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“Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte.”

G8, il fumo e l’arrosto: non fidatevi di stampa e tv, italiane e straniere. Raccontano solo la scena, ma la sostanza…di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

Del G8 ci sarà raccontata solo e soprattutto la scena. Poco o niente ci verrà invece narrato della sostanza. Per abitudine e pigrizia, per modello culturale e metabolizzata ignoranza, per libera scelta ed imposto modello, il grande sistema di comunicazione di massa altro non vede e quindi “comunica” che la scena. Non necessariamente il fumo al posto dell’arrosto, ma sempre e comunque la scena sì e la sostanza no. Poco male, tenendo conto che il G8 è per ammissione e consapevolezza dei suoi stessi protagonisti soprattutto “parata”, sfilata di problemi, esibizione di intenti. Poco male la narrazione limitata alla scena, basta, basterebbe, saperlo. Ma stavolta c’è qualcosa di più e di diverso: stavolta nel e del racconto della scena non bisogna fidarsi, sia che venga da stampa e tv italiane, sia che arrivi da stampa e tv straniere.

Entrambe narreranno in maniera inaffidabile. Perchè il G8 si svolge in Italia. Un paese dove l’appunto alla scenografia, la non lode della messa in scena diventa un atto destabilizzante, politicamente destabilizzante. Quindi la gran parte dei media italiani si sentiranno investiti di una responsabilità e di un mandato “istituzionale” a raccontare che tutto è risultato grande utile e bello della tre giorni abruzzese. Sarà un racconto di trionfi e perfezione “a prescindere”. Come altrettanto a prescindere dalla realtà sarà il racconto di una minoranza dei media italiani, pronti a cogliere un cigolio di una porta o un mugugno di cittadino come presagio di debolezza politica. Succede nei contesti emergenziali-autoritari che l’arredo, la puntualità, la soddisfazione dei commensali a tavola siano indicati dal potere e raccolti dall’informazione come simboli e notizie di buon governo e viceversa. Succede oggi in Italia.

Simmetricamente da non fidarsi sarà la narrazione della stampa e tv straniere. Se la comunicazione italiana ha ingurgitato e assimilato il pregiudizio della lode come “mission” informativa, fuori dai confini si adotta il pregiudizio per cui un paese berlusconizzato non può che essere “unfair” qualunque cosa faccia. La stampa straniera descrive un paese politico che non c’è, racconta gli ultimi giorni di “Berluscolandia”, racconterà a prescindere i tre giorni de L’Aquila applicando lo stesso falso schema.

La scena del G8 verrà dunque narrata con enfasi e trionfi che non ci sono se non nel dettato della regia, oppure con incertezze e passi falsi costruiti a tavolino. Comunque racconti già scritti. Solo il terremoto nella sua disumana imprevedibilità potrebbe mutare i racconti che sono già nella testa degli uomini. O forse nemmeno il terremoto. In caso di una scossa che sconvolgesse il G8, probabilmente anche qui i racconti sono due e già scritti anch’essi: il racconto dell’eterno otto settembre italiano in cui tutti si squagliano, lo Stato per primo, oppure il racconto di San Bertolaso che sconfisse il Drago che scuoteva la terra portando al dito l’anello magico consegnatogli da re Silvio.

E la sostanza del G8? Hanno davanti le tre fasi della crisi economica. Quella finanziaria che è tamponata, arginata ma non finita. Devono, dovrebbero, vogliono, vorrebbero scrivere e far rispettare nuove regole restrittive all’uso finanziario del denaro su scala planetaria. Non sanno se si può fare, non sanno fino a che punto è utile farlo, non sanno se riusciranno a farlo tutti insieme.

Quella del lavoro e dell’occupazione che cala, la fase della crisi che non è tamponata e anzi si allargherà per almeno due anni. Devono decidere se fronteggiarla spendendo denaro pubblico, ma non possono indebitarsi tutti alla stessa maniera. Oppure rintanandosi e aspettando che passi. E poi ci sarà la terza fase, quella del rientro dai debiti pubblici dilatati, quella che, quando verrà, potrebbe stroncare più di una popolarità e di un governo. Quando verrà sarà l’inizio della fine della crisi ma sarà il momento delle tasse o dell’inflazione.

