oggi annuncio anche un nuovo sforzo globale con l’Organizzazione della Conferenza Islamica mirante a sradicare la poliomielite. Espanderemo inoltre le forme di collaborazione con le comunità musulmane per favorire e promuovere la salute infantile e delle puerpere.
Tutte queste cose devono essere fatte insieme. Gli americani sono pronti a unirsi ai governi e ai cittadini di tutto il mondo, le organizzazioni comunitarie, gli esponenti religiosi, le aziende delle comunità musulmane di tutto il mondo per permettere ai nostri popoli di vivere una vita migliore.
I problemi che vi ho illustrato non sono facilmente risolvibili, ma abbiamo tutti la responsabilità di unirci per il bene e il futuro del mondo che vogliamo, un mondo nel quale gli estremisti non possano più minacciare i nostri popoli e nel quale i soldati americani possano tornare alle loro case; un mondo nel quale gli israeliani e i palestinesi siano sicuri nei loro rispettivi Stati e l’energia nucleare sia utilizzata soltanto a fini pacifici; un mondo nel quale i governi siano al servizio dei loro cittadini e i diritti di tutti i figli di Dio siano rispettati. Questi sono interessi reciproci e condivisi. Questo è il mondo che vogliamo. Ma potremo arrivarci soltanto insieme.
So che molte persone – musulmane e non musulmane – mettono in dubbio la possibilità di dar vita a questo nuovo inizio. Alcuni sono impazienti di alimentare la fiamma delle divisioni, e di intralciare in ogni modo il progresso. Alcuni lasciano intendere che il gioco non valga la candela, che siamo predestinati a non andare d’accordo, e che le civiltà siano avviate a scontrarsi. Molti altri sono semplicemente scettici e dubitano fortemente che un cambiamento possa esserci. E poi ci sono la paura e la diffidenza. Se sceglieremo di rimanere ancorati al passato, non faremo mai passi avanti. E vorrei dirlo con particolare chiarezza ai giovani di ogni fede e di ogni Paese: “Voi, più di chiunque altro, avete la possibilità di cambiare questo mondo”.
Tutti noi condividiamo questo pianeta per un brevissimo istante nel tempo. La domanda che dobbiamo porci è se intendiamo trascorrere questo brevissimo momento a concentrarci su ciò che ci divide o se vogliamo impegnarci insieme per uno sforzo – un lungo e impegnativo sforzo – per trovare un comune terreno di intesa, per puntare tutti insieme sul futuro che vogliamo dare ai nostri figli, e per rispettare la dignità di tutti gli esseri umani.
È più facile dare inizio a una guerra che porle fine. È più facile accusare gli altri invece che guardarsi dentro. È più facile tener conto delle differenze di ciascuno di noi che delle cose che abbiamo in comune. Ma nostro dovere è scegliere il cammino giusto, non quello più facile. C’è un unico vero comandamento al fondo di ogni religione: fare agli altri quello che si vorrebbe che gli altri facessero a noi. Questa verità trascende nazioni e popoli, è un principio, un valore non certo nuovo. Non è nero, non è bianco, non è marrone. Non è cristiano, musulmano, ebreo. É un principio che si è andato affermando nella culla della civiltà, e che tuttora pulsa nel cuore di miliardi di persone. È la fiducia nel prossimo, è la fiducia negli altri, ed è ciò che mi ha condotto qui oggi.
Noi abbiamo la possibilità di creare il mondo che vogliamo, ma soltanto se avremo il coraggio di dare il via a un nuovo inizio, tenendo in mente ciò che è stato scritto. Il Sacro Corano dice: “Oh umanità! Sei stata creata maschio e femmina. E ti abbiamo fatta in nazioni e tribù, così che voi poteste conoscervi meglio gli uni gli altri”. Nel Talmud si legge: “La Torah nel suo insieme ha per scopo la promozione della pace”. E la Sacra Bibbia dice: “Beati siano coloro che portano la pace, perché saranno chiamati figli di Dio”.
Sì, i popoli della Terra possono convivere in pace. Noi sappiamo che questo è il volere di Dio. E questo è il nostro dovere su questa Terra. Grazie, e che la pace di Dio sia con voi. (Beh, buona giornata).
(Traduzione di Anna Bissanti)
Durante un incontro con la stampa a Washington, Bakak Obama ha sottolineato l’importanza che ha per la tenuta della democrazia il lavoro dei giornalisti. “So che sono tempi difficili per molti di voi, che ci sono grandi giornalisti che stanno perdendo il lavoro a causa delle difficoltà del settore – ha detto – sono tempi di rinnovamento tecnologico, di cambiamento. Ma ci tengo a dire che il vostro servizio è essenziale per la tenuta della democrazia”.
“Voi – ha aggiunto, tra gli applausi dei tanti giornalisti presenti – a volte peccate di approssimazione.
Ma ogni giorno ci aiutate a renderci conto della complessità del mondo in cui viviamo. Questa è una stagione di rinnovamento e di cambiamento. Per questo, sinceramente, vi offro il mio ringraziamento e il mio supporto”.Beh, buona giornata.
