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3DNews/Auditel, un metro inattendibile che affossa la qualità.

La delibera dell’Antitrust riaccende il dibattito sulle rilevazioni degli ascolti

“Per loro ci dividiamo in aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, provinciali frivoli “

di Roberta Gisotti

Meglio tardi che mai arriva la sentenza dell’Autorità antitrust, su ricorso di Sky.
Con orgoglio ricordiamo che la verità sull’Auditel era già scritta nero su bianco nel libro “La favola dell’Auditel” (edizioni 2002 e 2005) e nel libro di Giulio Gargia “L’arbitro è il venduto” (2003), oltre che nella vasta letteratura sul tema oggi facilmente reperibile in Rete.
Una sentenza che non deve però farci abbassare la guardia se già nel 2005 la Magistratura di Milano – su ricorso di Sitcom, consorzio di quattro emittenti satellitari (Alice, Leonardo, Marco Polo, Nuvolari)- aveva condannato l’Auditel per “abuso di posizione dominante” e “turbativa di mercato”. Ma poi l’Auditel ricorse in Cassazione che annullò la sentenza, come ora annuncia di voler ricorrere al Tar contro l’Antitrust Non è quindi detta l’ultima parola. Del resto a fine 2005 l’Autorità garante per le comunicazioni aveva dato ad intendere di voler e poter riformare l’intero sistema di rilevamento degli ascolti televisivi. Ma non è stato così. Il nodo economico – trasversale agli orientamenti politici – che sottostà al patto dell’Auditel si rivelò più saldo di quanto immaginato. Del resto i controllati sono anche i controllori – come denuncia l’Autorità antitrust – in questa società privata, che pure svolge un ruolo pubblico, se il dato Auditel assume la valenza di consenso perfino politico.

Da 25 anni i rilevamenti Auditel sono funzionali ad un sistema televisivo che si continua a volere immutabile nei tempi, imprigionato nel duopolio (Rai-Mediaset), dove il polo pubblico è stato del tutto assoggettato al polo privato gestito da un unico soggetto, che arrivato al Governo del Paese ha comandato su ambedue i poli. Duopolio insidiato dal 2003 dalla Tv satellitare Sky di Rupert Murdoch, altro potentissimo e discutibilissimo monopolista, che da sempre ‘scalpita’ per qualche punto in più di share, che negli anni a fatica gli è stato concesso ma non abbastanza. Duopolio disperso oggi in uno scenario digitale del tutto trasformato che i dati d’ascolto continuano a registrare come se nulla o quasi fosse accaduto.

Da 7 canali nazionali analogici siamo passati a 37 digitali terrestri e se comprendiamo anche tutti i satellitari ci sono ben 250 canali. Eppure l’Auditel in questi tre anni di sisma televisivo non ha fatto una piega!
L’Auditel è sempre stato un sistema del tutto inaffidabile sul piano tecnico riguardo il campione, le modalità del rilevamento, l’affidamento a comportamenti a umani. Un sistema del tutto distorsivo nel modo di elaborare il dato grezzo – sconosciuto a tutti -minuto per minuto o anche 15 secondi se non si resta sintonizzati almeno 60 secondi, per cui basta restare pochi attimi davanti allo schermo per essere compresi nel pubblico di un programma che non ricordiamo di aver visto, o contribuire ad un picco d’ascolto – quanto spesso un picco di disgusto – che va a premiare proprio il peggio del peggio che non vorremmo aver visto in Tv.

Un sistema del tutto fuorviante per l’uso che se ne fa nelle redazioni televisive, sempre più anche dei Telegiornali, dove le scalette si fanno con i grafici dell’Auditel per compiacere una maggioranza di pubblico che in realtà non esiste, è virtuale, composta nei laboratori della Nielsen-Tv a Milano, ad uso e consumo di chi ci vuole tutti spettatori imboniti piuttosto che cittadini responsabili. Basti citare le categorie nei quali viene compresa nei rapporti dell’Auditel l’intera popolazione italiana: aspiranti aggrappati, ritirati onnivori, volubili selettivi, eclettici esigenti, provinciali frivoli, protettivi interessati, poi c’è il gruppo dei minori di 14 anni e quello dei non classificati, dove spero esserci anch’io. Sono semplificazioni di marketing che non vorremmo – come invece accade ogni giorno – finissero sui tavoli di chi decide i contenuti della Tv pubblica ma anche privata in base a queste idiozie per condizionare i nostri stili di vita e tendenze al consumo.
Basta con la dittatura dell’Auditel che ha mercificato gli uomini e soprattutto le donne di questo Paese.

Chiediamo pluralismo e trasparenza nella gestione del rilevamento e nella gestione dei dati di ascolto, che siano non solo quantitativi ma anche qualitativi per esprimere il gradimento ed anche le attese del pubblico. (Beh, buona giornata),

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3DNews/Santoro e la menopausa dell’Auditel.

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di Giulio Gargia
4 volte su 4. Se è una coincidenza, allora si tratta davvero di sfortuna nera. Per 4 settimane, tutte quelle di novembre, l’Auditel ha fornito in ritardo i dati del giovedì . Giorno in cui, dal l 4 novembre, va in onda il nuovo programma di Michele Santoro, con una formula che evidentemente mette a dura prova le capacità del servizio di rilevazione degli ascolti. Che a furia di ritardi del ciclo – di rilevazione – rischia di andare in menopausa.

“Anche oggi i dati dell`Auditel arriveranno in ritardo, formalmente a causa di `un problema tecnico`. Si tratta di un fatto allarmante, guarda caso ancora una volta in coincidenza con una puntata di Servizio Pubblico, il programma di Michele Santoro”. Così dichiarava giovedì scorso Flavia Perina, deputata Fli e membro della Vigilanza.

“A questo punto è innegabile ritenere l`Auditel un sistema obsoleto di rilevazione dei dati d`ascolto, che non tiene conto delle nuove modalità di fruizione dei prodotti televisivi. E diventa anche lecito pensare che forse una parte dei soci di maggioranza del consorzio, Rai e Mediaset in particolare, temono l`effetto Santoro”, concludeva la Perina. Che risolleva così uno dei problemi basilari della Tv : ma l’Auditel è attendibile ? Ora, senza entrare nel merito dei problemi che – secondo chi scrive e tanti altri – NON rendono tali i suoi dati, vogliamo ricordare che ogni volta che si presenta un nuovo network sulla scena TV, i suoi rapporti con l’istituto di via Larga non sono mai tranquilli. E’ successo con La7 ai tempi del mancato lancio del “terzo polo”, quando furono disdetti contratti già firmati con star come Fazio e Litizzetto, e alla rete fu imposta la consegna – accettata dai suoi vertici – di non superare il 3% nel giorno medio. E’ successo con Sky, quando ha chiesto di entrare nel comitato tecnico, tanto che ci sono stati comunicati di fuoco tra Mokridge, ad di Sky Italia e Pancini, direttore Auditel. E sta succedendo adesso con Servizio Pubblico e il network di Tv che lo manda in onda che si propone, almeno il giovedì sera, come un attore capace di rompere i sempre delicati equilibri su cui si spartisce la pubblicità. Perchè il problema è sempre quello : chi controlla gli spot, controlla la Tv . E dall’86 a oggi gli investimenti pubblicitari si sono ridistribuiti a favore della tv, grazie anche ai numeri che ha prodotto l’Auditel, che hanno orientato ingenti risorse a spostarsi da stampa e radio a favore della tv, e in particolare verso il costituendo duopolio RAI – Mediaset. Ma le modalità di produzione e divulgazione di questi dati hanno generato dubbi sempre più consistenti, corroborati da inchieste e libri che ne hanno minato l’attendibilità.

Il caso Santoro è solo l’ultimo , e nemmeno il più eclatante. Ma potrebbe essere quello che finalmente mette in crisi l’Auditel non tanto come apparato tecnologico obsoleto, come dice la Perina, ma in quanto macchina di costruzione e conferma del consenso attraverso la “ visione obbligata”. Come il PIL , che tutti gli economisti stanno rimettendo in discussione come parametro di misura del benessere di una società, così l’Auditel è destinato a implodere dentro una TV sempre più parcellizzata e specifica come quella digitale. E il fatto che le Tv locali siano sottostimate storicamente è un ulteriore conferma di come questa approssimazione chiamata Auditel sia ormai un residuo del passato da superare al più presto. Il problema non è la tecnologia: basterebbe collegare un cavetto telefonico a ogni decoder digitale per avere i dati degli ascolti in tempo reale, come sui siti Internet, in cui sai sempre quanti visitatori ci sono in quel momento. Il problema è l’apparato commerciale e industriale (grandi emittenti, centri media, agenzie dominanti ) di cui Auditel è il servomeccanismo, che non riuscirebbe a “ digerire” dei “ numeri” veri . E che dovrebbe dire ai suoi clienti investitori cose molto diverse da quelle finora avallate dalle curve e dai grafici d’ascolto.

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3DNews/E adesso vediamo che sapete fare.

di Marco Ferri

Nonostante i sostanziosi acquisti di azioni Mediaset da parte di Fininvest e di Holding Italiana, sempre di famiglia, avvenuti durante l’estate per rilanciarlo, il titolo va male. Lo si è visto col rovinoso capitombolo dell’altro giorno, quando il titolo Mediaset ha toccato ripetutamente quota -12.

D’altro canto, neppure guardando alla terza trimestrale si trovano segnali positivi: la raccolta pubblicitaria è andata sotto zero. Nel comunicato stampa relativo alla riunione del cda che ha approvato la trimestrale Mediaset, si riafferma la leadership sul mercato, ma è un’affermazione un tantino autolesionistica: lo sanno tutti che ogni volta che Mediaset è in difficoltà, Sipra si sgonfia ad arte, quel tanto che permetta, appunto la riconferma della supremazia di Mediaset. Basta mandare via uno come Santoro, per esempio, per indebolire la raccolta Sipra a tutto vantaggio di Publitalia. E per lo stesso motivo continuare a far dirigere il TG UNO a un direttore che perde pubblico come un tubo rotto.

