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La crisi economica uccide il lavoro: “Mi sembra un piccolo mondo antico ancorato al ‘900”, disse il Ministro della disoccupazione.

Cgil torna in piazza a Roma, Epifani: “Licenziamenti a valanga”-repubblica.it
Maurizio Sacconi, ministro del welfare: “Mi sembra un piccolo mondo antico ancorato al ‘900”

ROMA – La Cgil torna in piazza a Roma contro il governo, da cui esige risposte su lavoro e crisi. La manifestazione nazionale è stata indetta per sottolineare che il peggio della crisi non è affatto alle nostre spalle e che la ripresa sarà lunga e difficile. A sfilare a fianco dei lavoratori della Cgil anche Italia dei Valori, Partito democratico e studenti universitari. Il corteo, partito nel primo pomeriggio da piazza della Repubblica, si è concluso in piazza del Popolo con un intervento del segretario generale Guglielmo Epifani.

“E’ una piazza straordinaria, grazie a tutti voi che siete qui: queste luci vive permettono anche a chi voleva oscurare le nostre ragioni di vederci chiaro e trasparente”: con queste parole il leader della Cgil Guglielmo Epifani ha aperto il suo intervento dal palco di piazza del Popolo.

“Chiediamo che il governo cambi registro per affrontare i nodi della crisi” ha detto il leader della Cgil Epifani, sintetizzando lo spirito del corteo di protesta. “Questa è una manifestazione che vuole chiedere al governo cose precise perchè gli effetti più negativi della crisi arriveranno nelle prossime settimane e investiranno l’occupazione”, ha aggiunto. “La crisi avrà gli effetti più negativi sull’occupazione nelle prossime settimane” ha detto ancora il segretario della Cgil, sottolineando come “il governo non stia facendo nulla per sostenere il lavoro e i pensionati”.

“In un anno sono stati persi, bruciati, 570 mila posti di lavoro di cui 300 mila di precari: una media di 50 mila posti in meno al mese. Questo il consuntivo di un anno da quando la Cgil lanciò l’allarme valanga disoccupazione”, ha denunciato ancora Epifani. “La valanga che avevamo previsto – ha aggiunto Epifani – non ha più neanche la ciambella di salvataggio della cassa integrazione, ma è fatto di mobilità, ristrutturazioni, chiusure e licenziamenti a valanga e ancora di altri precari senza tutela”.

Sull’analisi mostra di concordare il segretario del Pd Luigi Bersani, che nel messaggio inviato a Epifani invoca “una svolta nella politica economica del governo”. “La vera exit strategy a cui dobbiamo dare priorità oggi è la exit strategy dalla disoccupazione di lunga durata e dalla stagnazione dei redditi da lavoro – ha scritto Bersani – Il governo ha perso 18 mesi preziosissimi, ha lasciato impoverire il nostro migliore capitale sociale e la nostra più innovativa capacità produttiva faticosamente irrobustita negli ultimi anni”.

Critico invece il ministro del Welfare Maurizio Sacconi: “Mi sembra un piccolo mondo antico che rappresenta un pezzo del Paese, ma rimane ancorato al ‘900 e alle sue ideologie”. Sacconi ha sottolineato tra la Cgil e gli altri sindacati confederali: “Una manifestazione fatta da soli, esaltando in questo modo la separatezza dalle altre organizzazioni sindacali”.

Secondo gli organizzatori al termine della manifestazione c’erano 100.000 lavoratori provenienti da tutta Italia. Ad aprire il corteo uno striscione con la scritta “Il lavoro e la crisi: esigiamo le risposte”. Tante le bandiere della Cgil, della pace, ma anche di partiti della sinistra come il Pd, l’Idv, dei Comunisti Italiani e grossi palloni colorati con la scritta Flc-Cgil.

Nel corteo anche gli striscioni delle aziende in crisi come l’Eutelia: “Eutelia: come arricchire i padroni depredando i lavoratori. Landi, dove sono finiti i soldi e gli immobili di Getronics e Bull?”. I lavoratori hanno raggiunto la capitale con 3 treni e oltre 750 pullman. Tra i partecipanti anche esponenti politici nazionali come Oliviero Diliberto, Antonio Di Pietro, Paolo Ferrero. In testa alla manifestazione la segretaria nazionale della Cgil Susanna Camusso e il segretario regionale del Lazio Claudio Di Berardino.