Devono e vogliono, ma non parlano la stessa lingua. Negli Usa la “lingua” del governo e del paese coniuga la grammatica della speranza, la retorica del nuovo inizio, la sintassi della scommessa ed è una lingua parlata con un “accento” culturale che potremmo definire emotivamente e socialmente di sinistra. In Europa si parla la lingua della paura, della difesa strenua dell’esistente, della bilancia tra le corporazioni. Alla crisi l’Europa reagisce con sentimenti e voglia di destra. Accadde già dopo la crisi del 1929, di là il New Deal, di qua la borghesia e i ceti popolari impauriti che sceglievano regimi autoritari. L’ha rilevato D’Alema, non per questo vuol dire sia sbagliato. E’, insieme, una suggestione storica e una constatazione empirica. In ogni caso non saranno i G8 a L’Aquila a decidere, saranno i G20 a Pittsburgh a settembre. E’ quella la sede dove parlano e contano le altre grandi economie mondiali, a partire dalla Cina che ha, niente meno, bisogno insieme di sviluppo del Pil, welfare interno, stabilità finanziaria degli Usa e mantenimento del livello dei consumi americani. Lettere a appelli di Ratzinger o Bono è meglio che portino anche questo secondo indirizzo.

Ci sono poi e niente meno che la pace e la guerra. Se la Cina non taglia il cordone ombelicale, la Corea del Nord non crolla e non molla. Ma, se la Corea crolla, la Cina deve accollarsela. Quindi la Cina non taglia. E non deciderà certo di farlo a L’Aquila. L’Iran: con somma leggerezza e disinvoltura Berlusconi ha annunciato giorni fa nuove sanzioni verso Teheran. Sanzioni che non ci saranno. Non funzionano e Mosca non vuole che funzionino. E poi sanzioni potrebbero rafforzare il regime ormai militare di Teheran. Con l’Iran l’Occidente non sa bene che fare. L’unica cosa che sa bene, Obama e non l’Europa, è che in Afghanistan c’è una guerra vera da non perdere. Lui infatti ha deciso di combatterla, gli altri stanno a guardare, i più amichevoli fanno il tifo ma non osano dire alle rispettive opinioni pubbliche che val la pena morire per Kabul.

Quindi il clima. Strana umanità quella rappresentata al G8. Non c’è cittadino del mondo sviluppato che non sia consapevole e preoccupato. Però quando questo cittadino diventa imprenditore, operaio, automobilista o comunque consumatore di energia, consapevolezza e preoccupazione evaporano. Obama una legge perchè gli americani consumino meno e diversa energia l’ha fatta. Negli Usa proveranno ad applicarla. In Europa una direttiva l’avevano fatta, l’abbiamo fatta. Nella certezza che nessuno l’applicherà.

Sostanza dura e scarsa dunque quella del G8. Ma non si vedrà perchè sarà tutta scena, scena per la quale lavorano anche quelli che protestano. Gridano che non vogliono che otto o ottanta potenti decidano per il mondo, per i popoli. Giurano che questo è il guaio. Al netto del fatto che i popoli, quando parlano, parlano con discreta babele tra loro e comunque con lingua non sempre diritta, il vero guaio è che gli otto o ottanta potenti sono abbondantemente impotenti. Magari il G8 fosse quello che i no global immaginano e paventano, magari ci fosse un governo del mondo. E’ proprio quel che manca il governo del mondo, ma questo tutti gli attori in scena non lo racconteranno, perderebbero la parte. (Beh, buona giornata).

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La crisi, la protesta e la “rabbia populista”.

La rabbia populista
di FRANCESCO RAMELLA da lastampa.it

C’è qualcosa che accomuna l’indignazione degli americani contro l’élite finanziaria di Wall Street e le manifestazioni popolari che si sono viste in Europa nelle scorse settimane? A gennaio, in un articolo sul New York Times, Paul Krugman ha segnalato il montare negli Stati Uniti di una «rabbia populista» contro i salvataggi dei grandi banchieri. Di recente, questa populist rage è stata «celebrata» e ufficializzata da una copertina di Neewsweek. Alcuni commentatori vi hanno intravisto dei parallelismi con quanto sta accadendo nel vecchio continente.