È in questa difficoltà di mercato, come viene definita nella trimestrale Mediaset, che ci si interroga sulla forte relazione che è intercorsa tra i successi politici del Berlusconi capo del governo e il Berlusconi tycoon dei media italiani. Le domande sono: che fine farà Mediaset, azienda-partito di business e di governo adesso che il Cavaliere è stato costretto alla resa? Come farà a stare sul mercato rispettando le regole del mercato? Come se la caverà senza il sostegno delle leggi ad aziendam? Più che domande irriverenti, sono problemi seri, che tormentano la premiata ditta Berlusconi&figli. D’altro canto non sarà più possibile procrastinare anacronisticamente nuove norme sulla concorrenza e sulle liberalizzazioni.

Tanto per fare un esempio, Mario Monti, che probabilmente guiderà un esecutivo “tecnico”, nato per seppellire l’era berlusconista in politica, non si è mai dichiarato tenero con la mancanza di una reale concorrenza tra soggetti del mercato.

Sta lì a dimostrarlo la decennale esperienza come Commissario Europeo alla Concorrenza, ma anche la mission che Monti dovrà incarnare: la ripresa, la crescita passano per un corretto funzionamento delle regole dell’economia di mercato.

E allora Mediaset dovrà passare per le stesse strettoie cui passò la Rai, all’epoca della nascita della tv commerciale (quando si dice il contrappasso!); o Telecom quando si liberalizzò la telefonia, o Enel quando toccò all’energia: accettare di dimagrire, di restringere il perimetro aziendale per fare posto ad altri soggetti. E ripartire da lì per far valere la propria capacità imprenditoriale, magari attraverso nuovi investimenti, progetti innovativi, scelte coraggiose.

Saranno capaci Berlusconi & Figli di fare impresa senza il vantaggio di quella dose massiccia di concorrenza sleale derivante dallo stare contemporaneamente sul mercato e al potere?

°Rispettando le agitazioni sindacali in atto al quotidiano TERRA, questa settimana 3D uscirà solo sul web. Saremo in rete sui siti www.3dnews.it, www.ildiariodilosolo.com, www.marco-ferri.com a partire dalle 24 di oggi.

3DNews, Settimanale di Cultura, Spettacolo e Comunicazione
Inserto allegato al quotidiano Terra. Ideato e diretto da Giulio Gargia.
In redazione: Arianna L’Abbate – Webmaster: Filippo Martorana.

(Beh, buona giornata).

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Il caso “Vieni via con me”: Che Paese meraviglioso è il nostro. Un unico, grande, materno ventre mollo partorisce il tutto e il contrario di tutto, a comando, col telecomando.

Il primo novembre di quest’anno è morto a New York a 82 anni Theodore Sorensen, autore dei più famosi discorsi pronunciati da John Kennedy negli anni alla Casa Bianca. Sorensen è stato il gost-write per eccellenza. Sua una delle più celebri frasi di JFK: “Non chiederti cosa possono fare gli Stati Uniti per te, ma cosa tu puoi fare per gli Stati Uniti”.

Anche dopo aver smesso di lavorare, Sorensen continuò a collaborare con Nelson Mandela e, più recentemente, contribuì alla campagna presidenziale di Barack Obama.

C’è da credere che Sorensen sarebbe inorridito al solo pensiero di scrivere anche una sola parola per Gianfranco Fini. E, probabilmente, sarebbe scoppiato a ridere se qualcuno gli avesse chiesto di scrivere un paio di brillanti battute per Pierluigi Bersani. Infatti, a Gianfranco e a Perluigi ci ha pensato qualcun altro. Non ci sarebbe niente di strano, se non fosse che questo qualcun altro sembrerebbe essere uno solo.

Insomma, nel circo mediatico di un Paese senza più idee, dunque anche senza parole, sembrerebbe che un epigono di Sorensen sia stato il gost- writer che ha scritto i due discorsetti: con una mano (destra?) quello di Fini, con una mano (sinistra!?) quello di Bersani. Tutto è successo nell’ormai famoso programma “Vieni via con me”, che ha sbancato gli ascolti per ben due volte consecutive. La cosa è straordinaria. E’ straordinario che un programma televisivo sulla Rai faccia il botto di ascolti.

E’straordinario che questo succeda dopo l’accanita opposizione del direttore generale della Rai. E’straordinario che quel direttore generale della Rai sia il direttore generale di qualsiasi cosa: a uno così si ribellerebbero anche i lacci delle scarpe. Ma la cosa più straordinaria è che il programma televisivo in questione sia targato Endemol, compagnia mondiale specializzata in format televisivi. E’ straordinario che il direttore generale della Rai abbia tentato di sabotare un format Endemol. Perché Endemol è di proprietà di Mediaset. E Mediaset è di proprietà di Berlusconi. Proprio come il direttore generale della Rai.

Ma la cosa straordinariamente straordinaria è che Endemol fa un programma che sbanca gli ascolti, che viene contro-programmato da RaiTre contro il Grande Fratello, che è l’ammiraglia della produzione Endemol. E l’ammiraglia della produzione Endemol ceda il passo al successo di RaiTre contro l’ammiraglia delle reti televisive private, cioè Canale 5. Riassumendo: Endemol fa “Vieni via con me” che da RaiTre batte “Il Grande Fratello” su Canale 5, programma di Endemol. E’ vero che Endemol perde nel mondo nel 2010 circa un miliardo di dollari, come certificano gli analisti di Wall Street. Dunque, tutto fa brodo pur di fare liquidi. In altri termini, il presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica italiana possiede Mediaset, controlla la Rai e a entrambi vende format tv, attraverso la sua società Endemol.

E’ il miracolo dei miracoli: egli è il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo dell’audience. Mentre l’odiata Auditel viene sdoganata come metro di misura del successo di Fazio e Saviano, come se per incanto l’Auditel fosse diventata Santa Romana Chiesa della tv di qualità, i giornali, vittime sacrificali dello strapotere televisivo, certificherebbero grandi elogi al programma: nuovo, libero, fresco. Ma Endemol. Che fa tanto “altissima, purissima, Levissima”.

Che Paese meraviglioso è il nostro: un unico, grande, materno ventre mollo partorisce il tutto e il contrario di tutto, a comando, col telecomando. Cosa avrebbe potuto inventare, a questo proposito, Sorensen, il gost-writer per antonomasia? “Non chiederti cosa possono fare le tv per te, ma cosa tu puoi fare per i programmi tv”. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Il tonfo di Endemol: il format e la sostanza.

S’è rotto l’uovo di Colombo. Fare programmi a basso costo, di bassa qualità con un’ alta redditività pubblicitaria non paga più. Il tonfo di Endemol lo ha dimostrato. La televisione ha ingannato per anni gli inserzionisti pubblicitari, vendendogli format in grado di fare ascolti, che si volevano trasformati in altrettanti contatti utili alle campagne pubblicitarie. Ma a un certo punto il giocattolo si è rotto. Perché il successo di alcuni programmi era effimero, gonfiato dalle società di rilevamento dell’audience. Quando la crisi ha cominciato a picchiare duro, sono crollati i consumi, dunque le vendite, dunque gli introiti. E le grandi compagnie hanno cominciato a disinvestire in pubblicità televisiva.

Ecco la verità del tonfo di Endemol. Una verità che in Italia è ancora più rimarchevole. Pensate solo al fatto che Mediaset è la più grande compagnia del settore televisivo privato, ma è anche azionista di Auditel, ma è anche proprietaria di Endemol. Se poi non ci dimenticassimo che il capo di tutto questo è anche il capo del governo italiano, dovremmo tenere a mente che nel 2009 Berlusconi, che è anche il capo di Mediaset, di Auditel e di Endemol diceva che la crisi non c’era, poi che era alle spalle, poi che non bisognava investire pubblicità sulle testate “catastrofiste”. Risultato?

Secondo Nielsen Media Reaserch, compagnia americana operante anche in Italia, specializzata nelle ricerche di mercato, la raccolta pubblicitaria nelle tv italiane nel 2009 è scesa a -10%. Dunque, “Il Grande Fratello”, piuttosto che “Chi vuol essere milionario”, piuttosto che “Che tempo che fa”, tanto per citare solo alcuni format targati Endemol non sono riusciti a fermare la crisi dei consumi e di conseguenza la crisi degli investimenti pubblicitari in televisione. La formula secondo la quale, più abbasso la qualità più rendo fruibile la visione, più è facile inserirvi la pubblicità, più è garantito il successo delle vendite è andato a farsi friggere.

Il tonfo di Endemol non è un fatto semplicemente finanziario. E’ la prova provata della crisi di un modello di business della pubblicità. Se i consumatori se ne sono accorti, tanto da non dare più retta ai “consigli per gli acquisti” in tv; se i telespettatori se ne sono accorti, tanto da non accordare gli stessi livelli di audience; se gli investitori se ne sono accorti, tanto da penalizzare la tv a favore di internet; quello che stupisce è che non se ne siano accorti in tempo Goldman Sachs, Mediaset e Jon De Mol. Ma forse no. Dopo le “bolle speculative” cui siamo stati abituati, cosa volete che siano le “balle speculative” che sono state raccontate in questi anni ai consumatori, ai telespettatori e agli investitori pubblicitari?

Insomma, il vero reality show non è andato in onda nelle case dei telespettatori, è andato in sala riunione delle case produttrici di prodotti e servizi, ingannati dalla facilità con la quale gli si potevano vendere mediocri programmazioni televisive, da farcire con mirabolanti pianificazioni pubblicitarie. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia

La maledizione dei calzini turchesi.

ll direttore responsabile di Videonews, Claudio Brachino, è stato sospeso per due mesi dall’Ordine dei giornalisti della Lombardia in relazione al servizio sul magistrato Raimondo Mesiano che provocò forti polemiche. Il filmato incriminato andrò in onda a metà ottobre su “Mattino 5”, contenitore di news e approfondimenti delle reti Mediaset. Il conduttore, Claudio Brachino, annunciò ai telespettatori le immagini “in esclusiva” di presunti comportamenti “stravaganti” del giudice civile milanese, Raimondo Mesiano.