La Cgil ha deciso di scendere in piazza senza Cisl e Uil, come ha spiegato ieri Guglielmo Epifani rispondendo alle domande di RepubblicaTv. “Non siamo stati in condizione di fare una manifestazione unitaria sui temi della crisi” ha spiegato il leader della Cgil. “Questo ci è riuscito solo a livello locale, non nazionale. Sarebbe stato meglio farla insieme. Un’iniziativa comune peserebbe di più e i lavoratori, in questo momento, hanno bisogno di tutto il sindacato. Comunque, per riportare al centro i problemi di chi perde il posto, meglio soli che niente”. Da piazza del Popolo Epifani ha lanciato tuttavia un appello a Cisl e Uil: “Mando a dire a Cisl e Uil che se si volesse fare lo sciopero generale sul fisco la Cgil ovviamente è pronta ed è in prima fila”.

Con la Cgil sono centinaia, fa sapere l’Unione degli universitari, gli studenti in piazza, all’indomani del primo ok del Senato a una legge finanziaria fortemente contestata anche sui risvolti per ricerca e istruzione. Riguardo alla scomparsa dei fondi destinati ai giovani ricercatori dell’università, il leader della Cgil ha detto “è una finanziaria che non dà nulla al lavoro, agli investimenti e al Mezzogiorno e non c’è soluzione neanche per i precari dell’università”. “Manca la promessa di stabilizzare i giovani ricercatori precari”, ha spiegato il segretario generale della Cgil, aggiungendo: “gli interventi del governo vanno contro il mondo del lavoro”.

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Finanza - Economia - Lavoro Media e tecnologia Pubblicità e mass media

La quarta crisi: altri 100 giornalisti mandati a casa dal New York Times.

Crisi editoria: Il New York Times licenzia altri 100 giornalisti-blitzquotidiano.it
La crisi dell’editoria fa ancora sentire la sua morsa negli Usa: il New York Times, infatti, si appresta a licenziare altri 100 giornalisti (l’8% del totale) entro la fine dell’anno dopo gli 80 posti di lavoro tagliati lo scorso anno.

Lo ha reso noto la proprietà specificando che giovedì 22 ottobre offrirà un pacchetto di incentivi all’esodo a tutta la redazione. I giornalisti avranno 45 giorni per decidere.

Ma se almeno 100 redattori non accetteranno l’offerta a quel punto sarà la direzione a scegliere chi dovrà lasciare il giornale, ha spiegato il direttore Bill Keller, auspicando che cio «non accada anche se potrebbe».

Già lo scorso anno il Nyt aveva ridotto la newsroom da 1.330 giornalisti a 1,250, oltre ad aver ridotto i compensi del 5% a tutti i dipendenti. La “Grey old lady”, come tutti i quotidiani statunitensi, ha subito forti cali di vendite delle copie cartacee e di raccolta pubblicitaria danneggiata dal suo stesso sito web che è completamente gratuito.

Per far fronte alle perdite il New York Times era stato costretto a ricorrere misure d’emergenza tra cui vendere il nuovo grattacielo di Renzo Piano, dove si erano trasferiti nel 2007 e chiedere in prestito 250 milioni di dollari al tasso del 14% dal magnate messicano Carlos Slim. (Beh, buona giornata).

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Media e tecnologia Pubblicità e mass media

Le agenzie di pubblicità italiane stanno uccidendo i giovani.

In Europa 45 milioni di cittadini sono colpiti da stress legato al lavoro, secondo un rapporto Cesi. E il numero dei ‘sofferenti da lavoro’ è in forte aumento. I dati sono stati riferiti dal segretario
generale della Cesi, Helmut Mullers che ha riferito, inoltre, che 50-55 milioni di lavoratori europei presentano problemi muscolo-scheletrici e 5 milioni soffrono di infiammazioni legate
all’attività di lavoro.

E’ una magra consolazione per chi ha perso il lavoro per colpa della crisi: secondo dati ufficiali, nel 2009 la disoccupazione in Europa si avvicina al 9,5%, in Italia al 7,9%, che in soldoni vuol dire circa 400 mila persone.

