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Il capitalismo italiano ha Fiat corto?

di Riccardo Tavani

Fiat ha attribuito il calo del 7,3% di vendite in Europa alla pessima situazione proprio del mercato italiano. Abbiamo in Italia un parco di auto carcasse tra i più rugginosi d’Europa. Il tasso di sostituzione delle vetture è passato dal 6,3% del 2007 al 3,9% del 2012. A Torino sembrano aspettare, per ricominciare a vendere lungo lo Stivale, solo che le auto comincino a perdere pezzi di motore e carrozzeria lungo le autostrade o sulle provinciali battute dalle battone. O che la prostituzione di Stato cominci di nuovo a far vorticare le borsette sui marciapiedi attorno ai Ministeri, con adescamento di incentivi, sgravi e rottamazioni.

Anche se Fiat ha messo, in ogni caso, a segno degli incrementi di vendite in Inghilterra, Spagna e, in tono minore, anche in Francia, essa rappresenta poco più del 4% sul territorio continentale. Il prossimo sbarco della berlina cinese Qoros 3 Sedan sui mercati europei sembra destinato a restringere ancora di più tale quota, almeno per il segmento medio, considerate le prestazioni tecniche e di massima sicurezza che offre.

Non è certo, però, sul territorio nazionale o anche soltanto continentale che Fiat sta cercando di disegnare la sua configurazione strategica globale. Le modalità e il contenuto del recente acquisto del pacchetto di maggioranza del socio americano Chrysler lascia bene intravedere i contorni di questo piano.

Da Furio Colombo – che se ne intende, essendo stato negli anni ’70 Presidente di Fiat Usa – a Maurizio Ladini, Segretario Generale della Fiom, a Vincenzo Miliucci, storico dirigente Cobas, dicono, a conti fatti, anche se con accenti diversi, la stessa cosa. Non è stata Fiat a comprare Chrysler ma il contrario, e l’azienda torinese rimarrà soltanto un tassello periferico di un impero e di una strategia economico-produttiva globale. Adesso vediamo, ci domandiamo subito, però, se il vero nodo della questione sia questo.

Fiat acquista il pacchetto di controllo Chrysler, acquisendo la quota azionaria di Veba Trust, il fondo previdenziale-sanitario gestito dal sindacato dei lavoratori, ammontante al 41,5% delle azioni. Sergio Marchionne, dunque, non va alla conquista dei fatidici Mercati, ovvero dei pacchetti azionari esterni, ma di quelli saldamente già dentro le mura aziendali, dato l’interesse e il coinvolgimento del sindacato americano al buon andamento degli affari aziendali.

Come acquisisce Fiat questa quota decisiva per il controllo totale del gruppo? La acquisisce sì (in grossa parte) cash Pokies, ma con la massa di soldi liquidi corrispondenti agli utili maturati da Chrysler, per la quota spettante a Fiat in quanto socio. È come se Marchionne avesse comprato una casa con i soldi in cassaforte dello stesso venditore della casa. Questa liquidità da utili ammonta a 1.750 milioni di dollari che Fiat versa al fondo previdenziale sindacale. Inoltre Chrysler Group staccherà un dividendo straordinario a tutti i soci che – per la quota spettante a Veba Trust – raggiungerà la cifra di altri 1.900 milioni di dollari. Arriviamo, dunque, alla cifra di 3.650 milioni di dollari che affluiranno nelle casse di Veba Trust.

L’accordo prevede, però, un ulteriore memorandum di intesa con UAW (il sindacato generale americano del settore manifatturiero). Chrysler Group verserà a Veba Trust altri 700 milioni di dollari, in quattro rate annuali, con i quali si raggiunge l’ammontare di 4.350 milioni di dollari nelle casse del fondo sindacale. Attraverso questo esborso aggiuntivo Marchionne vincola, però, il sindacato interno a una fedeltà assoluta alle piattaforme tecnologiche e agli obiettivi di produzione, alla politica del personale, alle strategie economiche sul piano del mercato globale.

Il punto più rivelante appare proprio questo, perché – al di là delle modalità di acquisizione del pacchetto di maggioranza e di chi appartengano veramente i soldi sborsati – quello che viene inaugurato e strutturato nell’accordo è una piattaforma tecnologico-finanziario-sindacale, che sarà la vera nave ammiraglia per la battaglia nelle infestate acque del Mercato mondiale dell’auto.

In termini tecnici l’implementazione produttiva dei lavoratori avverrà tramite il World Class Manufacturing, Wcm, un complesso sistema di organizzazione che prevede piattaforme d’avanguardia e il superamento del modello da catena di montaggio. Inoltre il sindacato generale manifatturiero UAW si impegna a contribuire fattivamente alle “attività di benchmarking collegate all’implementazione di tali programmi in tutti gli stabilimenti Fiat-Chrysler al fine di garantire valutazioni obiettive della performance e la corretta applicazione dei principi del Wcm”.

In questo senso è anche irrilevante se Fiat trasferirà definitivamente la sua sede ufficiale a Detroit o la manterrà a Torino.