Lo “scoop” consisteva in un video di pochi minuti sulla vita privata del magistrato che poche settimane prima aveva condannato il gruppo Fininvest a risarcire alla Cir di Carlo De Benedetti 750 milioni di euro. Nel filmato si vedeva il giudice che fumava una sigaretta, passeggiando di fronte al barbiere. Poi gli ormai celebri calzini “turchesi”, definiti dalla giornalista “stravaganti”. Il direttore di Videonews si era poi scusato con Mesiano in un articolo pubblicato su Il Giornale. Beh, buona giornata.

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Continua la guerra tra Mediaset e Sky.

Lo scorso ottobre con un’ordinanza il Tribunale di Milano ha ritenuto che la concessionaria pubblicitaria di Mediaset, Publitalia, non potesse rifiutare gli spot di Sky definendo questo comportamento come “la messa in atto di un accordo anti-concorrenziale”. Ad oggi, però, Publitalia ha di fatto continuato a non mandare in onda gli spot di Sky Italia. Il Tribunale di Milano ha confermato che il comportamento di Publitalia viola l’ordinanza dell’ottobre 2009, che Sky Italia non è tenuta ad alcun obbligo di reciprocità e che Publitalia risponderà dei danni causati dalla sua inottemperanza, ma il Tribunale ha anche ritenuto di non poter emettere ordini impositivi nei confronti della concessionaria di Mediaset.

Tom Mockridg, Amministratore delegato di News Corporation Stations Europe ha dichiarato: “Prendo atto con rammarico che, in Italia, un’azienda che controlla più dell’85% degli spazi pubblicitari sulla televisione commerciale, può, di fatto, rifiutarsi di trasmettere le campagne di uno dei suoi concorrenti senza che vi sia un rimedio efficace. Sky Italia continuerà a promuovere la propria offerta ai consumatori italiani attraverso altri mezzi di comunicazione così come ha già fatto durante gli ultimi tre mesi; allo stesso tempo News Corporation continuerà ad impegnarsi per ottenere che anche in Italia vi sia una reale concorrenza nel mercato televisivo, portando la questione all’attenzione delle Autorità competenti, a partire dalla Commissione Europea”. Beh, buona giornata.

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In Italia la matematica è una pessima opinione.

L’Istat, Bankitalia e il balletto sui numeri dei disoccupa
Apprendisti e stregoni al lavorodi Roberta Carlini, da robertacarlini.it

Mediamente, andiamo abbastanza male in matematica, e i più seri esperti di formazione si preoccupano di questa lacuna della nostra scuola. Ma di qui a ignorare del tutto i numeri, come se fossero inconoscibili entità, anche quando si tratta di fare solo addizioni e sottrazioni, ce ne corre. Eppure, ogni volta che nel nostro dibattito politico spunta un numero, se ne parla così: Tizio dice che quel numero è X, Caio dice che è Y, scontro tra Tizio e Caio. Come se non fosse possibile risalire alla verità – oppure, spiegare le diverse ipotesi che sono alla base delle due verità – e capire se è Tizio o se è Caio che sta dicendo una colossale balla.

Il siparietto si ripete ogni volta che qualcuno si azzarda a dare i dati sul lavoro. Evidentemente, anche se da tempo i lavoratori sono trascurati da destra e da sinistra – sostituiti dalle più appetite categorie dei consumatori, risparmiatori, utenti, o ancora padani, imprenditori o altro -, la questione brucia. E brucia soprattutto in tempi di crisi. L’Istat, che con una sua indagine fa la rilevazione dello stato delle cose, si è trovato abbastanza in difficoltà quando, qualche mese fa, il governo ha ridicolizzato il modo in cui quell’indagine si fa – metodo statistico, che segue standard internazionali. Poi ha appaltato all’esterno la rete dei lavoratori – per lo più giovani, precari come tutti – che fanno le domande sulla cui base si stila l’indagine. La cosa ha preoccupato molti, e ha fatto conoscere a tutti il paradosso dei precari che vanno in giro a fare domande sulla altrui precarietà. Ma – assicura il presidente dell’Istat, economista stimato a livello internazionale – tutto ciò non mette in discussione la serietà e la attendibilità dei dati. Che, da un po’, vengono forniti mensilmente anziché trimestralmente. L’ultimo bollettino parla di una disoccupazione all’8,3%. Su questi dati poi altri economisti e altri statistici fanno ricerche, analisi, ragionamenti. E gli ultimi ragionamenti hanno dato luogo all’ultimo siparietto: la disoccupazione “vera”, ha detto la Banca d’Italia, è sopra il 10%. “Dati scorretti”, ha detto il governo, e hanno riportato le tv e i giornali. Senza preoccuparsi di dare al pubblico – evidentemente considerato troppo ignorante per care qualche operazione aritmetica – elementi in più per capirci qualcosa. Così, sembra che tra il ministro dell’Economia e il governatore della Banca d’Italia si sia svolto l’ennesimo battibecco da chiacchiera politica, uno scontro da salotto tv. Mentre si parla di cose cruciali: quante persone sono senza lavoro in Italia? Quante senza alcun reddito? Come vivranno quest’anno, l’anno prossimo? Come metteranno insieme il pranzo con la cena?

A chiunque si guardi intorno e non guardi solo le reti Rai e Mediaset (dove, ci avverte Ilvo Diamanti, alla disoccupazione si dedica solo il 7% delle notizie, limitando la nozione di “notizie” a quelle che evidenziano fatti gravi e contesti critici, insomma escludendo i servizi sulle mostre canine e simili), risulta chiaro che le persone che intorno a noi perdono il lavoro, o ne vedono ridimensionate le ore, o il salario, aumentano ogni giorno. I precari intervistatori dell’Istat registrano infatti ogni mese un nuovo record, fino ad arrivare all’ultimo: 8,3% di disoccupati ufficiali. Cosa significa? Secondo gli standard internazionali, sono “disoccupate” le persone che sono in età da lavoro, che non hanno un lavoro (non l’hanno mai avuto, o l’hanno perso), e che hanno cercato attivamente lavoro nel mese precedente l’intervista con l’Istat. Se uno, in quel momento, non sta lavorando perché è in cassa integrazione, oppure è a casa ma l’ultima ricerca di lavoro l’ha fatta oltre un mese prima dell’intervista, non rientra ufficialmente tra i disoccupati. Pur in questa definizione alquanto ristretta, il tasso di disoccupazione è crescente e preoccupante. Ma cosa succederebbe, si è chiesta la Banca d’Italia, se aggiungessimo anche i lavoratori in cassa integrazione e quelli che potrebbero tornare a lavorare ma non cercano neanche più lavoro (in molti casi non perché non ne hanno bisogno, ma perché sono scoraggiati, pensano che è inutile cercare tanto non si trova lavoro)? Aggiungendo – addizione, operazione non difficile – i lavoratori in cassa integrazione e i lavoratori “scoraggiati”, nel novero dei disoccupati abbiamo ben 800.000 persone in più: il numero dei disoccupati sale a 2.600.000, e il tasso di disoccupazione oltre il 10%.

A questo punto, la valutazione si fa più facile: non esistono dati corretti e dati scorretti – in questo caso – ma dati che tengono conto di alcune variabili e dati che non ne tengono conto. Chi pensa che non valga la pena contare le decine (forse centinaia) di migliaia di uomini e donne che non cercano lavoro perché scoraggiati e scoraggiate, e che non valga neanche la pena di contare i cassintegrati perché tanto appena la Cig finirà torneranno al lavoro e troveranno il loro posto lì ad attenderli – chi la pensa così può attenersi al dato ristretto sulla disoccupazione, che comunque non è confortante. Chi invece pensa che quell’esercito di persone comunque appartiene alla fascia problematica della società, perché è (o presto sarà) senza un reddito, darà ragione alla Banca d’Italia nel suo tentativo di illuminare a giorno la situazione dell’occupazione in Italia. Operazioni e convinzioni legittime – c’è stato perfino qualcuno, nella scienza economica, che si è inventato il concetto di “disoccupato volontario”, dunque tutto è possibile nella teoria. Quel che non è possibile, nella pratica, è cercare di oscurare con la confusione sui numeri la realtà. Fatta di molti occupati in meno, uomini e donne. Persone che hanno perso il lavoro: prima i più precari, i collaboratori; poi quelli con i contratti temporanei non rinnovati; poi i lavoratori a tempo indeterminato, che per la prima volta dal ‘99 scendono numericamente (meno 0,7%, 110.000 posti in meno, tra il terzo trimestre 2008 e il terzo trimestre 2009).

Di tutti costoro, solo pochi hanno avuto, e hanno, la protezione della cassa integrazione. Moltissimi invece non hanno avuto alcuna copertura a compensazione del salario perso. Il che spiega anche la dinamica del reddito e dei consumi nell’anno appena trascorso: le famiglie hanno comprato di meno (-2,1% la riduzione degli acquisti, nonostante un effetto-droga degli incentivi per le auto), il reddito disponibile è sceso dell’1,5%. Ovviamente ne segue un effetto a catena negativo: le imprese che vendono le loro merci in Italia, di fronte a questa situazione, prevedono il peggio, non investono e (ben che vada) non assumono. E la famosa ripresa si allontana.