Adesso il problema è: dal momento che la pubblicità italiana ha dato il suo contributo alla disoccupazione, non solo licenziando dipendenti, ma anche cancellando stagisti e abbattendo i costi dei free lance, è meglio essere ‘sofferenti da lavoro’ o incazzati da disoccupazione? E’ meglio soffrire di disturbi ‘muscolo-scheletrici’ seduti a una scrivania in Agenzia o di rotazione accelerata testicolare (o ovarica) mentre si inviano curricula invano?

Mentre cinque milioni di europei soffrono di infiammazioni legate all’attività lavorativa, la domanda è: quanti sono i giovani pubblicitari italiani ‘bruciati’ dalla crisi delle Agenzie in Italia? La risposta è: si saving chi può. Beh, buona giornata.

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Attualità Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

Tra feste, donnine, polemiche ed episodi imbarrazzanti, il Paese sta andando a picco.

L’occupazione in Italia cala per la prima volta dopo 14 anni. Lo sottolinea l’Istat precisando che tra gennaio e marzo 2009 gli occupati sono diminuiti di 204 mila unità, pari allo 0,9% rispetto allo stesso periodo del 2008. Ed è il Mezzogiorno a perdere la maggior parte dei posti: 114 mila. Su base annua, il tasso di disoccupazione è pari a quasi l’8% (il 7,9% per la precisione), il più alto dal 2005. In cifre assolute, sono quasi due milioni le persone in cerca di occupazione. Cala l’occupazione di 426 mila italiani, aumenta tra le comunità straniere: rispetto a tre mesi fa, hanno trovato lavoro altri 222 mila stranieri.

L’offerta di lavoro è stabile per gli uomini, registra una leggerissimo aumento tra le donne, lo 0,2%. Su quasi 60 milioni di italiani, lavorano in 23 milioni; arrotondando, significa che ogni 3 italiani, solo uno lavora.

I dati, spiega l’Istituto di statistica, trovano ragione nella caduta dell’occupazione autonoma delle piccole imprese, dell’occupazione a termine e nella riduzione del numero dei collaboratori. Beh, buona giornata.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Società e costume

La crisi e gli italiani: e pensare che la pubblicità diceva che la vita comincia a 50 anni.

La crisi ha colpito anche le categorie di lavoratori che sembravano più garantite
Dal 1995 per la prima volta la crescita dei senza lavoro supera quella degli occupati
Maschio, sposato, di mezza età
Per l’Istat è il “nuovo disoccupato”
Dal Rapporto Annuale emerge anche una maggiore vulnerabilità degli immigrati
Un milione e mezzo di famiglie ha gravi difficoltà per il cibo, i vestiti e il riscaldamento
di ROSARIA AMATO-repubblica.it

Aumentati nel 2008 i disoccupati maschi tra i 35 e i 54 anni

ROMA – Tra i 35 e i 54 anni, maschio, residente al Centro-Nord, con un livello di istruzione non superiore alla licenza secondaria, coniugato o convivente, ex titolare di un contratto a tempo indeterminato nell’industria. E’ il “nuovo disoccupato”, secondo la descrizione che ne fa il Rapporto Annuale dell’Istat. Perché la crisi non ha prodotto solo disoccupati ‘di lusso’ come i manager, non si è accanita solo sulle categorie da sempre in Italia ai margini del mercato del lavoro: i meridionali, i giovani, i precari, le donne. La novità della crisi è che a perdere il lavoro sono “i padri di famiglia”, le figure di riferimento, che magari portavano a casa stipendi mediocri, ma tali comunque da permettere ad altre persone (moglie, convivente, figli o altri parenti) di condurre un’esistenza dignitosa.

Più disoccupati anche tra gli stranieri. La crisi non ha risparmiato neanche gli stranieri, e anche in questo caso, i più colpiti sono stati gli uomini di età media: “L’andamento dell’ultimo anno – si legge nel Rapporto – segnala un forte calo delle donne disoccupate con responsabilità familiari, soprattutto di quelle con figli, arrivate a incidere non più del 70 per cento a fronte del 78 per cento di tre anni prima. Al contrario, gli effetti della crisi sembrano aver investito i loro coniugi/conviventi uomini, la cui incidenza è invece aumentata in maniera significativa, specie negli ultimi tre trimestri”.

