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Dopo 10 anni, No Logo e’ così attuale che sembra ancora in anticipo sui tempi.

No logo dieci anni dopo, di NAOMI KLEIN – The Guardian, Gran Bretagna.

La cultura delle multinazionali non governa solo i centri commerciali. Detta legge a Washington e alla Casa Bianca. E ha creato un presidente-marchio che produce gadget e false speranze. Il cambiamento deve venire dal basso.

Nel maggio del 2009 la vodka Absolut ha lanciato una nuova serie limitata: no label, senza etichetta. Kristina Hagbard, la responsabile delle pubbliche relazioni dell’azienda, ha spiegato: “Per la prima volta abbiamo il coraggio di affrontare il mondo completamente nudi. Presentiamo una bottiglia senza etichetta e senza logo per veicolare l’idea che l’aspetto esteriore non conta, l’importante è il contenuto”.
Qualche mese dopo anche la catena di caffetterie Starbucks ha inaugurato il suo primo negozio senza marchio a Seattle, chiamandolo 15th Avenue E Coffee and Tea.

Questo “Starbucks nascosto”, come lo chiamavano tutti, era arredato in uno stile “originale e unico”. I clienti erano invitati a portare la loro musica preferita da trasmettere nel locale e a far conoscere le cause sociali a cui tenevano di più: tutto per contribuire a creare quella che l’azienda ha definito “una personalità collettiva”. I clienti dovevano sforzarsi per riuscire a trovare la scritta in piccolo sui menù: “Un’idea di Starbucks”. Tim Pfeiffer, uno dei vicepresidenti dell’azienda, ha spiegato che, a differenza dello Starbucks che occupava prima gli stessi locali, quello era “proprio un piccolo caffè di quartiere”. Dopo che per vent’anni aveva cercato di mettere il suo logo su sedicimila punti vendita in tutto il mondo, Starbucks stava cercando di sfuggire al suo marchio.

Sono passati dieci anni da quando ho scritto No logo: nel frattempo le tecniche di branding sono cambiate e si sono evolute, ma ho scritto molto poco su questi cambiamenti. Il perché l’ho capito leggendo il romanzo di William Gibson L’accademia dei sogni. La protagonista, Cayce Pollard, è allergica ai marchi, in particolare a Tommy Hilfiger e all’omino Michelin. Questa “insofferenza morbosa e a volte violenta alla semiotica del mercato” è così forte che Cayce fa raschiare i bottoni dei suoi jeans Levi’s per cancellare il logo.

Quando ho letto queste parole, ho capito subito di soffrire della stessa malattia di Cayce. Non è un disturbo congenito, ma una malattia che insorge con il tempo a causa di una sovraesposizione prolungata. Da bambina e da adolescente ero attratta dai marchi in modo quasi ossessivo. Ma per scrivere No logo mi sono immersa completamente nella cultura della pubblicità per quattro anni: quattro anni passati a studiare gli spot del Super bowl, a sfogliare Advertising Age in cerca delle ultime idee per migliorare le sinergie aziendali, a leggere deprimenti libri di marketing sul valore del personal brand, a frequentare seminari aziendali e a girare per le Niketown e i centri commerciali.

Per certi versi è stato divertente. Ma alla fine mi sembrava di aver varcato una soglia e, come Cayce, ho sviluppato una specie di allergia ai marchi. I marchi hanno perso gran parte del loro fascino ai miei occhi, ed è stato un bene perché, quando No logo è diventato un bestseller, se avessi bevuto una Diet Coke in pubblico sarei finita subito nella rubrica di gossip di qualche quotidiano locale.

L’insofferenza si è estesa anche al marchio che io stessa avevo involontariamente creato: No logo. Dopo aver studiato marchi come Nike e Starbucks, conoscevo bene le tecniche del brand management: trovare il messaggio, brevettarlo, proteggerlo e ripeterlo fino alla nausea facendo interagire mezzi di comunicazione diversi. Ho deciso di infrangere queste regole ogni volta che mi si presentava l’occasione. Ho rifiutato le offerte per alcuni progetti basati su No logo (un lungometraggio, una serie tv, una linea di abbigliamento) e gli inviti delle multinazionali e delle agenzie pubblicitarie a tenere seminari sull’odio contro le multinazionali (stavo imparando che si può costruire una carriera sul personaggio della dominatrice sadomaso antiaziendalista, e far felici i manager strapagati spiegandogli quanto sono cattivi). Contro il parere di tante persone, sono rimasta fedele al proposito di non registrare il titolo del libro come un marchio (non ho percepito diritti d’autore dalla linea di prodotti alimentari italiani No logo, ma mi hanno mandato del delizioso olio d’oliva in omaggio).