In un’intervista con il New York Times di oggi, Barack Obama ha detto: “ciò che ritengo fosse un’aberrazione, era una situazione in cui i profitti corporativi del settore finanziario costituivano una parte così consistente della nostra redditività complessiva. Questo, credo, cambierà. È importante comprendere che parte della ricchezza generata nell’ultimo decennio per i benefici delle imprese era puramente illusoria». Beh, buona giornata.
di Lorenzo Montagna, commercial director Yahoo! Italia
Tutto il percorso che ha portato Barack Obama alla 44ma presidenza degli Stati Uniti, dalle primarie alla candidatura ufficiale, dall’Election Day all’Inauguration Day, è stato caratterizzato da un nuovo approccio ai media, in particolar modo internet. Usando le sue stesse parole, un ‘cambiamento’ totale che rivoluzionerà per sempre il rapporto tra web, politica e democrazia. Sicuramente Obama non è stato il primo personaggio politico ad affacciarsi al web, ma è quello che l’ha fatto con più convinzione e maggiore determinazione.
L’epoca pre-Obama è caratterizzata dall’uso non mirato e marginale del web per fare propaganda politica. Si restava, comunque, nell’ambito di una comunicazione one- to-many, dove i commenti (se presenti) restavano senza risposta e la partecipazione era inesistente. Ecco, la partecipazione. Il merito di Obama (e del suo staff) è stato passare dalla comunicazione al dialogo, allargando la possibilità di partecipazione prima a pochi gruppi di sostenitori e poi, a macchia d’olio, a un intero partito, a un paese, al mondo.
Obama ha sicuramente tratto vantaggio dal web, ma è vero anche il contrario. La sua elezione ha fatto da traino a un media che aveva bisogno della consacrazione al di fuori della cerchia degli addicted. Aveva bisogno di uno shock, di un evento che dimostrasse a tutti le sue straripanti potenzialità di aggregazione e di interattività. Così come lo sbarco sulla Luna nel 1969 fu determinante per l’affermazione della tv, 40 anni dopo l’elezione di Obama lo è per internet: un’esperienza aggregante che un’intera generazione ricorderà di aver vissuto soprattutto online.
L’Obama-mania è culminata il 20 gennaio con l’Inauguration Day, un evento che ha messo a dura prova la resistenza del mezzo e che ha fatto registrare un incredibile boom di contatti. Yahoo! Notizie, per esempio, negli USA è stato visitato da più di 9 milioni di utenti unici (1), piazzandosi al terzo posto tra i portali di news e confermandosi un punto di partenza ideale per informarsi in rete, mentre su Flickr (2) 3.439 utenti hanno seguito live la cerimonia caricando più di 13.500 foto direttamente da Washington o dedicate all’evento. Così il tanto citato ‘popolo della rete’ è stato definitivamente sdoganato passando da nicchia a opinion maker, allargando il proprio bacino a tutti coloro i quali volevano sentirsi parte della rivoluzione in corso. Ecco perché, al di là dell’importanza storica, l’elezione di Obama sarà ricordata come uno degli eventi più coinvolgenti della storia. Questa è anche l’opinione dei nostri utenti che recentemente hanno collocato l’evento subito dopo l’attentato alle Torri Gemelle e la morte di Giovanni Paolo II in un sondaggio lanciato da Yahoo! Notizie (3).
Obama ha capito per primo il vero funzionamento della rete intesa non più come vetrina espositiva, ma finalmente come un intreccio di connessioni e ne ha sfruttato appieno le potenzialità del buzz. Tutto ciò che Obama ha detto, fatto e pensato durante la campagna elettorale è stato condiviso attraverso le più famose piattaforme del web. Non mostrato, ma condiviso. Le 53.526 foto caricate sul suo account Flickr sono state viste e commentate milioni di volte, ma non sono rimaste un fenomeno confinato alla rete, sono state riprese da tutti i siti, le televisioni e i giornali del mondo.
Il segnale che qualcosa sta cambiando, e che internet sta passando da media di nicchia a comun denominatore di molti, è il passo deciso verso forme di e-democracy concrete.
Alcune pubbliche amministrazioni, le più lungimiranti, stanno aprendo canali di interazione con i cittadini, altre si limitano alla messa in rete di documenti o alla digitalizzazione di procedure.
Alcuni personaggi politici stanno aprendo canali video e incentrando le proprie campagne sull’online.
Obama docet e sull’onda del suo successo segnalerei la campagna di comunicazione del ‘Plan E’, la soluzione alla crisi economica messa a punto dal governo Zapatero. Un lastminute website chiaro e funzionale dove il premier e i ministri spagnoli spiegano con video e immagini i piani del governo per uscire dalla crisi. È assente la parte ‘2.0’ di interazione e commento, ma è apprezzabile il tentativo d’importazione del modello web-centrico USA. (Beh, buona giornata).