Ecco perché i numeri – e i balletti sui numeri – non sono innocenti. Forse se si riconoscesse la profondità del problema, si sarebbe anche portati a muovere qualcosa, nelle leve della finanza pubblica, per avviarsi verso qualche soluzione. A dire il vero, il ministro dell’economia si è spinto fino a dire che la sola forma di deficit pubblico “moralmente accettabile” riguarda quel che si deve pagare ai lavoratori per la cassa integrazione: cioè, se si dovrà sforare per sostenere questi lavoratori, lo faremo, pare aver detto Tremonti. Ma andiamo a guardare quel che ha appena fatto, nell’anno che si è chiuso: l’Italia (il suo bilancio pubblico) ha già sforato, lo Stato è andato in rosso per il 5,6% del Pil. Rispetto al 2008, nel 2009 si sono avuti 31 miliardi di deficit in più. Ma non per la cassa integrazione e il sostegno ai lavoratori. Quasi tutto il maggior deficit è stato infatti dovuto a un effetto spontaneo del ciclo economico: la riduzione delle entrate tributarie, dovuta alla riduzione della produzione. Meno spontaneo, e forse indotto da un certo clima di tolleranza che si è diffuso nell’imminenza dell’arrivo del condono per i capitali illegali all’estero, è stato il modo in cui si è ripartita questa riduzione delle entrate fiscali: scese per tutti i settori, tranne che per l’imposta sui redditi da lavoro dipendente. Mentre in alcuni settori il gettito si riduceva molto di più di quanto fosse giustificato dalla crisi economica, le ritenute d’acconto sul lavoro dipendente restavano stabili. Inoltre, pur tuonando contro le banche e inneggiando a Robin Hood, Tremonti ha dato alle banche una delle poche spese discrezionali in più decise l’anno scorso, 4,1 miliardi per sostenerle nella crisi sottoscrivendo le loro obbligazioni.

Dunque il deficit pubblico è già salito nel 2009, ma non solo (e non prevalentemente) per aiutare i senza-lavoro. Per i quali il 2010, apertosi all’insegna del balletto sui numeri, non preannuncia per ora grandi novità: se non il fatto che, purtroppo, per molte lavoratrici e lavoratori il passaggio dalla cassa integrazione alla disoccupazione sarà ufficiale. (Beh, buona giornata).

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Televisioni italiane: è scoppiata la guerra. Si salvi chi può.

Calabrò: “Rai anche su Sky se indispensabile” Mediaset, ricorso contro la chiavetta digitale
Il gruppo del Biscione denuncia all’Antitrust la distribuzione dell’apparecchiatura “contraria alla normativa comunitaria e nazionale in materia di concorrenza”-repubblica.it

Si riaccende la guerra delle tv. Da una parte Corrado Calabrò, presidente dell’Agcom, chiarisce che la Rai deve stare anche su Sky “se indispensabile”, per consentire a tutti gli utenti di vedere i programmi. Dall’altra Mediaset ricorre all’Antitrust contro la chiavetta di Sky per il digitale terrestre. La replica dell’emittente di Murdoch è immediata: “E’ solo un modo per garantire a milioni di famiglie la possibilità di fruire dell’offerta digitale in chiaro sul digitale terrestre”.

A margine dell’audizione in commissione di Vigilanza, dove ha presentato le linee guida del nuovo Contratto di servizio, Calabrò ha affermato che la Rai “potrà stare su tutte le piattaforme commerciali” e invece “dovrà stare su tutte le piattaforme tecnologiche, quindi anche sul satellite”, così da consentire a tutti gli utenti di vedere le trasmissioni. E quindi “se Sky in una zona è indispensabile, la Rai deve starci nel periodo transitorio”, limitandosi a criptare “proprio il minimo” delle sue trasmissioni. Il tutto in questa fase di transizione che secondo quanto stabilito a livello europeo dovrà portare al digitale in tutta Italia entro il 2012.

In questo lasso di tempo le cose potranno cambiare, ha spiegato ancora Calabrò, rispondendo a una domanda dei giornalisti, in relazione alla diffusione di TivùSat (la
nuova piattaforma satellitare creata da Rai, Mediaset e Telecom Italia Media, ndr): “Vedremo che copertura sarà stata assicurata da TivùSat”, ha concluso. In buona sostanza, qualora la Rai decidesse di oscurare Rai1, Rai2 e Rai3 su Sky prima del 2012, l’Agcom valuterà “la copertura altrimenti assicurata sul satellite” del servizio pubblico.

L’ordine dei canali. L’Agcom si occuperà dell’ordine dei canali sul telecomando del televisore nella prossima seduta di giovedì 19 novembre. ”Ne avremmo fatto volentieri a meno ma – ha detto Calabrò – la questione non si è risolta. Ce ne occuperemo quindi nella prossima seduta”. Allo studio, tra le altre, l’ipotesi di obbligare chi fabbrica televisori a produrre un telecomando dotato di guida elettronica ai programmi, tecnicamente ‘Epg’.

Il ricorso di Mediaset all’Antitrust. Il ricorso di Mediaset, si legge su un comunicato della società, è motivato dal fatto che “la distribuzione da parte di Sky di questa chiavetta è contraria alla normativa comunitaria e nazionale in materia di concorrenza e costituisce una violazione degli impegni assunti nel 2003 da Newscorp in occasione della concentrazione delle attività di Telepiù e Stream”.

“Le norme Antitrust, infatti – prosegue Mediaset – non consentono a un’impresa dominante di ostacolare l’ingresso sul mercato di concorrenti mediante vendite abbinate o aggregate dei propri prodotti”. Inoltre per Mediaset, il fine della digital key, che non consente l’accesso né ai servizi interattivi né ai contenuti a pagamento, “è quello di frenare la diffusione sul mercato di decoder che consentano di ricevere i programmi a pagamento e i servizi interattivi di altri operatori. Il tutto evidentemente a danno dei consumatori che vedranno così limitata la loro possibilità di scelta a livello di offerta e di contenuti”.

A stretto giro la replica di Tom Mockridge, amministratore delegato Sky: “La Digital Key è una semplice iniziativa di Sky che garantirà a milioni di famiglie la possibilità di fruire dell’offerta in chiaro sul digitale terrestre in modo facile ed efficace”.

E Mockridge passa al contrattacco sulla tendenza oligopolistica di Mediaset: “Si tratta di uno strumento che aiuta il processo di digitalizzazione del paese offrendo un servizio per i consumatori in un mercato in veloce sviluppo. Uno sviluppo che, evidentemente, non è facile da accettare per un gruppo come Mediaset che per molti anni è stato, ed è ancora oggi, il principale soggetto privato operante in Italia nella televisione commerciale e dominante nel mercato della pubblicità”.
(Beh, buona giornata).

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Tv terrestri contro tv satellitari: è scoppiata la guerra dei mondi.

Te lo dò io il decoder: se l’Antitrust indaga sull’Auditel-di Giulio Gargia *

L’Antitrust ha aperto un’indagine sull’Auditel, accusato di monopolio delle rilevazioni dell’audience . Ma la notizia non è tanto questa. Si trattava di un atto quasi dovuto, visto che chi lo chiedeva era Sky, stanca di essere presa in giro dai continui rimandi del comitato tecnico di Auditel. La stessa richiesta era stata fatta – qualche anno fa – da associazioni come Megachip e Articolo 21.

Ora che anche Murdoch, per i suoi interessi, vuole una riforma del sistema, è più difficile per l’Antitrust traccheggiare, come ha fatto in questi anni. Ma la vera notizia è un’altra: che all’Auditel , con l’avvento del digitale per tutti, non sanno più che pesci prendere. Ovvero come fronteggiare l’avvento dei diversi telecomandi che in ogni famiglia servono a vedere tutte le Tv che viaggiano nell’etere. Ricordiamo che il metodo della rilevazione statistica dell’Auditel, con il panel di 5100 famiglie campione che decide i gusti degli italiani, è stato già pesantemente messo in discussione , per motivi sostanzialmente pratici, e definito come inattendibile da più parti. Ora, con l’arrivo dei decoder obbligatori, le cose si complicano ancora. Prendiamo una normale serata Tv di una famiglia- campione, una di quelle che determinano gli indici Auditel, e quindi il successo o l’insuccesso di un programma.

La signora Giuseppina guarda la Tv in cucina, su un apparecchio dove non è stato ancora sistemato il decoder , e dunque non prende, in mezza Italia, né Rete4 né Rai 2. Se c’è un programma che vuol vedere su queste reti, deve spostarsi in soggiorno, dove invece il decoder c’è, ma in quel momento è occupato da Marco, il figlio, che sta vedendo i cartoni animati con un suo compagno. La signora Giuseppina dice allora ai ragazzi di andare a vedere i loro cartoons in cucina, mentre lei si godrà Emilio Fede digitale.

Ma c’è un altro ostacolo: il meter dell’Auditel, che – come ogni volta che si cambia programma – inizia a lampeggiare chiedendo : “ Stesse persone ? “ . La signora allora cerca il comando del meter, ma non lo trova perché i ragazzi lo hanno disperso da qualche parte tra i cuscini del divano. Intanto, l’acqua inizia a bollire e la signora si ritrasferisce in cucina, mentre il meter continua a pulsare senza esito. Buttata la pasta, suonano al campanello, e arriva Giorgio, il marito, che si piazza davanti alla Tv del soggiorno. Vede il meter che lampeggia e , ben addestrato, trova il comando tra i cuscini e schiaccia il tasto “si”.

Così, il meter registra che Emilio Fede è stato visto da 2 ragazzini di 8 anni che stavano invece vedendo i loro Simpson su Italia Uno. Giorgio, nell’attesa della cena, cambia canale e passa su Minzolini. Per potersi godere uno dei suoi editoriali senza interferenze del meter, deve però ritrovare l’altro telecomando, quello del decoder, che la moglie si è portata con sé in cucina appena ha capito che le stava tracimando la pentola. Il marito, allora, va in cucina. “ Pina , è pronto ? “ chiede. “ Due minuti, comincia a chiamare Riccardo, sta in camera sua”, prende tempo la signora. Giorgio, dimenticato il telecomando, attraversa il corridoio e trova l’altro figlio che sta alla sua scrivania davanti al computer, dove sta vedendo Blob su RAI 3 , scaricando un brano degli U2, e chattando con la sua fidanzata di Barcellona.

In questo quarto d’ora tipo di una famiglia campione, non un solo spettatore Auditel è stato correttamente registrato. Una situazione già presente e molto criticata prima, ma che il digitale obbligatorio ha reso ancora più complicata. Oggi, e fino al 2012 quando sarà completata la transizione, una famiglia può avere un telecomando per il digitale terrestre, uno per il satellite Sky, uno per quello RAISET, un altro per la Tv tradizionale, e infine uno per l’IPTV, quella via computer. A questo bisogna aggiungere – per la rilevazione corretta dei dati – il meter dell’Auditel, che implica un altro apparato completo di simil-telecomando per registrarsi ogni volta che si cambia canale.