Il programma di disintossicazione a cui mi sono sottoposta si può riassumere in due parole: cambiare argomento. Quando non era ancora passato un anno dall’uscita di No logo, ho smesso di parlare di marchi. Nelle interviste e negli incontri pubblici, invece di discutere delle ultime frontiere del marketing virale e del nuovo superstore di Prada, parlavo del movimento di resistenza al dominio delle multinazionali che si era fatto conoscere in tutto il mondo protestando contro l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) a Seattle. “Ma non sei un marchio anche tu?”, mi chiedevano i giornalisti furbi. “È probabile”, rispondevo io. “Ma mi sforzo di essere un pessimo marchio”.

Cambiare argomento – passare dai marchi alla politica – non è stato un grande sacrificio, perché era stata la politica a farmi avvicinare al marketing. I miei primi articoli denunciavano le scarse opportunità di lavoro per me e per i miei coetanei, la diffusione dei contratti a breve termine e lo sfruttamento della manodopera per produrre la merce che ci viene venduta. Da brava “giovane opinionista”, denunciavo il modo in cui la cultura del marketing si espandeva anche fuori dalle aziende in luoghi un tempo protetti come le scuole, i musei e i parchi. Intanto le idee e le parole d’ordine che io e i miei compagni consideravamo radicali venivano assorbiti nelle nuove campagne pubblicitarie della Nike, di Benetton e della Apple.

Imprese vuote
Ho deciso di scrivere No logo quando mi sono resa conto che queste tendenze apparentemente distinte erano unite da un’idea: che le aziende debbano sfornare marchi, non prodotti. Era l’epoca in cui gli amministratori delegati avevano improvvise intuizioni: la Nike non è un’azienda che produce scarpe da ginnastica, ma l’idea della trascendenza attraverso lo sport. Starbucks non è una catena di caffetterie, è l’idea di comunità. Ma qui sul pianeta Terra, queste intuizioni hanno avuto conseguenze concrete.

Molte aziende che prima producevano nelle loro fabbriche e avevano tanti dipendenti a tempo indeterminato sono passate al modello Nike: hanno chiuso le fabbriche, affidato la produzione a una rete di appaltatori e subappaltatori e hanno investito nel design e nel marketing necessari a diffondere il più possibile la loro grande idea. Altre aziende hanno scelto invece il modello Microsoft: conservare un nucleo strettamente controllato di azionisti-dipendenti che gestiscono “l’attività centrale” dell’azienda ed esternalizzare tutto il resto, dalla gestione della posta alla scrittura del codice informatico, affidandolo a lavoratori precari. Alcuni le hanno chiamate hollow corporations, imprese vuote, perché queste aziende ristrutturate sembravano avere un unico obiettivo: trascendere il mondo fisico per trasformarsi in un marchio incorporeo. Come ha detto l’esperto di gestione aziendale Tom Peters: “È da stupidi possedere cose!”.

Mi piaceva studiare i marchi come Nike o Starbucks perché in un attimo ti ritrovavi a parlare di tutto tranne che di marketing: la deregolamentazione della produzione globale, l’agricoltura industriale, i prezzi delle materie prime. E da qui arrivavi al legame tra politica e denaro, che si era cementato in regole da far west grazie a una serie di accordi di libero scambio e al sostegno della Wto, al punto che attenersi a quelle regole è diventato il requisito indispensabile per ricevere i prestiti dal Fondo monetario internazionale. In poche parole, finivi per parlare di come funziona il mondo.

