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Mentre l’Italia teme gli immigrati, ecco un breve racconto, scritto da un giovane italiano, appena emigrato in Francia.

C’erano un tedesco, un russo e un italiano…, un racconto di Mattia D’Alessandro.

Sono pronto. Sono qui, pronto a versare quattro gocce d’inchiostro per dichiarare la scomparsa della star. Oggi fanno quattro mesi che non si fa più viva. Da quando la mia famiglia è esplosa in mille pezzi. E come se aspettasse il momento peggiore per sparire. La star non è più venuta a trovarmi, neanche nei sogni.
L’Italia ha appena perso contro la Francia dei galli da rugby. Sono quasi felice di non sapere neanche le regole del rugby. Mia moglie ha chiesto il divorzio, meta. L’ha ottenuto, meta. I miei due concetti più importanti resteranno con lei. Buio.
Sono tornato da poco dalla fabbrica. Mi occupo di tappi. Tappi di plastica.
Sono partito in Gennaio. Un amico mi ha dato il suo numero dicendomi che cercavano un addetto alle macchine. Non mi sono neanche chiesto a cosa servissero. Duemilacentodue chilometri per continuare a respirare. E’ strano. E’ tutto troppo strano. Ho ripreso a guadagnare, ma mi manca il respiro. Avevo una casa, una famiglia e un incubo. Ora ho un lavoro, un amico immaginario e il fegato scheggiato.
Non riesco più a piangere. Me ne sono accorto l’altra sera. Mangiavo tranquillo, quando d’un tratto una medusa mi ha punto lo stomaco. Ho impiegato due ora per ripulire la cucina. Sentivo di voler piangere, ma era come se avessi bottoni al posto degli occhi. Erano duri e aridi. Siccità emozionale. Non piango, non rido, ma penso. Poi la stanchezza mi scaraventa sul letto, a volte senza nemmeno spogliarmi e mi lascia immobile per quasi quattro ore.
Piove, qui piove sempre. Sono partito per sviluppare i miei due concetti, non li vedo più. Sono robot. Vivo meccanicamente cercando di limitare l’umanità. La notte non riesco più a sognare, sono robot. In fabbrica ho due colleghi simpaticissimi. A volte mi fanno incazzare. Uno è tedesco e pesa quindici tonnellate, si chiama ZK99. L’altro è russo. Molto più magro, ma estremamente sensibile. Si chiama EEE001. Lavoro con loro tutti i giorni, a volte anche di domenica. Ultimamente il russo si ribella un po’ troppo. Il tedesco fa un gran trambusto, poi di colpo si spegne. Tutte le volte mi tocca leggergli le favole, solo che in questo caso le favole servono a farlo ripartire. Sono favole lunghe, anche di milleduecento pagine. Passo le mie ore a verificare che vadano d’accordo, e devo ammettere che sono pochi i momenti di tranquillità.
Penso spesso alla star, a come si è manifestata nella mia vita e a come l’ ha deformata. Il mio contratto scada tra un mese, mi hanno comunicato che non lo rinnoveranno. Mia moglie ha bisogno di denaro, sempre, costantemente. Ho quasi paura nel sentirla, la sera. Ho la sensazione che tornerò a sognare, per ora, ho ripreso a fumare.
(potrebbe continuare…) (Beh, buona giornata).

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Questo è un breve racconto di un giovane italiano che sta per lasciare il Paese per andare a cercare fortuna all’Estero. Siamo nel 2009, ma l’ingiustizia continua.

LI’ DOVE VOLANO GLI AVVOLTOI, una short story di Mattia D’Alessandro.

Rientrai a casa, feci il caffè. Il caffè riporta sempre l’equilibrio. La star del momento mi aveva divorato con la sua rinomata voracità. Tutti me ne avevano parlato, ma io non ci credevo. Ora ero nel suo ventre molle. Ogni volta che mi addormentavo, da quel lunedì di ottobre, sognavo me stesso chiuso in quella placenta aliena. Era il suo ventre ed io lo sapevo. Chiudevo gli occhi ed ero nel grembo della più grossa sgualdrina che il genere disumano abbia mai conosciuto. Gennaro e Luca erano a scuola e non sarebbero rincasati prima delle due. Il caffè, come al solito, non ebbe i suoi classici effetti. Sprofondai nel divano.