Le richieste della Tv di Murdoch chiedevano di adeguare le rilevazioni a questa situazione di estrema confusione, contando di ricavarne un vantaggio in termini di proprio audience. “Il procedimento, avviato alla luce di una denuncia presentata da Sky Italia, dovrà verificare se la società abbia assunto un atteggiamento dilatorio o ostruzionistico nei confronti delle proposte avanzate da Sky per migliorare la rappresentatività dei dati rilevati”, dice l’Antitrust in una nota.

Ma il problema non è solo quello di chi sapere chi vede e che cosa. Con il decoder, diventa anche quello di sapere chi NON vede più quello che vedeva prima. E’ notizia di una decina di giorni fa l’istituzione dei “ volontari del decoder” . Ragazzi che – pagati dalla provincia autonoma di Trento – dalla primavera scorsa di lavoro fanno proprio questo: installano decoder a domicilio, gratis, agli over 75. Una fascia di persone che con la tecnologia, anche quella semplice, non va tanto d’accordo. Pare che ne abbiano usufruito in oltre 6.000. Ma l’Italia non è il Trentino, e dobbiamo quindi immaginare cosa stia succedendo in Piemonte, Lazio , Campania e nelle altre regioni già tutte o parzialmente digitalizzate, dove gli “angeli del decoder” non arrivano. Ma l’Auditel tutto questo non lo sa, e continua a registrare i suoi presunti ascolti su cui si fanno palinsesti e programmi. Chissà se e quando l’Antitrust arriverà laddove il buon senso, l’osservazione pratica e perfino Franceschini in campagna per le primarie sono giunti da tempo: dichiarare superato questo meccanismo e voltare pagina. Farebbe un gran bene a tutti, in primis ai telespettatori. (Beh, buona giornata)

• Autore del libro “ L’arbitro è il venduto “ – Audiradio, Auditel, Hit Parades, Audiweb, Audisat
di Editori Riuniti , insegna Giornalismo Internazionale all’Università L’Orientale di Napoli

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“Le leggi ad personam? Le fa per proteggersi. Se non fai la legge ad personam vai dentro.” Il presidente di Mediaset parla del presidente del Consiglio.

Confalonieri alla Stampa: “A Berlusconi danno fastidio i freni della democrazia”-blitzquotidiano.it

Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset e amico di Silvio Berlusconi dagli anni del liceo, racconta il suo rapporto con il premier in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti su La Stampa in edicola oggi lunedì 2 novembre. Ovvio – dato anche il nome che porta – che difenda il premier, cui si accontenta di passare la palla visto che uno come lui “è come Pelè”.

Fedele Confalonieri l’ha visto vincere ogni sfida, un vero fuoriclasse, ma qualche difficoltà la soffre anche lui, specie quegli ostacoli che le società democraticamente avanzate pongono all’esercizio del potere: “Gli riesce difficile prendere atto che la democrazia pone dei freni. Silvio è un uomo del fare. I freni gli danno fastidio. Ma non è un dittatore come dicono”

“Le leggi ad personam? Le fa per proteggersi – dice Confalonieri – Se non fai la legge ad personam vai dentro. Una volta dentro, poi non ti chiedono scusa. E’ il sistema della giustizia in Italia. I magistrati sono gli unici che non pagano mai: irresponsabili. L’errore di Berlusconi è pensare che tutti i magistrati siano rossi – aggiunge – Sbaglia e io glielo dico… come anche che i comunisti non ci sono più… ma bisogna ammettere che è un ottimo argomento di vendita”.

“Berlusconi parla troppo – dice poi Confalonieri – Prenda la vicenda D’Addario. Se non diceva un cavolo in tre giorni finiva”. Le dieci domande di Repubblica? “Dissi a Silvio: Fregatene, non le legge nessuno e invece lui va a parlare a Porta a Porta”.

Nell’intervista a tutto campo Confalonieri definisce poi Eugenio Scalfari “l’unico giornalista che ha il senso degli affari”, di Nanni Moretti dice che gli sta “sulle palle” e di Giulio Tremonti “che è legittimo che pensi al dopo”.

Sulla proposta di non pagare il canone Rai il presidente Mediaset osserva che “é una sciocchezza e che Berlusconi sbaglia”.

“Se Berlusconi si fosse limitato alla televisione – conclude Confalonieri – oggi avrebbe più del 90% dei consensi. Ma ha voluto giocare in prima persona. E ha spaccato in due il Paese”. (Beh, buona giornata).

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Il passaggio al digitale terrestre: lo chiamano switch off, ma è solo una gran confusione.

Addio vecchia TV analogica. Dal 16 novembre switch off per Roma.
Al via dalla metà di novembre il passaggio al Digitale terrestre per Roma, prima grande capitale digitale d’Europa, di ALESSANDRA LOFFREDI.

Quando alla fatidica data del 16 di novembre Roma vedrà compiersi lo switch off (il passaggio anticipato alla nuova tecnologia), spegnendo definitivamente il segnale analogico della vecchia TV, si troverà a ricoprire il ruolo di “prima grande capitale digitale d’Europa”, anticipando Londra, Parigi e Madrid, così come ha dichiarato in un recente congresso il Viceministro alle Comunicazioni Paolo Romani “Cos’è oggi la TV digitale terrestre in Italia lo possiamo vedere con i nostri occhi : 34 canali nazionali gratuiti rispetto ai 10 canali nazionali del sistema analogico. La via italiana alla televisione digitale terrestre è originale ed innovativa” sottolineava inoltre nell’intervento “Una specificità italiana, che sottolineiamo e rivendichiamo, in un contesto europeo che ad oggi non ha raggiunto il nostro livello di avanzamento del processo di digitalizzazione.” (Intervento leggibile integralmente su Digital-Sat.)

Secondo i dati del Ministero dello Sviluppo economico, entro la fine di quest’anno il digitale terrestre entrerà nelle case di 6,2 milioni di famiglie (pari al 30% della popolazione). Progressivamente, nel 2010 la percentuale sarà alzata al 68% e nel 2011 all’81%.

Nel 2012 il passaggio sarà completato per tutti. Il digitale terrestre (conosciuto anche con l’acronimo DTT, dall’inglese Digital Terrestrial Television) è una tecnologia che permette di ricevere sul televisore di casa trasmissioni televisive di un livello pari alla TV satellitare, non ricorrendo all’installazione dell’antenna parabolica, ma utilizzando invece un decoder, collegato all’impianto ricevente preesistente o integrato direttamente nei televisori di recente fabbricazione.

Un passaggio epocale? Certamente, ma non sempre ben accettato dagli utenti, alcuni dei quali lo vivono al momento più come un passaggio obbligato e non condiviso.
Le ragioni sono prevalentemente collegate alla questione economica. Passare al digitale obbliga tassativamente all’acquisto del decoder. Nonostante il sostegno dato dagli incentivi statali, dedicati comunque ad una ristretta fascia di utenti e nonostante la varietà di proposta degli apparecchi, i cui prezzi partono da cifre contenute, molti italiani vivono la necessità di questo esborso come un’imposizione, considerando che, molto semplicemente, la televisione la vedevano pure prima e pagando già un canone.

La decantata maggior qualità dell’immagine, nonché la più ampia varietà di canali, non basta in questi casi a sollevarli dalla sensazione di trovarsi ad essere, inevitabilmente, un terreno di battaglia fra due grandi network televisivi, Mediaset e Sky.

Quanto al decoder, la sua semplice installazione viene mostrata in maniera chiara anche tramite spot rassicuranti. Ma non sempre la realtà è altrettanto chiara. Innanzi tutto, stando ai commenti che corrono in molti blog tematici della rete, ad essere alle volte non chiara è le ricezione del segnale, la cui copertura, lamentano alcuni utenti, è ancora causa di malfunzionamenti. Poco chiare anche le idee di quelli che, non riuscendo autonomamente a compiere la semplice operazione di collegamento del decoder, si avvalgono di un tecnico installatore.

Alla spesa per l’apparecchio si aggiunge quella dell’intervento, arrivando, nel peggiore dei casi, a sentirsi dichiarare inadeguato l’orientamento dell’antenna o peggio l’impianto preesistente. “In questo periodo non mi fermo un attimo,le chiamate che richiedono un intervento per installare il decoder sono continue” sospira Renzo, tecnico specializzato attivo nell’area nord della capitale ”c’è una gran confusione sull’argomento e a farne le spese sono soprattutto le persone anziane, intimorite dalle nuove tecnologie”.
Come difendersi in questi casi dai raggiri? “Chiedendo una mano ad un giovane della famiglia, sicuramente più disinvolto con cavi e prese scart, o cercando un tecnico che sia di fiducia, magari già intervenuto sul televisore di un amico” consiglia Renzo.

E’ bene porre una certa attenzione anche nell’acquisto di un nuovo televisore. Non sono stati poi così remoti quei casi in cui, portato con soddisfazione a casa il nuovo apparecchio, un “vero affare”, contrariamente alle aspettative si scopriva non essere adeguato alle nuove tecnologie.

Recentemente Legambiente ha posto l’attenzione su una nuova forma di inquinamento, riconducibile all’abbandono di rifiuti pericolosi, che pare crescere con l’avvicinarsi dello switch-off.
Televisori smaltiti in modo errato, lasciati impropriamente ed in gran numero a ridosso di cassonetti ed altrove. Lontanissimi da questi episodi gli utenti più agguerriti contro l’avvento del digitale, che intervenendo in internet, propongono di eliminare si il televisore, ma con una rottamazione corretta e dandone avviso alla Rai, così da non dover più pagare il canone e tornare a dedicarsi ad altro, magari una buona lettura.