Ma davvero le dimostrazioni contro i grandi della terra in Inghilterra, il sequestro-temporaneo dei manager in Francia, la mobilitazione della Cgil in Italia sono comparabili con quanto avviene sull’altra sponda dell’Atlantico? In effetti, anche il «malcontento europeo» possiede una forte connotazione antiestablishment. E tuttavia presenta importanti elementi distintivi: la matrice anticapitalista di alcune proteste, la loro componente anti-governativa (e talvolta antipolitica), la dimensione di piazza.

Sulle pagine di Newsweek lo storico Michael Kazin ha ricordato la presenza nella storia americana di altre contestazioni populiste contro l’establishment economico (e politico). Secondo lo storico della Georgetown University ciò che avvicina la reazione odierna alla crisi a quella dei movimenti populisti di fine Ottocento e degli anni Trenta, è l’indignazione. Si tratta della protesta di persone comuni che vogliono che il sistema viva all’altezza degli ideali che professa. Difficile, tuttavia, non scorgere anche le differenze tra la rabbia del presente e quella del passato. E, soprattutto, tra quella americana e quella europea. Negli Stati Uniti di oggi manca la dimensione di piazza della mobilitazione. Così come mancano la componente antisistemica e quella politica.

Piuttosto che interrogarsi sulla rabbia che accomuna i due continenti, ci si potrebbe perciò porre una domanda opposta. Perché negli Stati Uniti – dove la crisi economica ha avuto il suo epicentro e ha conseguenze molto drammatiche per gli individui – non si registrano proteste di ben altra radicalità? Alcuni fattori vanno menzionati. In primo luogo, la debolezza del sindacalismo americano e la scarsa propensione alla mobilitazione di classe. In secondo luogo, la presenza di una tradizione culturale di maggiore accettazione delle disuguaglianze sociali, che tende ad attribuire ai singoli individui la responsabilità dei propri successi e insuccessi personali. Questo, inevitabilmente, finisce anche per individualizzare le tensioni generate dalla crisi e le sue reazioni.

Sui media americani hanno avuto una certa eco alcuni «casi esemplari». Quello di Addie Polk, una donna di novant’anni che si è sparata mentre la sfrattavano dalla casa in cui aveva vissuto per quasi quarant’anni. Quello di Karthik Rajaram, un quarantacinquenne disoccupato che sconvolto dai problemi finanziari ha ucciso la moglie, i tre figli e la suocera, prima di suicidarsi. Quello recentissimo di Jiverly Wong, un uomo di quarantun anni, di origini vietnamite, da poco licenziato dall’IBM, che ha compiuto una strage in un centro di assistenza agli immigrati. Solamente nell’ultimo mese, negli Stati Uniti, 25 persone sono state coinvolte in episodi di suicidi-omicidi collettivi. Nel corso del 2008, inoltre, il National Suicide Prevention Lifeline ha registrato circa 550 mila richieste di aiuto ai propri telefoni (+ 36% rispetto al 2007), con un sensibile aumento di coloro che riportano problemi economici e finanziari. Anche un recente rapporto dell’American Psycological Association lancia l’allarme sulle conseguenze psicopatogene della crisi economica: quasi la metà degli americani dichiarano forti stati di ansia per le condizioni economiche della loro famiglia; otto su dieci affermano che il cattivo stato dell’economia rappresenta una significativa causa di stress personale.

Infine, c’è un terzo elemento che aiuta a spiegare la mancanza di una deriva anti-politica delle attuali difficoltà economiche americane. Il fenomeno Obama. L’avvicendamento avvenuto alla Casa Bianca ha in parte canalizzato le tensioni derivanti dalla crisi. Alimentando la speranza in un cambiamento possibile, il nuovo presidente è riuscito a neutralizzare politicamente la «rabbia populista». Almeno fino ad oggi. (Beh, buona giornata).

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La crisi e la protesta. Naomi Klein: “A me sembra ingiusto che i banchieri che hanno creato la crisi non siano sotto processo e una ragazza vada in carcere per un vetro rotto”.