Il governo all’asta
Quando è uscito No logo, il movimento si era già schierato davanti ai cancelli delle istituzioni che diffondevano il corporativismo nel mondo. Migliaia di dimostranti protestavano fuori dai summit sul commercio internazionale e dalle riunioni del G8, a Seattle come a Nuova Delhi, e in molti casi riuscivano a fermare sul nascere i nuovi accordi. Quello che i mezzi d’informazione istituzionali continuavano a definire “il movimento contro la globalizzazione” non era niente del genere. L’ala riformista del movimento si opponeva alle grandi aziende, l’ala radicale era anticapitalista. Ma a renderlo unico era l’insistenza sull’internazionalismo. Tutto questo per dire che mentre facevo il tour promozionale del libro c’erano cose più interessanti dei loghi di cui parlare: per esempio da dove veniva quel movimento, cosa voleva e se esistevano alternative a quella spietata difesa di interessi particolari che andava sotto l’innocuo pseudonimo di “globalizzazione”.

Negli ultimi anni, tuttavia, mi sono ritrovata a fare una cosa che avevo giurato di non fare più: rileggere i grandi esperti di branding citati nel mio libro. Mi sono serviti per capire cosa stava succedendo non nei centri commerciali, ma alla Casa Bianca, sia durante la presidenza di George W. Bush sia oggi con Barack Obama, il primo presidente statunitense che è anche un supermarchio.

Gli anni di Bush sono stati odiosi e violenti per molti motivi: le invasioni, le guerre, la difesa di metodi violenti come la tortura, il tracollo dell’economia globale. Ma l’eredità più pesante lasciata dall’amministrazione Bush è il modo in cui ha sistematicamente fatto al governo statunitense quello che i dirigenti fissati con il branding avevano fatto alle loro aziende dieci anni prima: l’ha svuotato, assegnando al settore privato molte funzioni essenziali, dalla difesa dei confini alla protezione civile all’intelligence. Questo svuotamento non è stato un progetto secondario dell’amministrazione Bush, ma una missione centrale, che ha riguardato ogni ambito della sfera governativa. E anche se il clan di Bush è stato spesso preso in giro per la sua incompetenza, l’impresa di mettere all’asta lo stato, riducendolo a un guscio vuoto – o a un marchio – è stata condotta con un impegno e una dedizione straordinari.

Oggi molti servizi fondamentali sono forniti dalla Lockheed Martin, la più grande azienda privata del mondo nel settore della difesa. “La Lockheed Martin non governa gli Stati Uniti”, scriveva il New York Times nel 2004, “ma contribuisce a governarne una percentuale enorme. Smista la vostra corrispondenza e calcola le tasse che dovete pagare. Stacca gli assegni di previdenza sociale e organizza il censimento. Gestisce i voli spaziali e controlla il traffico aereo. Per fare tutto questo, scrive più codice informatico della Microsoft”.

Nessuno si è impegnato con più zelo a mettere all’asta il governo degli Stati Uniti del tanto vituperato segretario di stato di Bush, Donald Rumsfeld. Avendo lavorato per più di vent’anni nel settore privato, Rumsfeld era imbevuto di cultura del branding e dell’esternalizzazione. E aveva molto chiaro qual era il marchio che il suo dipartimento doveva promuovere: il dominio globale. La competenza chiave era combattere. Per tutto il resto, diceva Rumsfeld con un tono che lo faceva somigliare a Bill Gates, “dobbiamo cercare fornitori che implementino le attività secondarie”.

Questa visione radicale è stata sperimentata in Iraq durante l’occupazione statunitense. Fin dall’inizio Rumsfeld ha pianificato la dislocazione delle truppe come un vicepresidente di Walmart che cerca di risparmiare sul personale. I generali volevano 500mila soldati, lui ne offriva 200mila, con i contractor e i riservisti a colmare le lacune secondo necessità. Seguiva la filosofia industriale del just in time: produrre solo quello che è già stato venduto o che si venderà immediatamente. Nella pratica, mentre la situazione irachena sfuggiva al controllo degli Stati Uniti, l’industria privata della guerra cresceva sempre di più per sostenere un esercito ridotto all’osso.