Note:
1 Fonte: Nielsen Online , NetView Custom Analysis, 22 gennaio 2009
2 http://www.flickr.com/groups/inauguration2009/
3 Coinvolti più di 6.000 votanti. I risultati sono su http://it.notizie.yahoo.com/sondaggi/42319-risultati-wv.html
Immancabile la gaffe del Cavaliere, costante di molti suoi incontri internazionali. Dal gesto delle corna in poi. Oggi Berlusconi è stato bersaglio del ‘richiamo’ della regina Elisabetta. Al momento della foto di gruppo si sente la voce del Cavaliere che grida “Mister Obama…”, richiamando l’attenzione del presidente Usa che si gira verso di lui. Ma si sente anche quella di Elisabetta che si gira e riprende pubblicamente il tono del nostro premier: “Ma perché deve gridare così forte…?”. Beh, buona giornata.
“Ho detto a Obama che si deve tirare su le maniche per far uscire il mondo dalla crisi visto che arriva proprio dall’America. Lui mi ha risposto che ho ragione e che l’importante è restare tutti insieme per risolvere i problemi”. Berlusconi dixit. Beh, buona giornata.
da repubblica.it
Gli Stati Uniti di Barack Obama intendono assumere la guida della lotta ai cambiamenti climatici. Per questo il presidente americano ha invitato i leader dei 16 Paesi più ricchi a un forum-vertice in programma a Washington il 27 e il 28 aprile, che trarrà le conclusioni al G8 della Maddalena in Italia dall’8 al 10 luglio. Lo ha reso noto la Casa Bianca. L’obiettivo finale è giungere a un nuovo accordo sui cambiamenti climatici all’Onu.
Per riattivare il “Major economies Forum sull’energia ed i cambiamenti climatici”, Obama ha scritto una lettera a Silvio Berlusconi, in cui si chiede l’aiuto dell’Italia. Berlusconi, si apprende da fonti governative, ha dato il suo via libera affinchè la riunione si tenga a margine del G8 della Maddalena.
I Paesi invitati a Washington sono Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna, India, Indonesia, Italia, Messico, Russia, Sud Africa. La Danimarca parteciperà come presidente della Conferenza del dicembre 2009 in vista di una convenzione Onu sul clima. Sono state invitate al dialogo anche le Nazioni Unite.
Il presidente sta lanciando il forum su energia e clima per facilitare il raggiungimento di un accordo sul riscaldamento globale alle Nazioni Unite, ha spiegato la Casa Bianca. Al summit di Washington i leader delle principali potenze economiche “contribuiranno a generare la necessaria leadership politica” per raggiungere, più avanti durante l’anno, un patto internazionale per tagliare le emissioni di gas serra, si legge in una nota diffusa dalla Casa Bianca. (Beh, buona giornata).
Povero Silvio.
Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha ricevuto dal Presidente degli Stati Uniti d’America, Barack Obama, una calorosa lettera nella quale si richiamano la portata delle sfide che si possono meglio affrontare insieme e, in pari tempo, le straordinarie opportunità che possono far avanzare le finalità dell’alleanza tra Stati Uniti e Italia: “Nel cominciare a lavorare insieme – scrive il Presidente Obama – sono consapevole della fondamentale importanza del nostro rapporto. Ho fiducia che sapremo lavorare in uno spirito di pace e di amicizia per costruire, nei prossimi quattro anni, un mondo pi ù sicuro. Guardo decisamente – conclude la lettera – alla collaborazione con lei in questo sforzo, e alla promozione di eccellenti relazioni fra i nostri due Paesi”. (Beh, buona giornata).
Non sarà messa in discussione la proposta avanzata da alcuni parlamentari della Lega di mettere un tetto agli stipendi dei manager di banche e imprese che, in difficoltà per la crisi, beneficeranno di aiuti pubblici. Le proposte sono infatti contenute nell’elenco degli emendamenti al decreto «Salva-auto» considerati inammissibili per materia.
In particolare, un emendamento prevedeva che non potesse superare il limite di 350.000 euro annui il trattamento economico dei dirigenti di banche o istituti di credito che beneficiano in materia diretta o indiretta di aiuti anti-crisi. Un altro emendamento, considerato inammissibile, prevedeva che gli emolumenti corrisposti a qualunque soggetto avente rapporti di lavoro con le amministrazioni statali, o con le agenzie oppure con enti pubblici economici e d enti di ricerca, nonchè con i magistrati, non potesse superare il limite del trattamento corrisposto ai membri del Parlamento. (Beh, buona giornata).
Berlusconi e i mattoni.
di ANTONIO CIANCIULLO da repubblica.it
Obama guarda avanti e punta sul rilancio tecnologico per prendere due piccioni con una fava: uscire dalla crisi e difendere il clima. L’Italia guarda indietro: per far girare il motore del’economia si torna al mattone con un piano di rilancio edilizio che potrebbe essere stato scritto trent’anni fa: tutto quantità e niente qualità. Si poteva usare l’occasione per spingere sull’edilizia bioclimatica, sulla manutenzione del patrimonio edilizio e sul recupero dei centri storici. Invece, dopo i due condoni edilizi varati da Berlusconi nel 1994 e nel 2003, arriva una deregulation strutturale. Invece di un’opportunità il mattone rischia di trasformarsi in una trappola che può diminuire l’appeal del paese. (Beh, buona giornata).