Intervista a Naomi Klein di Antonio Carlucci, da L’epresso.

I giovani che sono scesi in piazza sono molto arrabbiati. E gridano ai loro leader politici di salvare il pianeta e non solo le banche e le assicurazioni… Naomi Klein, la scrittrice che ha dato forma al movimento con due libri, ‘No Global’ e ‘Shock Economy’, e che da anni scrive per ‘L’espresso’, giudica per la prima volta quanto è accaduto a Londra, in Francia, a Strasburgo. Paragona il movimento di oggi a quello che abbiamo visto nelle piazze prima dell’11 settembre 2001, giudica la nuova leadership americana di Barack Obama, dice la sua sulle decisioni del G20, sottolinea le differenze che ci sono in questo movimento in Europa e negli Stati Uniti. E dice che chi è sceso in piazza in questi giorni “dimostra di avere etica, morale e principi”.

Come giudica le manifestazioni di Londra in occasione del G20 e quelle di Strasburgo nei giorni del summit della Nato?
“Con un nuovo stato d’animo e in forme diverse stiamo assistendo al ritorno delle grandi proteste che ci sono state in tutto il mondo, compresa l’Italia con Genova, prima dell’11 settembre 2001 dove si fusero insieme il no alla globalizzazione, la protesta contro le ineguaglianze nel mondo del lavoro e la richiesta di maggiore attenzione verso l’ambiente”.

Quella fiammata si spense dopo l’11 settembre per riaccendersi di tanto in tanto e senza una strategia. Ora accadrà lo stesso?
“Il movimento arretrò perché i sindacati e i partiti politici non vollero essere associati direttamente con un movimento di azione diretta e radicale del quale avevano paura. Adesso mi pare che le cose siano diverse: se guardiamo alle strade di Londra vediamo che, fianco a fianco, sfilano giovani attivisti di matrice radicale e vecchi sindacalisti, precari alle prese con lavori che oggi ci sono e domani no e militanti ambientalisti e pacifisti. È una nuova scelta di militanza che ha alla sua base la crisi economica e i problemi di vita quotidiana, anzi di sopravvivenza quotidiana, che milioni di persone vivono a causa delle scelte delle leadership mondiali”.
Non vede anche un filo populista che lega insieme la protesta contro i banchieri, quella contro i politici, quella contro i ricchi e, assai spesso, quella contro gli immigrati accusati di sottrarre posti di lavoro nel paese dove arrivano?
“Mi pare che il dato unificante e prevalente dei partecipanti alle manifestazioni sia la rabbia. E non è un sentimento artificiale, costruito sulla ideologia: la gente è arrabbiata e ha il diritto di esserlo. Il problema è dove sarà diretta questa rabbia, se sulle persone responsabili delle diverse crisi che attraversano il nostro mondo e se invece rischia di essere deviata contro coloro che stanno peggio, per esempio gli immigrati. A Londra il movimento ha detto chiaro che i responsabili della situazione sono i banchieri e i politici”.

Come valuta proteste come quelle avvenute in Francia dove i lavoratori delle fabbriche o degli uffici a rischio di chiusura hanno sequestrato direttori e manager?
“In Francia c’è da sempre un movimento di lavoratori strutturato e questi episodi sembrano un ritorno alle tattiche utilizzate nel 1968. Io non sono d’accordo con chi dice che c’è qualcosa di sbagliato nell’essere arrabbiati con i capi e che non bisogna fare azioni di quel tipo. Io ritengo che ci sia il diritto alla rabbia e alla lotta per i propri diritti a cominciare da quello del lavoro. Se non ci fosse un movimento organizzato, sapete che cosa accadrebbe? Che le uniche vittime della crisi economica sarebbero i lavoratori. Come sta accadendo negli Stati Uniti dove i lavoratori vengono licenziati e i manager che hanno portato al disastro le aziende ricevono bonus milionari”.