La Blackwater, che originariamente doveva limitarsi a fornire guardie del corpo al diplomatico statunitense Paul Bremer, presto si è assunta altri compiti, compresa una battaglia contro l’esercito del Mahdi nel 2004. Quando la guerra si è spostata nelle prigioni, piene di migliaia di iracheni rastrellati dai soldati americani, i contractor si sono occupati di interrogare i prigionieri, e in alcuni casi sono stati accusati di torture. Nel frattempo, la gigantesca Green zone era amministrata dalla Halliburton come una città-stato aziendale. Se la Nike e la Microsoft sono state le prime imprese vuote, la guerra in Iraq in molti sensi è stata una guerra vuota. E quando uno degli appaltatori ha commesso un errore grave – per esempio quando nel 2007 gli uomini della Blackwater hanno aperto il fuoco in piazza Nisour a Baghdad uccidendo diciassette civili – l’amministrazione Bush, come tante imprese vuote prima di lei, ha potuto negare ogni responsabilità, scaricando la colpa sui contractor. La Blackwater, la Disney delle compagnie mercenarie, aveva perfino la sua linea di abiti e orsacchiotti con il logo. E sapete come ha risposto agli scandali? Con un rebranding. Oggi si chiama Xe Services.

L’America rinata
L’amministrazione Bush ha deciso di imitare le imprese vuote, che tanto ammirava, anche nel modo di reagire alla rabbia suscitata in giro per il mondo. Invece di cambiare davvero la sua politica, o anche solo di aggiustare il tiro, ha lanciato una serie di sfortunate campagne per un rebranding degli Stati Uniti di fronte a un mondo sempre più ostile.

Osservando quegli imbarazzanti tentativi, mi sono persuasa che avesse ragione Price Floyd, l’ex direttore dell’ufficio stampa del dipartimento di stato. Dopo essersi dimesso per la frustrazione, Floyd ha dichiarato che gli Stati Uniti erano il bersaglio di tanta rabbia non a causa di una campagna di comunicazione sbagliata, ma a causa di una politica sbagliata. “Partecipavo a riunioni con altri funzionari del dipartimento di stato e della Casa Bianca”, ha raccontato Floyd al magazine online Slate. “Dicevano: ‘Dobbiamo dare più visibilità ai nostri sui mezzi d’informazione’. Io ribattevo: ‘Il problema non è l’apparenza, ma la sostanza’”. Una potenza imperialista non è come un hamburger o una scarpa da jogging. Il problema dell’America non era il marchio, ma il prodotto. Un tempo la pensavo così, ma a un certo punto ho pensato che forse mi ero sbagliata.

Quando Barack Obama è diventato presidente, il marchio statunitense era ai minimi storici: Bush era per il suo paese quello che la New Coke era per la Coca-Cola, o quello che il cianuro era stato per il Tylenol. Eppure Obama, con una delle campagne di rebranding più efficaci della storia, è riuscito a invertire la tendenza. Kevin Roberts, l’amministratore delegato della Saatchi & Saatchi, ha voluto illustrare graficamente quello che il nuovo presidente rappresentava. In un’immagine a tutta pagina pubblicata sulla rivista patinata Paper Magazine, ha messo la statua della libertà a gambe aperte che partorisce Barack Obama. L’America rinata.

Sembrava che il governo degli Stati Uniti potesse risolvere i suoi problemi di reputazione con il branding: servivano solo una buona campagna promozionale e un testimonial abbastanza giovane e alla moda per riuscire a competere nel difficile mercato del momento. E il testimonial è stato trovato in Barack Obama, un uomo dotato di un istinto naturale per il marketing, che si è circondato di una squadra di grandi esperti di pubblicità.

Come coordinatore della sua campagna sui social network ha scelto Chris Hughes, uno dei fondatori di Facebook. E come responsabile degli eventi sociali della Casa Bianca ha preso Desirée Rogers, un’affascinante laureata in gestione d’impresa ad Harvard ed ex responsabile del marketing di alcune aziende private. David Axelrod, il principale consigliere di Obama, è stato socio della Ask Public Strategies, una società di pubbliche relazioni che ha organizzato campagne per aziende come Cablevision e At&t.

Questa squadra di consulenti ha sfruttato tutte le risorse del moderno arsenale del marketing per lanciare e far crescere il marchio Obama: un logo perfettamente calibrato (un sole che sorge sopra la bandiera a stelle e strisce); un uso attento del marketing virale (suonerie a tema Obama); il product placement (spot a favore di Obama nei videogiochi); uno spot tv da trenta minuti (che rischiava di apparire melenso, ma che invece è stato definito da tutti “autentico”); e alleanze strategiche con altri marchi (Oprah Winfrey per ampliare al massimo il bacino d’ascolto, la famiglia Kennedy per darsi un tono serio; e un mucchio di star dell’hip-hop per costruirsi un’immagine al passo con i tempi).