Sergio Marchionne
Sergio Marchionne
Anche se Sergio Marchionne e John Elkan, non potranno disfarsi di questi stabilimenti nazionali, per la loro non concreta vendibilità attuale, cercarannno, in maniera sempre più stringente, di diminuirne il peso e di condizionarne la spinosa situazione produttiva-sindacale, attraverso questa nuova configurazione tecno-politica transnazionale senza più confini territoriali. (Beh, buona giornata.)

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“L’assurdo dell’attuale situazione è che tutti parlano dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori e gli unici che non hanno la possibilità di discutere, di decidere e di votare sugli accordi che li riguardano sono proprio le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici.”

Oggi accadrà, di Maurizio Landini*-il manifesto

Quella di oggi sarà una grandissima giornata di lotta in difesa della democrazia, del contratto, dei diritti delle persone e del lavoro.
Abbiamo indetto questa manifestazione dopo l’accordo separato alla Fiat di Pomigliano, aprendo anche un dialogo con chi pensa che il nostro paese abbia bisogno di un cambiamento, che il lavoro deve tornare a essere un elemento centrale, che quello firmato a Pomigliano non può essere il modello, che il contratto nazionale va difeso per tutti e che far votare e decidere le persone è la condizione per ricostruire l’unità.

Con il ricatto che la Fiat ha voluto imporre a Pomigliano (se vuoi lavorare devi rinunciare alla dignità e ai diritti) è partito un attacco ai diritti del lavoro che non ha paragoni per gravità nella storia della nostra Repubblica. Non a caso la Confindustria ha chiesto di estenderlo a tutto il mondo del lavoro. Il contratto nazionale, lo Statuto dei lavoratori, la stessa Costituzione sono in discussione. Il recente accordo separato che prevede si possa derogare al contratto nazionale sempre, perché le deroghe possono essere attuate sia quando l’azienda è in crisi che quando investe per competere sui mercati, porta alla cancellazione del contratto nazionale, alla «guerra» tra imprese e quindi alla contrapposizione tra lavoratori. Questa scelta porta con sé l’idea che di fronte alla globalizzazione non c’è diritto che tenga e che lo sfruttamento e l’impoverimento ne siano conseguenze inevitabili. Un disegno supportato dalle modifiche alle leggi sul lavoro che il governo sta attuando (dall’arbitrato allo statuto dei lavori) alle vicende sui precari della scuola, dal blocco delle elezioni delle Rsu al contratto separato del pubblico impiego.

Quando noi diciamo che «il lavoro è un bene comune» intendiamo dire che il lavoro deve tornare a essere interesse generale di questo paese per dare una prospettiva ai giovani, alle donne, al fatto che non si può essere precari sempre e che la sicurezza del proprio lavoro e del proprio futuro serve anche a far funzionare meglio le imprese. Vuol anche dire porsi il problema di un diverso modello di sviluppo, che guardi alla qualità e all’innovazione dei prodotti e dei processi, alla valorizzazione del lavoro e alla sostenibilità ambientale e sociale.

Quella di oggi è anche una manifestazione per la legalità. L’estensione del sistema criminale in economia non ha precedenti e non riguarda solo il Sud, ma l’intero paese. In particolare, la frantumazione del processo lavorativo e il sistema di appalti e subappalti – purtroppo diventato la regola – permette sempre più all’illegalità di entrare strutturalmente nel sistema economico. Legalità per noi significa difesa del lavoro, la sua riunificazione e quella del processo produttivo, l’estensione dei diritti, l’applicazione della Costituzione come elementi non solo formali ma come valori che determinano la condizione di un cambiamento. Ed è in questo quadro che la libertà di informazione è elemento irrinunciabile non solo per la Fiom, ma per tutto il paese.

L’assurdo dell’attuale situazione è che tutti parlano dei problemi delle lavoratrici e dei lavoratori e gli unici che non hanno la possibilità di discutere, di decidere e di votare sugli accordi che li riguardano sono proprio le lavoratrici e i lavoratori metalmeccanici. Non a caso abbiamo presentato una legge di iniziativa popolare che chiede diventi un diritto il fatto che tutti gli accordi a qualsiasi livello – aziendale, nazionale, interconfederale – per essere validi debbano essere approvati dalla maggioranza delle persone coinvolte. Gli eventi di questi mesi indicano che questo è il tema decisivo per poter ricostruire un’azione unitaria; senza democrazia, cioè senza la possibilità per le lavoratrici e i lavoratori di poter decidere anche quando ci sono punti di vista diversi fra sindacati, non solo si mantiene una divisione, ma fa sì che siano le imprese a decidere di volta in volta con chi fare gli accordi, sulla base delle proprie convenienze.

Oggi siamo in piazza con tutti coloro che condividono e che difendono questi principi e questi valori. Questa grande giornata di lotta non è un punto di arrivo, perché una mobilitazione generale è assolutamente necessaria.
*segretario generale della Fiom
(Beh, buona giornata)

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