ADICONSUM (associazione difesa consumatori e ambiente), quantificando in circa 100/150 euro il costo medio del passaggio per ogni famiglia al Digitale Terrestre e sostenendo che il principale cruccio degli utenti non sia relativo all’esborso economico ma piuttosto alle problematiche tecniche ad esso correlate, propone, per alleviare le pene degli abitanti del Lazio l’iniziativa denominata “Digitale chiaro”.

Eventi informativi che avranno luogo in tutti i comuni che ne faranno richiesta, con l’obiettivo di sostenere i cittadini che desiderano non arrivare impreparati al fatidico evento dello spegnimento del segnale analogico (dal 16 al 30 Novembre), agevolando quindi l’apprendimento di tutte le operazioni da compiere e delle eventuali problematiche correlate all’installazione di un decoder.

Chi volesse ricevere maggiori informazioni sul progetto può contattare l’Associazione tramite l’apposito Numero Verde 800 864754 nei giorni Lunedì, Mercoledì e Venerdì dalle ore 11 alle ore 15, oppure tramite richiesta via e-mail all’indirizzo di posta digitalechiaro@adiconsum.it.

Pronto al contrattacco alla concorrenza del Digitale Terrestre, Sky risponde incrementando da 16 a 30 i suoi canali HD entro il 2010, offrendo, a partire dal 23 ottobre, un televisore Full HD per tutti gli abbonati Sky con soli 50 euro di anticipo e rate a partire da 6 euro al mese e lanciando da dicembre la Digital Key, una chiavetta che, collegata al decoder Sky, permette di accedere a tutta l’offerta gratuita in chiaro del digitale terrestre integrata nell’Epg di Sky (ovvero la Guida elettronica dei programmi, un modo per avere sullo schermo l’elenco dei programmi trasmessi dai canali della piattaforma satellitare).

Il contrattacco di Sky prevede anche l’immediata possibilità di abbonarsi ai pacchetti Sky Cinema, Sport e Calcio senza sottoscrivere tutti i cinque generi del pacchetto Mondo. Così, avvolti dalla polvere della battaglia fra decoder, storditi da sistemi di decriptazione ed antennisti, è inevitabile chiedersi, come qualcuno suggeriva, se rimarranno energie per distogliere lo sguardo dal video dirottandolo, almeno qualche volta, sulle pagine di un buon libro. (Beh, buona giornata).

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democrazia Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Berlusconismo: la Rai censura Videocracy, film di Erik Gandini.

La Rai rifiuta il trailer di Videocracy “E’ un film che critica il governo” di MARIA PIA FUSCO-Repubblica.

Nelle televisioni italiane è vietato parlare di tv, vietato dire che c’è una connessione tra il capo del governo e quello che si vede sul piccolo schermo. La Rai ha rifiutato il trailer di Videocracy il film di Erik Gandini che ricostruisce i trent’anni di crescita dei canali Mediaset e del nostro sistema televisivo.

“Come sempre abbiamo mandato i trailer all’AnicaAgis che gestisce gli spazi che la Rai dedica alla promozione del cinema. La risposta è stata che la Rai non avrebbe mai trasmesso i nostri spot perché secondo loro, parrà surreale, si tratta di un messaggio politico, non di un film”, dice Domenico Procacci della Fandango che distribuisce il film. Netto rifiuto anche da parte di Mediaset, in questo caso con una comunicazione verbale da Publitalia. “Ci hanno detto che secondo loro film e trailer sono un attacco al sistema tv commerciale, quindi non ritenevano opportuno mandarlo in onda proprio sulle reti Mediaset”.

A lasciare perplessi i distributori di Fandango e il regista sono infatti proprio le motivazioni della Rai. Con una lettera in stile legal-burocratese, la tv di Stato spiega che, anche se non siamo in periodo di campagna elettorale, il pluralismo alla Rai è sacro e se nello spot di un film si ravvisa un critica ad una parte politica ci vuole un immediato contraddittorio e dunque deve essere seguito dal messaggio di un film di segno opposto.

“Una delle motivazioni che mi ha colpito di più è quella in cui si dice che lo spot veicola un “inequivocabile messaggio politico di critica al governo” perché proietta alcune scritte con i dati che riguardano il paese alternate ad immagini di Berlusconi”, prosegue Procacci “ma quei dati sono statistiche ufficiali, che sò “l’Italia è al 67mo posto nelle pari opportunità””.

A preoccupare la Rai sembra essere questo dato mostrato nel film: “L’80% degli italiani utilizza la tv come principale fonte di informazione”. Dice la lettera di censura dello spot: “Attraverso il collegamento tra la titolarità del capo del governo rispetto alla principale società radiotelevisiva privata”, non solo viene riproposta la questione del conflitto di interessi, ma, guarda caso, si potrebbe pensare che “attraverso la tv il governo potrebbe orientare subliminalmente le convinzioni dei cittadini influenzandole a proprio favore ed assicurandosene il consenso”. “Mi pare chiaro che in Rai Videocracy è visto come un attacco a Berlusconi. In realtà è il racconto di come il nostro paese sia cambiato in questi ultimi trent’anni e del ruolo delle tv commerciali nel cambiamento. Quello che Nanni Moretti definisce “la creazione di un sistema di disvalori””.

Le riprese del film, se pure Villa Certosa si vede, è stato completato prima dei casi “Noemi o D’Addario” e non c’è un collegamento con l’attualità. Ma per assurdo, sottolinea Procacci, il collegamento lo trova la Rai. Nella lettera di rifiuto si scrive che dato il proprietario delle reti e alcuni dei programmi “caratterizzati da immagini di donne prive di abiti e dal contenuto latamente voyeuristico delle medesime si determina un inequivocabile richiamo alle problematiche attualmente all’ordine del giorno riguardo alle attitudini morali dello stesso e al suo rapporto con il sesso femminile formulando illazioni sul fatto che tali caratteristiche personali sarebbero emerse già in passato nel corso dell’attività di imprenditore televisivo”.

“Siamo in uno di quei casi in cui si è più realisti del re – dice Procacci – Ci sono stati film assai più duri nei confronti di Berlusconi come “Viva Zapatero” o a “Il caimano”, che però hanno avuto i loro spot sulle reti Rai. E il governo era dello stesso segno di oggi. Penso che se questo film è ritenuto così esplosivo vuol dire che davvero l’Italia è cambiata”. (Beh, buona giornata).

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Prime vittime della guerra di Rai e Mediaset contro Sky:oscurata via satellite l’amichevole della Nazionale azzurra in Svizzera.

Labirinto tv, il telespettatore paga la guerra di Rai e Mediaset a Sky di ANTONIO DIPOLLINA-Repubblica.

Perché non si vede la partita? L’estate dello scontento televisivo vive di repliche infinite e di colpi di mano: che aprono interrogativi pesanti sull’immediato futuro, quando la gente tornerà dalle vacanze e sarà a casa. La domanda iniziale è risuonata l’altra sera. Se la sono posta quei telespettatori che da tempo sono abituati a guardarsi i canali principali (da Raiuno a Canale 5, da Raitre a La7, quelli in chiaro, insomma) attraverso il decoder di Sky. Un decoder che hanno in casa perché pagano regolare abbonamento per i canali di Murdoch, ma attraverso il quale è sempre stato più che comodo guardarsi Rai e Mediaset: primo perché basta accendere il decoder, secondo perché sono i primi che si trovano in lista, dal 101 in giù, terzo perché in digitale si vede meglio. Qualcuno nel tempo ha direttamente rinunciato all’antenna terrestre. Altri, in alcune zone, non ricevono il vecchio segnale terrestre-analogico e il decoder di Sky ha rappresentato la soluzione ottimale. Ma non finale.

L’altra sera la Rai ha oscurato via satellite l’amichevole della Nazionale azzurra in Svizzera. Sabato aveva fatto lo stesso con Inter-Lazio trasmessa da Pechino. Il giorno dopo un noto allenatore di serie A è stato intervistato dalla Gazzetta e ha risposto: posso dirvi quello che mi è sembrato leggendo i giornali, perché sono nella casa al mare, qui c’è solo la parabola e la partita non si vedeva.

Questa tendenza compulsiva all’oscuramento nasce in casa Rai in piena guerra tra colossi: Rai e Mediaset hanno stretto un patto di ferro in chiave anti-Sky. Si sono fatti la loro piattaforma satellitare che si chiama Tivusat. Qui sta il primo inghippo: secondo il contratto di servizio, l’altra sera la Rai – che ha l’obbligo di trasmettere su tutte le piattaforme, satellite compreso – in teoria non poteva oscurare la partita. Ma come ha spiegato – in veste imprecisata, ma comprensibile ai più – il viceministro alle comunicazioni Paolo Romani in una lettera al Corriere della sera, quello non vuol mica dire che Rai deve trasmettere su Sky. Infatti in teoria l’altra sera la partita è andata anche sul satellite, appunto per Tivùsat. Il punto è che per ricevere Tivusat serve un apposito decoder che al momento è più introvabile di un Gronchi rosa: e che inoltre costa circa cento euro – particolare questo che viene stranamente fatto passare sotto traccia nelle dichiarazioni ufficiali. Il decoder in questione è nettamente alternativo a quello di Sky: lo si compra, a patto di trovarlo, e si vedono via satellite tutti i canali Rai e tutti quelli Mediaset, compresi quelli trasmessi solo in digitale terrestre. L’invito è chiaro: avete il vecchio decoder e guardavate lì soprattutto Rai e Mediaset? Mollatelo, ne abbiamo uno noi nuovo di zecca e senza pagare abbonamenti.

Tecnicamente, il nuovo decoder serve per assicurare la visione dei canali Rai e Mediaset anche nelle zone dove è difficile la ricezione del digitale terrestre, ossia del sistema destinato a soppiantare del tutto in pochi mesi il vecchio analogico.

Qui stanno altri inghippi: prima di tutto si ammette che il digitale terrestre non è e non sarà mai ricevibile alla perfezione in tutte le zone di un paese piuttosto bizzarro dal punto di vista del territorio. Secondo, se qualcuno avesse avuto intenzione di abbonarsi a Sky perché in quel modo avrebbe visto “anche” i canali Rai e Mediaset, adesso ha un’alternativa molto conveniente a disposizione. Terzo, pare, si dice, che tutto sia l’anticamera per far sparire del tutto i canali Rai e Mediaset dal decoder di Sky (dove, nelle dichiarazioni più o meno ufficiali, si limitano a dire che la cosa gli farà più o meno il solletico: chissà).