Quando ho visto per la prima volta il video di Yes we can, quello prodotto da will.i.am (il cantante dei Black Eyed Peas), in cui alcune celebrità parlano e cantano sul sottofondo di un discorso di Obama in stile Martin Luther King, ho pensato: ecco finalmente un politico che trasmette in tv uno spot fico come quello della Nike. Le agenzie pubblicitarie erano d’accordo con me. Poche settimane prima di vincere le elezioni, Obama ha battuto la Nike, la Apple, la Coors e la Zappos aggiudicandosi il premio dell’Associazione nazionale dei pubblicitari. Di sicuro è stata una svolta. Negli anni novanta i grandi marchi rubavano completamente la scena alla politica, oggi le aziende fanno a gara per salire sul carro di Obama – basta pensare alla campagna Choose change (scegli il cambiamento) della Pepsi-Cola, allo slogan Embrace change (accogli il cambiamento) dell’Ikea e ai biglietti Yes you can offerti dalle linee aeree Southwest.

In effetti, ogni cosa sfiorata da Obama o dalla sua famiglia si trasforma in oro. Il valore di mercato della J.Crew è cresciuto del 200 per cento nei primi sei mesi della presidenza Obama, anche grazie alla nota predilezione di Michelle per quel marchio di abbigliamento. La passione di Obama per il Blackberry ha fruttato vantaggi simili al produttore Research In Motion. Il modo più sicuro per vendere giornali e riviste in questi tempi difficili è mettere Obama in copertina, e per vendere a quindici dollari un cocktail a base di vodka e succo di frutta basta chiamarlo Obamapolitan o Barackatini.

Secondo la rivista Portfolio, a febbraio del 2009 la “Obama economy” – il turismo generato dal presidente e i gadget a lui ispirati – valeva 2,5 miliardi di dollari. Niente male, in piena crisi economica. Desirée Rogers si è messa nei guai con alcuni colleghi quando ha parlato con troppa franchezza al Wall Street Journal: “Abbiamo il marchio migliore del mondo: il marchio Obama”, ha detto. “Le nostre possibilità sono infinite”.

Bush aveva usato il suo ranch di Crawford, in Texas, come fondale per la sua interpretazione del Marlboro Man, che passa il tempo a sfrondare cespugli e a preparare barbecue con gli stivali da cowboy ai piedi. Obama si è spinto molto più in là, trasformando la Casa Bianca in una specie di reality show senza fine che ha per protagonista l’adorabile clan Obama. Anche questo ha a che fare con la mania per il branding, quella esplosa a metà degli anni novanta, quando gli esperti di marketing si sono stancati dei limiti della pubblicità tradizionale e hanno cominciato a creare “esperienze” tridimensionali: dei templi delle griffe dove i clienti potevano esplorare la personalità dei loro marchi preferiti. Desirée Rogers somigliava molto a quei guru quando ha definito la Casa Bianca il “fiore all’occhiello” del marchio Obama, uno spazio fisico in cui il governo può incarnare i valori di trasparenza, innovazione e diversità che hanno portato alle urne tanti elettori.

La Coca-Cola e la tisana
Il problema non è che Obama usa gli stessi trucchi dei grandi marchi. Oggi chiunque voglia influenzare la società deve farlo. Il problema è che, come è successo prima di lui a tanti altri marchi legati agli stili di vita, quello che fa non è minimamente all’altezza delle aspettative. È presto per emettere un verdetto sulla sua presidenza, ma sappiamo questo: Obama preferisce sempre il gesto simbolico grandioso al cambiamento strutturale profondo.

Annuncia a gran voce che chiuderà Guantanamo e intanto dà il via libera all’allargamento del carcere di Bagram in Afghanistan e si oppone ai processi contro i funzionari di Bush che autorizzarono le torture. Nomina la prima giudice latinoamericana alla corte suprema e intanto fa approvare un nuovo giro di vite sull’immigrazione. Investe nell’energia pulita ma appoggia la favola del “carbone pulito” e rifiuta di tassare le emissioni di CO2, l’unico metodo davvero valido per ridurre il consumo di carburanti fossili. Si scaglia contro l’avidità dei banchieri e affida le redini dell’economia a veterani di Wall street. E, soprattutto, promette di mettere fine alla guerra in Iraq, mandando in pensione l’orrendo concetto di “guerra al terrore ”, mentre in Afghanistan e in Pakistan i conflitti ispirati da quella logica s’intensificano.