Va peggio alla fascia 40-49 anni. Tanto che nel quarto trimestre del 2008 la quota dei disoccupati stranieri arriva a superare il 10 per cento del totale dei senza lavoro, contro il 6,1 per cento del primo trimestre del 2005. “In particolare – rileva l’Istat – gli stranieri tra i 40 e i 49 anni accusano più degli altri gli effetti della fase recessiva, e spiegano circa il 50 per cento dell’incremento della disoccupazione maschile”.

Il deterioramento del mercato. Dunque i due fenomeni sono collegati. I maschi adulti con carichi familiari, italiani o stranieri, sono diventati i più vulnerabili in una situazione di generale peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro: infatti nel 2008, per la prima volta dal 1995, la crescita degli occupati (183.000 unità) è inferiore a quella dei disoccupati (186.000 unità).

La disoccupazione si fa adulta. Perdono il lavoro i titolari di un contratto a termine, o atipico. Ma vengono licenziati anche i titolari di un contratto a tempo indeterminato ( 32 per cento nel 2008). In dettaglio, questa l’analisi dell’Istat: “Un disoccupato su quattro ha un’età compresa tra i 35 e i 44 anni, mentre l’aumento delle persone tra 35 e 54 anni spiega quasi i due terzi dell’incremento totale della disoccupazione. Si è passati nel tempo da una disoccupazione da inserimento, essenzialmente concentrata nei giovani con meno di 30 anni fino alla metà degli anni Novanta, a una sempre più adulta. Nel corso del 2008 questa tendenza ha accelerato”.

Più ‘padri’ atipici o precari. La crisi ha colpito di più le famiglie con figli, a loro volta vittime di un mercato del lavoro che più che mai li respinge (il tasso di occupazione dei ‘figli’, pari al 42,9 per cento, nel 2008 è sceso di sette decimi di punto rispetto al 2007). E allora, accanto alla disoccupazione dei ‘padri’, si registra un peggioramento del tipo di lavoro. “Tra il 2007 e il 2008 i padri con un’occupazione part time, a termine o con una collaborazione sono 17.000 in più; quelli con un’occupazione ‘standard’ 107.000 in meno”: cioè tra i tanti che vengono licenziati, qualcuno riesce a riciclarsi con un lavoro precario. Tra padri e figli, i più colpiti sono quelli meno istruiti, che al massimo hanno un diploma di scuola media superiore.

Le famiglie che non arrivano a fine mese. La diminuzione o il venir meno dei redditi da lavoro produce povertà. L’Istat individua circa un milione e 500.000 famiglie (il 6,3 per cento del totale) che arrivano alla fine del mese “con grande difficoltà” e che, nell’81,1 per cento dei casi, dichiarano di non essere in grado di affrontare una spesa imprevista di 700 euro. In questo gruppo ci sono le famiglie indietro con il pagamento delle bollette, che non possono permettersi di riscaldare adeguatamente l’abitazione (45,8 per cento). Hanno difficoltà ad acquistare vestiti (62,9 per cento) o ad affrontare le spese per malattie (46,6 per cento). In genere le famiglie di questo gruppo contano su un unico percettore di reddito con un livello di istruzione non superiore alla licenza media, di età inferiore ai 45 anni. Ci sono poi 1,3 milioni di famiglie che hanno difficoltà leggermente inferiori, ma che spesso, a causa dei redditi bassi (nella maggior parte dei casi possono contare su un unico percettore di reddito che ha la licenza media inferiore), hanno difficoltà nei pagamenti, nell’acquisto di alimenti e vestiti, e anche nel riscaldamento della casa.

Le famiglie ‘agiate’ sono 10 milioni. All’altro estremo si collocano le famiglie agiate: 1,5 milioni che arrivano alla fine del mese “con facilità o con molta facilità”, 8,6 milioni che lamentano solo qualche difficoltà sporadica, “imputabile più allo stile di consumo che a vincoli di bilancio stringenti”. Abitano soprattutto al Nord, con una prevalenza di residenti in Trentino Alto Adige e in Valle d’Aosta.