Ma attenzione, lo scenario non è indolore per nessuno: i canali Rai e Mediaset sono molto visti attraverso Sky e la pubblicità va di conseguenza (per dire, nella lettera Paolo Romani dichiara secco che non c’è contraddizione, i canali in chiaro di Rai e Mediaset possono stare benissimo sia sul decoder Sky che su quello nuovo Tivùsat). E questo come atto finale di una guerra non dichiarata ma abbondantemente nelle cose e che fa accapponare la pelle a un paese molto attento ai conflitti di interesse (si scherza, eh): ovvero la santa alleanza Rai e Mediaset per arginare l’ascesa della pay tv di Murdoch, o quanto meno per infilare più spilloni possibili nelle possenti carni del colosso di derivazione australiana. Infine, pare, si dice, attraverso il nuovo decoder sat, un giorno la Rai – per ora unica assente – potrà sedersi anch’essa al banchetto della tv a pagamento.

E qui siamo al nostro povero telespettatore, al momento perlopiù ignaro nonché sdraiato in spiaggia. L’oscuramento di Svizzera-Italia via sat può anche essere stato poca cosa (l’Auditel ha comunque registrato quattro milioni e settecentomila spettatori, con il 30% di share), ma il segnale è quello: a settembre, quando si torna a pieno regime, non ci sarà una zona del paese uguale a un’altra, e forse uno spettatore uguale a un altro. Ognuno dovrà fare i conti con quello che riesce a vedere nella propria zona, con i progressivi passaggi al digitale terrestre, e con quello che vuole vedere: nonché con ciò che gli sarà consentito guardare senza correre a comprarsi nuovi decoder, fare nuovi abbonamenti o rinnovarli alle varie pay-tv – a fine agosto il calendario del calcio propone già il derby di Milano, in contemporanea assoluta con il momento di massimo rientro dalle vacanze: ci sarà da divertirsi.

I tre decoder in contemporanea (quello Sky, quello del digitale terrestre, quello nuovo Tivusat) in realtà non servono a nessuno, a meno di non essere particolarmente pazzi. Ma tecnicamente qualcuno che volesse avere davvero tutti i canali a disposizione potrebbe provarci. Nella situazione migliore ci sono i telespettatori di poche pretese, che vogliono solo i canali in chiaro e abitano in zone fortunate dove la ricezione del digitale terrestre è perfetta – ma bisogna avere il decoder dtt o un tv di ultima generazione. All’altro capo ci sono gli spettatori che da anni guardano tutto attraverso il decoder di Sky, che dovranno trovare soluzioni di volta in volta o definitive. In mezzo, altre tipologie di consumo e propensioni, di zone già raggiunte dal digitale, di zone dove non si vedrà mai e così via, ognuno a trovarsi una soluzione, tutti fondamentalmente vittime del casino stellare che sembrerebbe una guerra evoluta e moderna tra grandi operatori tv e che nella realtà è una cosa piccola e confusa, che potrà andare a regime solo in tempi medio-lunghi. (Beh, buona giornata).

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Tv italiane: ecco un gran casino.

Sky, Rai, Mediaset, digitale terrestre. Ecco come cambia-blitzquotidiano.it

Per gli spettatori italiani è un periodo di grandi cambiamenti. Una girandola di sostituzioni, diritti non acquisti, nuove concessioni, stanno modificando il panorama dell’offerta televisiva di tutti noi.

A cambiare nuovamente le carte in gioco interviene adesso un ‘annuncio di Sky che, in maniera irrituale, annuncia un divorzio probabilmente irreparabile: dal 1 agosto i canali di RaiSat non saranno più visibili sulla piattaforma satellitare di Sky.

Cosa faranno allora gli appassionati di RaiSat, il canale recipiente del David Letterman Show, i cuochi amatori, fedeli seguaci del Gambero Rosso, i giovanissimi telespettatori, allettati dall’offerta di Yoyo e Smash Girl? Per adesso stanno a guardare, aspettando le decisioni che il Cda di Viale Mazzini dovrebbe dare nei prossimi giorni, quando la Rai, ingolfata dalle nomine e paralizzata dai problemi di salute del suo Dg, si desterà dal torpore estivo di questi giorni.

Ma cosa si può già sapere che cambierà nell’offerta della nostra Tv?

La tv satellitare di Murdoch sostituirà i dieci canali ospitati di Rai Sat con una nuova programmazione. Vedremo alloratra i nuovi canali, Sky Cinema Italia, dedicato ai film italiani (si comincia con il restauro del Gattopardo di Luchino Visconti), e poi Fox Retro, con i telefilm più celebri del passato, Nick Junior, Baby Tv, il canale di casa Fox per i piccolissmi, Lady Channel, per le signore. Inoltre il David Letterman Show della Cbs resterà sulla piattaforma Sky, che, subodorando un cattivo esito delle trattative con la Rai, aveva già acquistato i diritti per lo spettacolo dell’intrattenitore newyorchese.

Per la tv generalista italiana sono previsti altri cambiamenti. Mediaset, Rai e La7 stanno presentando la loro offerta satellitare, per ora gratuita e visibile sul normale digitale terrestre. Il decoder cui hanno affidato la commercializzazione del loro prodotto, TivùSat (prezzo 100 euro fornito, per adesso, dalle marche Humax, Abn e Telesystem), permetterà di vedere sia il digitale terrestre sia i canali satellitari TivùSat. Chi riceve il digitale terrestre vedrà tutti i canali gratuiti di Rai, Mediaset e La7.

Nel corto periodo di fatto potrebbe non cambiare quasi nulla dal digitale terreste al digitale satellitare Rai-Mediaset-La7. Chi ha già comprato il decoder del digitale terrestre può fare a meno di comprare quello di TivùSat, vedrà comunque tutto. Chi comprerà il decoder di TivùSat vedrà tutto ma dovrà avere la parabola. Chi ha solo la parabola e vede tutto con l’abbonamento a Sky per adesso può fare a meno di comprare il decoder di TivùSat ma può darsi che un domani sia obbligato a farlo.

Aspettando gli inevitabili sviluppi, si delinea sempre più l’allontanamento di Rai da Sky e il seguente consolidamento dell’alleanza Rai-Mediaset-La7.

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RAI al bivio: Sky o Tivù Sat?

Rai-Sky/ Incontro chiave a Milano Masi-Mockridge per futuro tv di Stato sul satellite-blitzquotidiano.it

Incontro chiave, lunedì 13, tra Rai e Sky, per il rinnovo dei diritti per i canali Raisat (in scadenza il 31 luglio) e per il futuro satellitare di Raiuno, Raidue e Raitre. Il direttore generale Rai Mauro Masi, che riferirà nel cda di mercoledì 15 luglio, e l’amministratore delegato Sky Tom Mockridge erano a capo delle rispettive delegazioni. Fonti di viale Mazzini hanno definito il vertice, durato circa un’ora, “serio e concreto”.

Per i canali Raisat il rinnovo appare più che possibile, mentre per i canali “free” la Rai medita di mollare il gruppo di Murdoch in seguito alla formazione del nuovo consorzio “Tivù sat”, nato proprio per far concorrenza a Sky.

Tutto dipenderà dall’offerta economica di Sky: questa dovrà essere molto robusta, soprattutto perchè, come comunicato dall’authority per le comunicazioni, Sky ha già sorpassato Mediaset in quanto a ricavi e tallona la Rai (prima solo grazie al canone) molto da vicino. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: “Il gruppo Mediaset si è confermato leader sul mercato pubblicitario aumentando la sua quota dal 54,7 al 55,1 per cento, una posizione dominante che la stessa legge Gasparri, all’articolo 14, invita a valutare, e su cui attendiamo nei prossimi mesi la nuova istruttoria dell’Agcom, dopo il pubblico richiamo con cui tre anni fa ha pudicamente rinviato la questione.”

AGCOM E IL GIOCO DELLE TRE CARTE
di Michele Polo-lavoce.info

La relazione annuale dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni sottolinea la fine del duopolio televisivo con il sorpasso di Sky su Mediaset. Ma è un messaggio fuorviante. Perché nasconde l’evoluzione dell’audience tra i principali canali, vero indicatore di allarme rispetto al problema del pluralismo. La pay-tv è un modello di televisione che non ha bisogno di grandi livelli di pubblico. E mentre la scomparsa del mondo televisivo tradizionale è ancora lontana, Mediaset conferma la posizione dominante sul mercato pubblicitario, con una quota del 55,1 per cento.

Con qualche giorno di ritardo sulla data dovuta del 30 giugno, l’Autorità di garanzia per le comunicazioni ha presentato la sua Relazione annuale sul settore delle comunicazioni elettroniche e su quello dei media. Su quest’ultimo ci concentreremo, a partire dal messaggio forte che è stato subito ripreso dai giornali: la fine del duopolio, il sorpasso del gruppo Sky rispetto a Mediaset.
Spiace doverlo dire di un’Autorità che ha come compito istituzionale quello della sorveglianza sulla correttezza dell’informazione e sul pluralismo, ma questo messaggio è fuorviante, parziale e omissivo. Vediamo il perché.