Visto che lei vede un movimento che ritorna in campo, non sembra proprio che negli Stati Uniti la rabbia si stia esprimendo nelle strade. Anzi, i luoghi più affollati sono le fair job, i raduni dove si incontrano disoccupati in cerca di un nuovo lavoro e imprenditori che hanno bisogno di lavoratori…
“Anche in America la rabbia c’è. Ma è stata deviata verso altri obiettivi. Provate a guardare la sera la Cnn, quando Lou Dobbs se la prende con gli immigrati messicani o sentite Rush Limbaugh su Fox Tv o sulla catena di radio che lo ospitano che dice agli americani che non è colpa dei banchieri e di Wall Street, ma del vostro vicino che vi porta via il lavoro”.
Ma da quasi tre mesi alla Casa Bianca non c’è più George W. Bush ma Barack Obama. E quelli che lei ha citato non amano Obama…
“Quella propaganda contiene elementi di cultura politica fascista ed è certamente diretta anche contro Obama. Essendo un afro-americano, il presidente è un buon bersaglio per questa reazione della destra populista. Anche se non ha ordinato il ritiro immediato dall’Iraq, vuole una escalation in Afghanistan e usa i soldi dei cittadini per salvare le banche private, siamo però al paradosso che la sinistra e i liberal difendono a spada tratta Obama per proteggerlo dalla destra populista e reazionaria. Tutto ciò impedisce al movimento di fare quanto è accaduto a Londra o in Italia, dove gli studenti hanno manifestato gridando al capo del governo Silvio Berlusconi che non vogliono essere loro a pagare una crisi che non hanno causato”.

Lei non vede grandi differenze tra l’era Bush e l’era Obama.
“Ce ne sono, eccome se ce ne sono. In Inghilterra, per esempio, tra il premier Gordon Brown e i suoi avversari conservatori. Ma negli Stati Uniti si pone troppa enfasi sul percorso elettorale che una volta concluso porta automaticamente alla nascita di un culto della personalità di cui oggi Obama è vittima e protagonista. Certo che Obama è meglio di John McCain ma non per questo la sinistra deve automaticamente esserne il difensore su tutta la linea”.

Il movimento della rabbia, come anche lei, critica il salvataggio delle banche. Ma Obama ha portato in Parlamento – e ne ha ottenuto l’approvazione – una legge in cui ci sono miliardi di dollari destinati a lavori pubblici o a creare posti di lavoro. Sbagliato anche questo?
“No. Ma, visto che spesso si paragona l’oggi con le scelte di politica economica di Franklin Delano Roosevelt dopo la Grande Depressione, molti dimenticano che Roosevelt arrivò alla Casa Bianca con un piano di rinascita decisamente vago e che le scelte giuste arrivarono grazie alla pressione politica della sinistra e dei sindacati. Oggi quella organizzazione non esiste, il sindacato dell’auto non sembra voglia dare battaglia. Oggi c’è l’Obamamania, l’attesa messianica intorno alla sua figua e l’interesse spasmodico di sapere perché la First Lady Michelel porta abiti senza maniche. Io noto invece che il principale dei suoi consiglieri economici è Lawrence Summers il quale è direttamente responsabile della terapia shock alla quale fu sottoposta la Russia dopo la caduta del Muro di Berlino. E abbiamo visto che cosa è diventato quel paese. È Summers che ispira gran parte delle scelte economiche del presidente Obama”.

La Casa Bianca ha anche lanciato il più grande piano di sviluppo delle energie alternative. Che cosa ne pensa?
“Penso che sia il risultato della esistenza di un forte movimento ambientalista in Nord America e delle loro iniziative ultra decennali. Io giudico positivamente queste scelte di Obama perché rispondono a richieste di cambiamento molto diffuse. Purtroppo nel piano di Obama mancano elementi importanti come una nuova politica per il trasporto pubblico, settore strategico per la costruzione di un Paese più verde”.

A Londra il movimento ha invaso le strade. Ora lei prevede che, finito il G20, i manifestanti se ne staranno tutti a casa in attesa del prossimo summit, magari il G8 di luglio in Italia, o la loro rabbia diventerà attività politica quotidiana?
“Dipende da molti fattori. Non bisogna comunque guardare solo a quanto avviene intorno ai summit mondiali dove i media riportano ogni più piccolo dettaglio. Nel mondo ci sono tanti episodi giornalieri di manifestazione di questa rabbia che non vengono pubblicizzati. Quello è il movimento che vive e cresce”.