La mia postura nel grembo della star era molto diversa da quella fetale. Mi aveva ingoiato del basso. Era come essere chiusi in un sacco a pelo di tessuto organico.

Ero disteso su una striscia di asfalto bollente ed infinita. Intorno prati sterminati. Sintetici di nuova generazione. Sopra di me, un cielo di piombo. Enormi avvoltoi teste di manager volavano in cerchio sopra il mio corpo immobile. La sentivo gracchiare risate e sputare sentenze. Evitavo il loro sguardo. La particolare caratteristica dell’avvoltoio testa di manager è la sua aggressività. E’ l’unico volatile aziendale che attacca anche solo per dimostrare il proprio valore all’interno del branconsiglio di amministrazione. Iniziò a nevicare. Palle di carta. Le classiche con cui si fa canestro in ufficio. Nevicò con un’intensità tale, che in dieci minuti ero ricoperto di palle. Quei maledetti avvoltoi sembrava ridessero di me. Non lo capii mai.

Provai a prenderne una. Era difficile nel mio essere immobile. Ne agganciai una con la mano sinistra. La scartocciai nella mano e alzando leggermente il capo, riuscii a leggere qualcosa. Era una cambiale. Ero sommerso dai pericolosissimi “ pagamenti perenni”. Cambiali, mutui, rate di qualsiasi genere e altre mille ancora. Iniziai a sentire freddo. Troppo freddo. Meglio svegliarsi.

Avevo sognato quasi due ore. Preparai il pranzo. Mia moglie mi chiamò. Le parlai della star. Parlammo tanto. Il sugo bruciò. I bambini tornarono. Tutti in trattoria, che gli ultimi spiccioli si porta via.( potrebbe continuare…)
(Beh buona giornata).

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L’Italia del 2009, il Paese che guarda la tv, non si accorge della crescente disoccupazione, e non dà lavoro ai giovani talenti.

Ho sognato la star del momento, un racconto di MATTIA D’ALESSANDRO
Esasperati ed esasperanti colpi di tosse. Fu così che mi svegliai. Note poco note di bassi baritonali. Ero perfino riuscito a creare una melodia nella mia mente. A colpi di polmone. Fuori non si vedeva, ma sembrava il solito lunedì d’ottobre. Scesi dal letto, la mia spina dorsale si drizzò. Una sensazione mai sentita prima. La parrucca della zia Ester galleggiava su un mare di inchiostro. Tutto galleggiava su un mare di inchiostro. Poi qualcosa mi azzannò la caviglia. Svenni.

Al mio risveglio ero ancora nella stanza piena d’inchiostro. Mi affacciai dal letto per vedere a terra, tutto era stato pulito. Sui muri ancora i segni di quel mare nero. Cos’era stato? Di colpo ricordai del morso alla caviglia. Scalciai le coperte per vedere i segni. Quello che apparve da sotto le coperte era ed è ancora difficile a narrarsi. Un colpo di vento spalancò le finestre. Poi qualcosa di vivo mi avvolse e con me, tutta la casa. Non riuscii più a guardarmi le caviglie. L’aria era satura di polvere. Feci appena in tempo a rannicchiarmi sotto le coperte. Mi addormentai.

Rimasi un tempo infinito tra sonno e sogno. Continuavo a vedere le mie caviglie. Un mostro, mai visto prima, stava mordendole. Anzi peggio. Iniziava ad ingoiarmi, ma con lentezza. La sensazione era quasi piacevole, ogni tanto però, il mostruoso essere scaricava delle piccole dosi di elettricità sulle mie carni. Ero rapito da quella cosa. Non mi sarei mai più svegliato.

Salutai i miei piccoli, uno sguardo sfuggente alla foto di mia moglie. Entrai in macchina.

Temperatura interna: meno cinque gradi centigradi. Avvertii ancora un leggero mal di testa fino all’arrivo in azienda. Il posto auto, interno. Cancello automatizzato. Schiacciai il pulsante per l’apertura, nulla.

Dall’altro ingresso, grida e schiamazzi. Scesi dall’auto, mi avvicinai, nel gelo. Un cordone di polizia piantonava l’ingresso. I colleghi erano disperati. Alcuni cercavano di sfondare il cordone. Volò qualche manganellata.

Rientrai in macchina e tornai a casa. Mentre guidavo mi tornò in mente il mostro del sogno. Mi aveva già divorato, ero disoccupato.
Potrebbe continuare…
(Beh, buona giornata)

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