Questa predilezione per i simboli a scapito della sostanza, e la riluttanza a tenere fede a un’etica cristallina quando questa comporta scelte impopolari, sono i punti su cui Obama si allontana decisamente dai movimenti politici rivoluzionari a cui tanto si è ispirato (i poster di pop art che ha preso dal Che, il modo di parlare alla Martin Luther King, lo slogan yes we can che richiama il Sí, se puede degli agricoltori immigrati). Le richieste di quei movimenti erano molto chiare: la distribuzione delle terre, l’aumento dei salari, programmi sociali ambiziosi. Quelle richieste avevano costi elevati, e per questo i movimenti avevano non solo militanti convinti ma anche nemici agguerriti.

Invece Obama, a differenza non solo dei movimenti ma anche di presidenti innovatori come Franklin D. Roosevelt, segue la logica del marketing: offrire uno schermo invitante su cui ognuno è chiamato a proiettare i suoi desideri più profondi, e farlo in modo abbastanza vago da non lasciare indietro nessuno, a parte i più radicali (che peraltro sono un segmento non irrilevante di popolazione negli Stati Uniti). Advertising Age aveva ragione quando scriveva che il marchio Obama “è grande abbastanza da poter rappresentare qualunque cosa, ma anche abbastanza personale da guadagnarsi il sostegno di chiunque”. E poi, la lode più sperticata: “Obama è riuscito, chissà come, a essere sia una Coca-Cola sia una tisana naturale: è un megamarchio conosciuto e distribuito in tutto il mondo e allo stesso tempo un outsider che si è fatto da solo”.

In altri termini: Obama ha interpretato il ruolo del guastafeste pacifista e nemico di Wall street agli occhi della sua base. L’ha fatta sentire protagonista di una rivolta contro il monopolio politico dei due grandi partiti americani condotta grazie a un’organizzazione perfetta e a colpi di donazioni raccolte vendendo limonata e racimolando spiccioli tra i cuscini del divano. Contemporaneamente, ha preso più soldi da Wall street di qualsiasi altro candidato alla presidenza. Dopo aver sconfitto Hillary Clinton, prima ha divorato in un sol boccone la dirigenza del partito democratico e poi, una volta insediato alla Casa Bianca, ha imboccato la strada del dialogo con i fanatici repubblicani.

Le regole del gioco
Il fatto che Obama non si sia rivelato all’altezza del suo nobile marchio lo ha danneggiato? All’inizio no. Cinque mesi dopo l’ingresso di Obama alla Casa Bianca il Pew’s global attitudes project ha chiesto a un campione significativo di persone in tutto il mondo se pensavano che Obama avrebbe fatto “la cosa giusta in politica estera ”. Anche se c’erano già molti indizi del fatto che Obama stava proseguendo sulla linea di Bush (con uno stile meno arrogante), la maggioranza degli intervistati approvava le scelte di Obama: in Giordania e in Egitto la percentuale di consensi era quattro volte superiore a quella dell’era Bush. In Europa l’inversione di rotta era drastica: il 91 per cento degli intervistati francesi e l’86 per cento dei britannici aveva fiducia nelle scelte di Obama, rispetto al 13 e 16 per cento dell’era Bush. Secondo Usa Today, il sondaggio dimostrava che “Obama ha restituito credibilità all’immagine degli Stati Uniti dopo otto anni di amministrazione Bush”. Secondo David Axelrod era successa una cosa molto semplice: l’antiamericanismo non andava più di moda.

Questo era sicuramente vero, e ha avuto conseguenze molto concrete. Obama è stato eletto – e il mondo si è innamorato della sua nuova America – in un momento cruciale. Nei due mesi prima delle elezioni, la colpa della crisi finanziaria che scuoteva i mercati mondiali veniva giustamente attribuita non solo alle cattive scommesse di Wall street, ma all’intero modello economico di deregolamentazione e privatizzazione (chiamato “neoliberismo” in gran parte del mondo) che era stato osannato da istituzioni controllate dagli Stati Uniti, come il Fondo monetario internazionale e la Wto.