E che spesso degenera in episodi di violenza. Sarà il problema con il quale si dovrà confrontare nell’immediato futuro?
“Non sono in grado di fare previsioni di questo tipo. Proprio stamattina ho letto un articolo su una ragazza finita in cella per aver rotto una vetrina della Royal Bank of Scotland a Londra. A me sembra ingiusto che i banchieri che hanno creato la crisi non siano sotto processo e una ragazza vada in carcere per un vetro rotto”.
A Strasburgo non ci sono stati solo vetri rotti…
“Quando c’è la rabbia è inevitabile. Io ho paura che possa esserci una reazione esagerata a questi episodi e una criminalizzazione di qualsiasi forma di protesta. Meno male che in questo momento molti poliziotti solidarizzano con i manifestanti, visto che sono colpiti anche loro dagli effetti della crisi”.

Abbiamo cominciato questa conversazione dalla manifestazioni di Londra contro il G20. Qual è il suo giudizio sul risultato del summit?
“Delusione. La retorica ha coperto e nascosto la portata delle decisioni. Gordon Brown ha solennemente dichiarato che è finita l’era del Washington consensus. Invece, poi è stato deciso di stanziare un trilione di dollari alla Banca mondiale e al Fondo monetario che sono sempre stati lo strumento del Washington consensus”. (Beh, buona giornata).

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A Londra contro il G20, a Strasburgo contro la Nato. Mentre si preannunciano quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga sale la protesta contro la crisi economica.

di Alessandro Cisilin – da «Galatea European Magazine», maggio 2009

Da Londra a Strasburgo, dal G20 dell’economia ai ventotto della NATO. In entrambe, la cornice di circa cinquantamila manifestanti. Pacifisti, ma non sempre pacifici. E poi botte e botti, vetri spaccati, arresti, feriti, e anche un morto. Sono oramai decenni che i vertici internazionali, oltre a radunare un’élite di paesi autoeletti, suscitano estese e vigorose adunate di piazza. Da qualche tempo però il termometro dei movimenti dava segnali di stanchezza. Quel tempo ora sembra finito, sulla scia di una recessione che tende a saldare le diverse istanze di protesta, sdoganando al contempo la possibilità di violenza.

A Londra i promotori della manifestazione si aspettavano diecimila persone al massimo, ne sono giunte almeno quattro volte tanto. Un livello di partecipazione inusuale per i britannici, con operai, contadini e famiglie intere giunti da ogni angolo del paese. A favorire il successo collettivo è stata del resto una coalizione senza precedenti tra le organizzazioni di base. La marcia di fine marzo, sotto il motto di Put People First (“mettete le persone al vertice all’agenda”), era stata mobilitata da un’“alleanza arcobaleno” senza precedenti, annoverando centocinquanta entità, tra sindacati, gruppi cristiani, associazioni ambientaliste, ong di cooperazione internazionale, movimenti pacifisti, sigle politiche e anarchiche.

Tutti a rivendicare la stessa cosa: “lavoro, giustizia e clima”. E tutti a intonare slogan esplicitamente anticapitalisti. Operatori umanitari di Save The Children che urlavano contro la logica del profitto, ecologisti di Friends of the Earth che se la prendevano con le agenzie di credito. Dopo vent’anni di assenza, la politica ha rifatto irruzione anche in ambienti per definizione a-politici. Ed è successo a partire dal riconoscimento del fatto che l’opposizione alla guerra non è un’istanza diversa dalla rivendicazione dei diritti sociali, né dalla lotta per un’economia a minor dispendio energetico. Sono enunciazioni alternative di una medesima problematica, che viene oramai riconosciuta nella richiesta condivisa di una svolta di sistema.

Altro che “usual stuff”, come hanno commentato la manifestazione parecchi politici ed editorialisti d’oltremanica. A Londra è andata in scena una ribellione collettiva quanto radicale. Di più, è tornata la violenza, raccogliendo sottilmente un esteso consenso. Quasi tutti i gruppi presenti invocavano ufficialmente un fermo no a ogni proposito di scontri o saccheggi, per non dividere il movimento e non offuscare i contenuti della protesta. Sta di fatto che perfino docenti universitari, come l’antropologo Chris Knight (poi prontamente sospeso dalla East London University), erano giunti nei giorni precedenti a ipotizzare il “linciaggio” e l’“impiccagione” dei banchieri.