Le famiglie con difficoltà relative. Al centro si collocano le famiglie che non hanno difficoltà economiche eccessive, ma che non risparmiano (spesso si tratta di anziani); le famiglie giovani gravate da un mutuo per la casa, che assorbe una parte più che consistente del reddito disponibile; e infine le famiglie cosiddette ‘vulnerabili’. Si tratta di 2,5 milioni di famiglie, il 10,4 per cento del totale: sono a basso reddito, una parte ha una casa di proprietà, una parte vive in affitto. La loro vulnerabilità è data dal fatto che contano su un solo percettore di reddito, che nel 41,4 per cento dei casi ha preso soltanto la licenza elementare. (Beh, buona giornata).

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Leggi e diritto

“In Francia gli operai sequestrano i manager, in Italia tre manager hanno sequestrato la vita di 20.000 lavoratori Alitalia.”

dal comunicato stampa di Segreteria Nazionale SdL Intercategoriale – Trasporto Aereo

Le notizie che cominciano a trapelare dalla stampa rispetto alle indagini della Procura della Repubblica sulle responsabilità dei precedenti Amministratori Delegati di Alitalia, Mengozzi, Zanichelli e Cimoli sul crack Alitalia, riaccendono finalmente la luce sulle vere cause che hanno rovinato il lavoro di 20.000 persone dipendenti dell’ex- Compagnia di Bandiera.
Altro che i privilegi delle maestranze, triste strumentalizzazione che abbiamo dovuto subire durante l’ultima vertenza: il disastro che ha depauperato un patrimonio industriale, professionale e umano dell’intero Gruppo Alitalia ha avuto ben altre origini.

Dobbiamo dire che tutta la serie impressionante di valutazioni negative e di pubbliche denuncie fatte dalla nostra Organizzazione Sindacale rispetto alla gestione di Alitalia durante il periodo di che va dal 2001 al Commissariamento del 2009, non solo non hanno trovato il dovuto ascolto, ma hanno addirittura provocato la reazione degli stessi dirigenti in termini di discriminazione ed emarginazione sindacale di SdL.

Alla fine, il conto è stato lasciato sulle spalle dei lavoratori e dell’intera collettività.
E’ compito della magistratura fare le indagini e determinare le possibili responsabilità, ma fin d’ora annunciamo che SdL si costituirà parte civile nell’eventuale processo che si venisse a determinare nel caso fossero confermate le prime indiscrezioni.

Ciò non lenisce i problemi che assunti in CAI, cassaintegrati e precari stanno vivendo sulla loro pelle a causa del fallimento di Alitalia, ma l’individuazione delle vere responsabilità di chi ha guidato l’Azienda, percependo tra l’altro lauti stipendi, potrebbe evidenziare ulteriormente l’iniquità dell’intero processo subito da 20.000 persone, oltre a rappresentare un atto di dovuta chiarezza e giustizia verso l’intera Nazione. (Beh, buona giornata).
14 maggio 2009

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro

La solitudine dei manager.

Assedio al manager
di Stefano Livadiotti e Maurizio Maggi-da l’Espresso.
Additati come causa di ogni male dai dipendenti. Usati come capri espiatori dagli azionisti. In pochi mesi hanno perso stipendi, potere e status. Radiografia dei dirigenti ai tempi della recessione Josef AckermannEbbene sì, “sono un manager. Uno di quei mostri sbattuti in prima pagina come incapaci, incompetenti e dediti al facile guadagno… Per colpa di qualche approfittatore, devo sentirmi annoverato tra la feccia di questa società. No, non ci sto”. La lettera, pubblicata il 31 marzo nella rubrica della posta su ‘La Stampa’, fotografa alla perfezione lo stato d’animo prevalente nel mondo dei dirigenti d’azienda italiani.

Additati da una parte crescente dell’opinione pubblica come una casta di intoccabili che provoca le crisi e non ne paga le conseguenze, inchiodati a responsabilità spesso non riconducibili a loro, i manager oggi appaiono allo sbando.