I RICAVI E L’AUDIENCE

Il forte peso economico del gruppo Sky non è una novità, e già nella relazione dell’anno scorso lo poneva sostanzialmente alla pari con il gruppo Mediaset: rispettivamente 2.347 e 2.411 milioni di euro, contro i 2.729 della Rai. Con le correzioni apportate nel frattempo, si apprende nella relazione di quest’anno che il sorpasso era già avvenuto nel 2007 (2.422 a 2.411) e si è consolidato durante il 2008 (2.640 e 2.531). Un forte riequilibrio delle risorse tra Rai, Sky e Mediaset è quindi un dato che da almeno tre anni caratterizza il sistema televisivo italiano.
Ma questo messaggio forte ha lasciato in ombra alcuni aspetti che invece risultano importanti nel fare il quadro dell’ultimo anno televisivo. Il gruppo Mediaset si è confermato leader sul mercato pubblicitario aumentando la sua quota dal 54,7 al 55,1 per cento, una posizione dominante che la stessa legge Gasparri, all’articolo 14, invita a valutare, e su cui attendiamo nei prossimi mesi la nuova istruttoria dell’Agcom, dopo il pubblico richiamo con cui tre anni fa ha pudicamente rinviato la questione.
Ma il secondo dato che non troviamo nella relazione del presidente Calabrò è l’evoluzione della audience tra i principali canali televisivi, vero indicatore di allarme rispetto al problema del pluralismo. Il dato sorprendente è che, in una struttura della relazione che ripercorre fedelmente, tabella per tabella, gli stessi indicatori e le medesime analisi quantitative dello scorso anno, il testo si arresta alla descrizione delle quote di mercato nella raccolta pubblicitaria (Mediaset in posizione dominante) e in quella delle offerte televisive a pagamento (Sky superdominante col 91,1 per cento). La tabella successiva, che lo scorso anno riportava l’evoluzione della audience tra i diversi gruppi televisivi, è scomparsa dalla relazione. E bisogna con cura certosina stanare nella nota 22 a pagina 9 della presentazione del presidente Calabrò il dato prezioso: la audience complessiva di Rai, Mediaset e La7, pari al 83,9 per cento (!) ha ceduto nel 2008 una quota del 1,4 per cento di telespettatori al gruppo Sky, che con l’insieme dei suoi canali raggiunge quindi una audience media del 9,5 per cento.
Terminata questa faticosa cernita, possiamo quindi dire che il gruppo Sky si conferma secondo operatore per ricavi, pur rimanendo attestato su una audience sull’insieme dei suoi canali che non raggiunge un quarto di quella di Rai e Mediaset. Quest’ultima, inoltre, è riuscita con successo, grazie alla sua efficiente concessionaria, a contenere l’impatto negativo della crisi sui ricavi pubblicitari, al contrario di quanto avvenuto per la carta stampata e le reti televisive pubbliche.

IL PLURALISMO CHE NON C’È

Restano quindi i problemi che da anni caratterizzano il mercato televisivo italiano. La crescita indubbiamente positiva di un terzo operatore pay, il gruppo Sky, esercita principalmente un impatto sul mercato dei contenuti, dove la concorrenza per i diritti di trasmissione sui principali eventi sportivi, sui film, sui serial di successo e oggi anche per alcuni personaggi del varietà molto popolari, si fa sempre più accesa. Tuttavia, questo operatore, basato su un modello di ricavi (abbonamento da sottoscrizione) complementare a quello di Mediaset (pubblicità) e Rai (canone e pubblicità), riesce a consolidare la propria posizione economica senza la necessità di raggiungere elevati livelli di audience durante la giornata.
Un riequilibrio della audience, d’altra parte, sarebbe quello che potrebbe realmente portare a una maggiore articolazione delle scelte del pubblico, con un beneficio per l’obiettivo del pluralismo. Così, tuttavia, non è. E non lo è per ragioni tante volte commentate su questo sito. La pay-tv è un modello di televisione che non ha bisogno di grandi livelli di audience, e che erode selettivamente fasce di pubblico in determinati momenti, su determinati programmi, lasciando, almeno in una prospettiva temporale ancora lunga, gran parte dei telespettatori ai grandi canali generalisti. Le fughe in avanti di quanti vedono nel digitale, e nei molti canali che consente, la fine del mondo televisivo tradizionale non sono giustificate dalle forze economiche che governano il settore dei media né dai dati, se si ha l’accortezza di riportarli.
Per il pluralismo in Italia, anche quest’anno, profondo rosso. (Beh, buona giornata).

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Chi la fa l’aspetti: Sky lancia un decoder unico satellite-digitale?

Sky lancerà il decoder unico per captare il digitale terrestre e il segnale del consorzio Tivù (Rai-Mediaset-Telecom)-blitzqutotidiano.it
Murdoch spara le sue cartucce nella guerra dichiarata a Raiset. Secondo Dagospia, il colosso televisivo Sky starebbe progettando un apparecchio capace di abilitare i vecchi decoder Sky a intercettare anche il digitale terrestre, per frenare l’offensiva di Rai, Mediaset e La7 contro la tv satellitare.

Le tre società di broadcasting italiane intendono frenare la crescita degli abbonati Sky, che nel passaggio dall’analogico al digitale preferiscono optare definitivamente per la piattaforma satellitare come visore unico dell’intera offerta televisiva.

Ma l’obiettivo del magnate australiano è un altro: come è noto le tre emittenti nazionali (Rai, Mediaset, La7) dal primo agosto trasmetteranno i loro canali, già visibili sul digitale terrestre, anche sul satellite ma con una codifica non leggibile dai decoder di Sky. «Di fronte al rischio di vedere lo schermo nero nei primi otto numeri della lista canali», riporta Dagospia, Sky ha fatto trapelare di poter abilitare, con lo stesso apparecchio lettore di card, oltre la metà degli apparecchi in uso ai propri abbonati. Per l’altra metà ha invece autorizzato la distribuzione di un decoder “combo” (X-Dome HD 1000NC) che permette di sintonizzare sia i canali del digitale terrestre che quelli satellitari di Sky, nella numerazione preferita. Un primo esempio di decoder unico.

Queste due mosse, accanto al regalo di un decoder per il digitale terrestre ad ogni nuovo abbonato dovrebbero, secondo Sky, fortemente depotenziare l’iniziativa di Rai, Mediaset e Telecom che, con la società Tivù, stanno cercando di creare una piattaforma televisiva alternativa e incompatibile con quella di Sky.
(Beh, buona giornata).

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La quarta crisi: clamoroso, Sky batte Mediaset.

(fonte repubblica.it)
Sky supera Mediaset ed è, dietro la Rai, il secondo operatore tv per ricavi. La tv di Stato lo scorso anno ha registrato “ricavi per 2.723 milioni di euro, Sky Italia 2.640 milioni e RTI 2.531 milioni di euro”. Lo rende noto il presidente dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni Corrado Calabrò nella relazione annuale presentata al Parlamento.

“La Rai è ancora – afferma Calabrò – la principale media company italiana con oltre 2,7 miliardi di euro di ricavi, anche se in decremento rispetto al 2007 a causa della flessione della pubblicità (-3,6%). Sky Italia consolida la sua posizione, divenendo addirittura il secondo gruppo televisivo per ricavi. Il gruppo Mediaset (che scende al terzo posto, con un calo della pubblicità dello 0,3%) vede il rafforzamento della propria offerta a pagamento sulla piattaforma digitale terrestre (passando da 125 a 199 milioni di euro)”.

Nel 2008, in Italia i ricavi complessivi del settore televisivo hanno raggiunto gli 8,4 miliardi di euro con un +4,1% rispetto al 2007, rileva il garante.
La struttura televisiva è articolata in tre soggetti “con una posizione simmetrica in termini di ricavi complessivi del settore televisivo. All’interno di essa – spiega Calabrò – RTI è leader della pubblicità e nuovo concorrente nelle offerte a pagamento; Sky è di gran lunga leader nella pay tv e nuovo concorrente nella pubblicità; Rai mantiene le classiche posizioni attraverso una quota di rilievo nella pubblicità e prelevando le risorse residue dal canone di abbonamento”. Beh, buona giornata.

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La quarta crisi: la pubblicità governativa italiana tutta su Mediaset. Alla faccia del conflitto di interessi, con buona pace di Upa e Assocomunicazione.

Gli spot sulle tv Mediaset crescono, a scapito di Rai e giornali-fonte advexpress.it

Dai dati Nielsen emerge che buona parte dei fondi di cui la Presidenza del Consiglio dei Ministri dispone per la pubblicità istituzionale è stata destinata alle tv private, preferite ai canali pubblici e alla carta stampata. Non solo. Anche i big spender, si legge su ‘la Repubblica’ , stanno dirottando i loro investimenti verso le reti del Biscione, con grande soddisfazione del premier e di Publitalia .

Nemmeno la pubblicità è esclusa dal ciclone che ha investito il premier Silvio Berlusconi negli ultimi tempi. Come si apprende oggi, 17 giugno, da ‘la Repubblica’, è nata infatti una nuova polemica che riguarda proprio gli spot televisivi.

Nonostante il momento difficile per gli investimenti pubblicitari, infatti, i commercial sulle reti Mediaset continuano ad aumentare. La crescita, confermata dai dati Nielsen, è dovuta in particolare a due motivi: al fatto che i fondi per la pubblicità istituzionale di cui dispone la Presidenza del Consiglio dei Ministri vengano destinati in larga parte alle tv private e alla tendenza manifestata da molti big spender di affidare i propri budget alle reti del Biscione.

Sul fronte della pubblicità istituzionale, basta operare un confronto tra il primo trimestre del 2009 (presidenza di centrodestra) e il primo trimestre del 2008 (presidenza di centrosinistra) per rendersi conto di come gli investimenti si siano massicciamente spostati verso i canali Mediaset.

Come si legge su ‘la Repubblica’, il budget destinato alle tv private è salito nel confronto del 237%, passando da 932.000 a 3.137.000 euro, vale a dire quasi l’intera somma a disposizione, che ammonta a 3.288.000 euro. Nel dettaglio, gli investimenti su Canale 5 sono passati da 440.000 a oltre 2 milioni di euro, Italia 1 ha catalizzato una somma pari a 536.000 euro, contro i 230.000 del primo trimestre 2008, e su Rete 4 sono stati investiti nei primi tre mesi 2009 253.000 euro, ovvero molti più dei 163.000 dello scorso anno.

Questo ha comportato di conseguenza la quasi completa latitanza della pubblicità istituzionale dalla carta stampata, dove gli investimenti sono diminuiti del 98%. Beh, buona giornata.

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