E sta di fatto che i dimostranti hanno poi tenuto per ore sotto assedio le sedi delle banche, arrivando anche a irrompere e a innescare un rogo nella Royal Bank of Scotland, icona della crisi e dell’aiuto di Stato accompagnato da laute buonuscite per i dirigenti. La stessa Scotland Yard ha del resto giocato col fuoco, alimentando nei giorni precedenti l’allarme di una manifestazione “molto violenta”, per poi rivendicare il merito del suo successivo contenimento e giustificare i propri eccessi. D

alla polizia anche l’allerta, su cui aveva ironizzato Knight, per l’incolumità degli impiegati della City: su questo nulla di fatto, naturalmente, proprio in ragione della radicalità della protesta; a differenza dei governi, i manifestanti non ce l’avevano contro una “finanza cattiva” distinta da una “buona”: ce l’hanno col modello finanziario nel suo insieme, a partire dai meccanismi debitori di orientamento politico imposti dal Fondo Monetario Internazionale, al quale il summit londinese ha concesso una nuova linfa da mille miliardi di dollari.

I tafferugli, comunque, ci sono stati, con manganelli e lacrimogeni, e una trentina di arresti. E poi Ian Tomlinson, “morto per un malore”, anche se decine di testimoni raccontano di una situazione di “omicidio colposo”, ovvero del decesso avvenuto durante la fuga da un’immotivata carica della polizia contro un assembramento pacifico.

La morte di Tomlinson ha contribuito a scaldare gli animi nella successiva adunata qualche giorno più tardi a Strasburgo. Il rigetto della versione ufficiale dei fatti si è accompagnato al sentimento che con una manifestazione pacifica c’è poco da perdere in termini di rischi di incolumità personale e poco da guadagnare in termini di capacità di influenzare i vertici della più grande alleanza militare al mondo. Lo aveva avvertito la storica francese Sophie Wahnich dalle colonne di «Le Monde»: il contesto che precedette la violenza della rivoluzione francese è significativamente analogo a quello odierno. La Francia resta la patria degli individui, col più basso tasso di sindacalizzazione in Europa, e questo, ai fatti, non inibisce ma scatena il potenziale di irruenti ed estese manifestazioni di piazza. I sindacati, così come gli altri movimenti associativi, hanno poi un’essenziale capacità di “auto-trattenimento della violenza”, ma questa capacità viene meno quando è l’autorità a rendersene protagonista in modo indiscriminato, e quando il disagio sociale è tale da coinvolgere il ceto medio. Tutte condizioni che, almeno nella percezione dei dimostranti, sono ora riemerse in modo lampante, e Strasburgo ne è stata la conseguenza esemplare.

Le strade della riunione della NATO sono state un vero e proprio campo di battaglia. Ordigni artigianali, pallottole di gomma, sassaiole, idranti, offensive dei manifestanti verso i poliziotti e viceversa, autobus e tram bloccati, vetrine di banche e negozi sventrate, un albergo del centro messo a fuoco, assalti (vani) a un ponte e alle strade percorse dai capi di Stato e di governo allo scopo di bloccare il vertice stesso. Quel vertice che ha poi sancito l’allargamento dell’Alleanza Atlantica nei Balcani, con l’ingresso di Croazia e Albania, e il rafforzamento dell’offensiva lanciata oltre sette anni fa in Afganistan attraverso l’invio di altre migliaia di soldati.

«Da noi solo vetri rotti», giustificavano diversi manifestanti, che hanno del resto sofferto parecchie decine di feriti e centinaia di arresti, oltre al blocco di molti alla frontiera franco-tedesca prima ancora che il summit iniziasse. A ritenere lo scontro un’opzione ineluttabile, in ragione della sproporzione delle forze in campo e delle azioni belliche ordinate dalla Nato, non era solo qualche frangia “black-bloc”: spaccature e litigi tra dimostranti violenti e non-violenti ci sono state, ma il fronte dei primi andava ben oltre la cerchia abituale dei cosiddetti “anarco-insurrezionalisti”. Secondo «il manifesto» ha coinvolto addirittura la metà del corteo.