Il fatto è che si sentono tra l’incudine e il martello. Sanno di non poter contare sulla difesa dei vertici aziendali, cinicamente pronti a far di loro un capro espiatorio. Mentre dal basso, dalla platea operaia e impiegatizia chiamata a tirare la cinghia, vedono salire la marea di quanti chiedono che anche i ricchi piangano, come diceva uno sciagurato slogan elettorale della sinistra antagonista. Così, sempre più spesso, un po’ per tacitare la protesta e un po’ per tenersi stretta la scrivania, accettano di tagliarsi stipendi, bonus e fringe benefit.

La crisi è arrivata fino a loro scendendo per i rami. Da principio furono gli Stati Uniti. Secondo il ‘Wall Street Journal’, nel 2008 le retribuzioni complessive dei Ceo delle prime 200 società americane hanno lasciato sul campo il 3,4 per cento. Ma è stato solo un assaggio, rispetto a quello che accadrà quest’anno. L’indignazione popolare per i 165 milioni di dollari di premi concessi ai dipendenti del colosso assicurativo Aig ha spinto il governo a vietare i bonus e fissare un tetto ai premi in azioni per i dirigenti di società che hanno ricevuto aiuti federali. E un sondaggio condotto dalla società di consulenza Watson Wyatt Worldwide tra 145 grandi imprese dice che il 33 per cento intende ridurre gli incentivi di lungo termine. L’entità media dei tagli in cantiere è del 35 per cento. Alla Goldman Sachs i dirigenti si sono visti imporre un tetto di 20 dollari per la fattura dei ristoranti e il diritto a farsi riportare a casa dalla limousine aziendale è stato limitato a chi si ferma in ufficio fino alle 10 di sera. Gli avvocati del celebre studio legale Liner Yankelevitz Sunshine & Regenstreif di Los Angeles hanno perso, invece, il benefit del massaggio shiatsu.

Sulla scia degli Stati Uniti, è poi toccata ai top manager europei. Josef Ackermann, il numero uno della Deutsche Bank che con i suoi quasi 20 milioni era stato a lungo il banchiere più pagato, l’anno scorso s’è dovuto accontentare di un milione e 400 mila euro. In Italia, l’amministratore delegato di Unicredit, Alessandro Profumo, ha annunciato la sua rinuncia alla parte variabile dello stipendio. Luca Cordero di Montezemolo e Sergio Marchionne, presidente e amministratore delegato della Fiat, si sono dimezzati i compensi per il 2008. Come, del resto, ha fatto Dieter Zetsche della Daimler.

Il fuoco sulle seconde e terze linee è iniziato in Francia, con il sequestro dei dirigenti delle aziende in crisi da parte delle maestranze. Finora in Italia, per fortuna, significativi episodi di ‘bossnapping’ non si sono visti. Ma la polemica s’è immediatamente incendiata davanti alle tesi giustificazioniste di alcuni esponenti sindacali, come i leader dei metalmeccanici Gianni Rinaldini e Giorgio Cremaschi. Il numero uno della Cisl, Raffaele Bonanni, ha accusato il suo pari grado della Cgil di soffiare sul fuoco. Guglielmo Epifani gli ha risposto per le rime. E ‘l’Unità’, passando in rassegna la casistica francese, è arrivata a scrivere: “Almeno finora, sequestrare paga”. Se è per questo, anche rapinare le banche.

“C’è una ricerca del colpevole rispetto a un gioco in cui sono tutti collusi”, dice Marco Ghetti, professore all’università confindustriale Luiss (il suo corso di chiama ‘Leadership for change’). Il risultato è che oggi i 120 mila manager privati italiani, gente che guadagna in media 103 mila e 424 euro lordi l’anno, sono sul chi vive. Secondo una ricerca di Manageritalia, che ne associa 23 mila sparsi in 8 mila e 700 aziende, il 57,3 per cento è preoccupato. Il 10,4 per cento teme per la propria incolumità sul luogo di lavoro e il 13,7 non si sente sicuro neanche fuori dall’ufficio. Oltre la metà di loro (il 50,7 per cento) ritiene possibile un ritorno del terrorismo e nove su cento pensano che i principali responsabili della caccia al manager siano i media. “Il bossnapping è un fenomeno che preoccupa, perché potrebbe aprire la strada a comportamenti ben più pericolosi”, dice Claudio Pasini, presidente di Manageritalia. “Le paure dei manager”, aggiunge Paolo Legrenzi, ordinario di psicologia cognitiva a Venezia, “non rappresentano un sentimento inventato, ma risultano quanto mai attuali e giustificate: dal privilegio siamo passati alla berlina, alla gogna”. E alla stretta economica.Una indagine ancora fresca di inchiostro del Gidp (Gruppo intersettoriale direttori del personale) rivela che il 31,5 per cento dei responsabili delle risorse umane ha ricevuto dal vertice dell’azienda un input a ridurre la parte variabile della retribuzione di direttori e dirigenti. Uno su tre ha già impugnato le forbici, tagliando i bonus di oltre il 20 per cento. Uno su quattro c’è andato con la mano più leggera, ma ha comunque limato i premi tra il 15 e il 20 per cento. Loro hanno fatto buon viso a cattiva sorte: solo il 17 per cento ha abbozzato una qualche forma di resistenza.