Se gli Stati Uniti non fossero stati guidati da una superstar globale, il loro prestigio avrebbe continuato a colare a picco, e la rabbia nei confronti del modello economico responsabile della crisi globale si sarebbe probabilmente trasformata nella richiesta pressante di nuove regole per imbrigliare (e tassare sul serio) la finanza speculativa.

Quelle regole avrebbero dovuto essere all’ordine del giorno all’incontro del G20 a Londra nell’aprile del 2009, nel pieno della crisi economica. Invece, mentre i giornalisti erano impegnati a riferire gli avvistamenti della coppia Obama, i leader mondiali si mettevano d’accordo per tirare fuori dalla crisi il Fondo monetario internazionale – uno dei principali colpevoli di quei guai – con finanziamenti per quasi mille miliardi di dollari. In poche parole, Obama non ha solo restaurato l’immagine degli Stati Uniti, ha anche resuscitato quel progetto economico neoliberista che aveva già un piede nella fossa. Solo Obama, a torto considerato un nuovo Roosevelt, poteva riuscire in quest’impresa.

Eppure, rileggere No logo dopo dieci anni ci ricorda anche che il successo nel branding può essere effimero, e che nulla è più transitorio della moda. Molti grandi marchi e personaggi griffati che fino a poco tempo fa sembravano intramontabili, oggi appaiono sbiaditi o sono in piena crisi. Il marchio Obama potrebbe fare la stessa fine.

Certo, molte persone hanno sostenuto Obama solo per motivi strategici: era il candidato migliore per cacciare i repubblicani dal governo. Ma cosa succederà quando le folle dei fedelissimi di Obama si renderanno conto di aver donato il cuore non a un movimento che condivideva i loro valori più profondi, ma a un partito sottomesso a interessi particolari, che si preoccupa più dei profitti delle aziende farmaceutiche che di creare un sistema sanitario sostenibile, che tutela Wall street e le sue bolle finanziarie invece dei milioni di cittadini che avrebbero potuto salvare la casa e il posto di lavoro con una ricapitalizzazione più prudente?

Il rischio – ed è un rischio reale – è che la reazione sia un’ondata di profondo cinismo, soprattutto tra i più giovani, per i quali la campagna elettorale di Obama è stata il primo assaggio della politica. Più che cambiare partito, la maggior parte di loro farà quello che hanno sempre fatto i giovani durante le elezioni: restare a casa e infischiarsene. Nella migliore delle ipotesi, l’obamamania finirà per diventare quella che i consulenti del presidente chiamano “un’occasione per imparare”. Obama è un politico di talento, molto intelligente e più interessato alla giustizia sociale di ogni altro leader democratico nella storia recente. Se non riesce a cambiare il sistema per mantenere le sue promesse elettorali, è perché il sistema stesso è marcio.

Era di questo che discutevamo in quel breve periodo tra le proteste contro la Wto a Seattle, nel novembre 1999, e l’inizio della cosiddetta guerra al terrore. Forse era un suo limite, ma il movimento che i mezzi d’informazione insistevano a chiamare “noglobal” si preoccupava poco dei partiti. La nostra attenzione era focalizzata sulle regole del gioco e su come erano state distorte per servire gli interessi delle grandi aziende a tutti i livelli: dagli accordi internazionali sul libero mercato a quelli locali per la privatizzazione dell’acqua. Quello che apprezzavo di più era la spudorata secchionaggine di tutti noi.

Nei due anni successivi alla pubblicazione di No logo ho partecipato a decine di conferenze e incontri, a volte con migliaia di persone (decine di migliaia, nel caso del World social forum) che avevano l’obiettivo di informare l’opinione pubblica sui meccanismi della finanza e del mercato globale. Era come se all’improvviso le persone avessero capito che raccogliere quelle informazioni era cruciale per la sopravvivenza non solo della democrazia, ma del pianeta. Sì, era complicato, ma accettavamo questa complessità perché finalmente potevamo studiare dei sistemi, non solo dei simboli.