Ogni tentativo, giornalistico o poliziesco, di dividere il dissenso isolando i bellicosi è del tutto saltato a Strasburgo. Come a Londra, le categorie ideologiche e le appartenenze di gruppo si sono confuse le une con le altre. In manette sono finiti perfino quieti ecologisti, colpevoli di cercare di conquistare il citato ponte sul Meno tuffandosi nelle acque gelide del fiume. E mentre Obama raccoglieva ovazioni nel Palazzo dello Sport tra l’élite studentesca accuratamente selezionata dal governo francese assieme all’amministrazione regionale, la rabbia della strada raccoglieva il consenso dei “banlieusards” del posto.

Lontano dai riflettori dei summit e dalla quiete delle sedi europee, la periferia della capitale alsaziana è del resto terreno quotidiano di scontri, sassaiole e gomme tagliate. Segnali drammatici di un disagio crescente, che avvicina progressivamente le decine di centri sociali cittadini col proletariato locale. Ed è una saldatura che trova sempre più riscontro nella protesta dilagante in tutta Europa.

Le manifestazioni di piazza hanno fatto crollare nelle ultime settimane i governi in Islanda, in Lettonia e in Ungheria. Dublino è stata attraversata da cortei senza precedenti con centinaia di migliaia di operai e impiegati a protestare contro gli ennesimi tagli di bilancio che hanno frantumato il potere d’acquisto irlandese fino a portare il paese sull’orlo della bancarotta. A Vilnius i dimostranti hanno preso addirittura d’assalto il Parlamento dopo l’annuncio di un rialzo delle imposte per i lavoratori dipendenti.

E si muove ora anche la Confederazione dei Sindacati Europei, storicamente confinata a funzioni di rappresentanza presso le istituzioni dell’Unione. Per metà maggio sta mobilitando quattro “manifestazioni europee”, il 14 a Madrid, il 15 a Bruxelles, il 16 a Berlino e Praga. Segnali di una protesta che oramai varca i confini nazionali, oltre che quelli tematici e ideologici. Ed è un disagio che, armato di pietre e bastoni, non esita a definirsi «resistenza». (Beh, buona giornata).

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Di che cosa parliamo quando parliamo di crisi/2.

da ilmessaggero.it

Almeno 35 mila i partecipanti alla manifestazione anti-crisi e anti-globalizzazione in corso a Londra dalle 12 locali di oggi (le 13 in Italia), primo appuntamento in vista del G20 della settimana prossima. Il corteo si è svolto all’insegna dello slogan Lavoro, Giustizia, Clima. Proteste anche in Germania e in Belgio. Il G20 riunisce i 19 paesi più industrializzati (quelli del G8 in primis) con l’Unione europea. E un forum creato per favorire l’internazionalità economica e la concertazione tenendo conto delle nuove economie in sviluppo.

La protesta a Londra. Dal Victoria Embankement, lungo il Tamigi, il corteo è transitato dalla piazza del parlamento di Westminster, con alcuni gruppi che si sono staccati per fare una puntata davanti al numero 10 di Downing Street, la residenza del premier Gordon Brown attualmente in Sudamerica. Il raduno, battezzato ‘Put People First’ (La gente prima di tutto), è stato preparato da una coalizione di oltre 100 gruppi che vanno dalla Tuc, la confederazione dei sindacati britannici, agli ambientalisti, ai pacifisti e agli anarchici. Tra gli slogan più gettonati, quello coniato da Barack Obama durante la sua corsa verso la Casa Bianca: ‘Yes, we can’.

Germania. Proteste controil vertcie anche a Berlino e Francoforte. Secondo la polizia in piazza almeno 10 mila persone. Gli organizzatori parlano di 25 mila partecipanti nelle due città.

A Bruxelles una cinquantina di manifestanti hanno indossato maschere raffiguranti i venti leader mondiali del G20. (Beh, buona giornata).

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