Richieste concrete
In certe parti del mondo, in particolare in America Latina, quel movimento si è diffuso e rafforzato. In alcuni paesi è diventato talmente forte che ha fatto accordi con i partiti, vincendo le elezioni e avviando la creazione di un sistema regionale di commercio equo. Ma altrove, e sicuramente negli Stati Uniti, il movimento è stato annientato dall’11 settembre. È stato come se avessimo dimenticato quello che sapevamo sulla complessità del corporativismo globale: cioè che tutte le ingiustizie del mondo non possono essere colpa di un solo partito di destra o di una sola nazione, per quanto potente.

Se mai c’è stato un momento giusto per ricordare le lezioni che abbiamo imparato alla svolta del millennio, quel momento è ora. Una conseguenza positiva dell’impossibilità di regolare la finanza internazionale, anche dopo il suo catastrofico collasso, è che il modello economico dominante si è rivelato per quello che è: non un “libero mercato”, ma un “capitalismo clientelare”, in cui i politici cedono a dei privati la ricchezza pubblica in cambio del loro sostegno. Quello che prima era tenuto discretamente nascosto è venuto alla luce. Di conseguenza la rabbia dell’opinione pubblica per l’avidità delle aziende ha raggiunto livelli altissimi. Molte idee che gli attivisti dei movimenti gridavano nelle strade dieci anni fa, oggi sono date per scontate nei talk show delle tv e negli editoriali dei grandi quotidiani.

Eppure, oggi manca quello che dieci anni fa cominciava a emergere: un movimento capace non solo di rispondere all’indignazione dei singoli, ma anche di avanzare delle richieste concrete per un modello economico più equo e sostenibile. Negli Stati Uniti e in molte parti d’Europa, invece, la rabbia contro gli interessi particolari si esprime attraverso i partiti di estrema destra e perfino con il neofascismo.

Personalmente, nulla di tutto questo mi fa sentire tradita da Barack Obama. Provo piuttosto un sentimento ambivalente, simile a quello che provavo nei confronti della Nike e della Apple quando hanno cominciato a usare l’iconografia della rivoluzione nelle loro campagne pubblicitarie. Dalle loro costose ricerche di mercato era emerso che le persone desideravano qualcosa di più dello shopping: il cambiamento sociale, lo spazio pubblico, l’eguaglianza, il diritto alla diversità.

Certo, i marchi hanno cercato di cavalcare quel desiderio solo per vendere caffè e computer portatili. Eppure mi sembrava che noi di sinistra, in un certo senso, dovevamo essere grati ai pubblicitari: le nostre idee non erano antiquate come ci avevano detto. E poiché i grandi marchi non avevano saputo esaudire i desideri profondi che risvegliavano, ai movimenti sociali è venuta voglia di riprovarci.

Forse dovremmo pensare a Obama proprio in questi termini. Anche stavolta, c’è una ricerca di mercato già bella e fatta. La vittoria di Obama e l’entusiasmo per il suo marchio hanno dimostrato che c’è un’enorme fame di cambiamento in senso democratico: moltissime persone non vogliono conquistare i mercati con la forza delle armi, disprezzano la tortura, credono nelle libertà civili, vogliono che le aziende stiano fuori dalla politica, pensano che il riscaldamento globale sia la grande battaglia del nostro tempo e vogliono far parte di un progetto politico più grande.

Trasformazioni come queste si potranno ottenere solo quando i movimenti avranno i numeri e la forza per pretendere delle risposte dalle élite. Obama ha vinto le elezioni perché ha saputo sfruttare la nostra profonda nostalgia per quei movimenti. Ma era solo un’eco, un ricordo. Il nostro compito ora è costruire un movimento che sia – per rubare un vecchio slogan alla Coca-Cola – the real thing, un vero movimento. Come diceva Studs Terkel, un grande storico dell’oralità: “La speranza non è mai discesa dall’alto, è sempre spuntata dal basso”.(Beh, buona giornata),

Internazionale, numero 906, 15 luglio 2011

Naomi Klein è una giornalista canadese, nata a Montréal nel 1970. Questo articolo è un estratto dell’introduzione alla nuova edizione di No logo, pubblicata in Italia da Rizzoli. In Italia sono usciti anche Recinti e finestre e Shock economy.

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