Secondo Federmanager, nel 2008 sono stati licenziati 5 mila dirigenti e a fine 2009 i disoccupati saranno tra gli 8 e i 9 mila. E per chi resta a spasso sono dolori. Gli ultrancinquantenni hanno un sussidio di 1.500 euro lordi per 12 mesi, che si riducono a otto per i più giovani. E le statistiche dicono che a un anno dalla perdita della poltrona quelli che ne trovano un’altra sono l’82,1 per cento, ma il 69,7 si deve accontentare di un inquadramento inferiore al precedente, o addirittura precario. “La vita si è fatta assai più dura per i dirigenti, alcuni dei quali stanno cedendo sotto i colpi della crisi”, ha scritto il sociologo Enrico Finzi. Il caso del colosso Telecom la dice lunga: più spesso di prima i dirigenti, pur di non perdere il posto, accettano il declassamento. Un fenomeno ancora insignificante dal punto di vista numerico, ma comunque in crescita rispetto al passato.

I casi di aziende che chiedono ai loro dirigenti di seconda o terza linea di ridursi gli stipendi sono sempre più frequenti. Una delle prime è stata la Ducati. A febbraio, il presidente e amministratore delegato della cassa motociclistica di Borgo Panigale, Gabriele Del Torchio, ha fatto saltare il 10 per cento della retribuzione fissa dei 36 dirigenti, che hanno perso pure il bonus. Austerità anche per chi segue la squadra corse in giro per il mondo: si dorme in camere doppie e addio ai biglietti di business class in aereo. Ma la Ducati ha solo aperto una strada. Seguita poi da molti altri. Alla filiale di Avezzano della multinazionale americanaMicron Technology, specializzata in sensori di immagini per i telefonini, la crisi s’è mangiata il 60 per cento del giro d’affari. Negli stabilimenti degli Stati Uniti hanno tagliato del 5 per cento gli stipendi di tutti: operai, impiegati, quadri e dirigenti. In Italia, dove questo non è possibile, è scattata la cassa integrazione per 1.400 dipendenti su 2 mila.

Il direttore generale, Sergio Galbiati, s’è ridotto il compenso a 800 euro, tanto quanto prende un cassintegrato. Ai 60 dirigenti è stato proposto un taglio del 30 per cento. Hanno accettato tutti, senza fiatare. Come alla Indesit, il colosso degli elettrodomestici di Vittorio Merloni che fattura 3,2 miliardi, ma è alle prese con un calo delle vendite del 15 per cento. Tremilacinquecento operai sono finiti in cassa integrazione, subendo un taglio della busta paga del 10 per cento. L’amministratore delegato, Marco Milani, ha chiesto agli 80 dirigenti italiani e ai 40 sparsi in Europa di accettare una riduzione dei compensi del 7 per cento e si è tagliato il suo del 10 per cento.

Stessa storia alla Elica di Fabriano, leader mondiale nelle cappe per cucine, con 400 milioni di giro d’affari e 5 milioni di pezzi venduti in tutto il mondo. Nell’ultimo trimestre il business ha fatto segnare un calo del 20 per cento e 100 operai e 50 impiegati sono finiti in cassa integrazione. Il presidente, il senatore forzista Francesco Casoli, ha convocato i suoi 80 manager, ha annunciato che si sarebbe autoridotto la retribuzione del 30 per cento e chiesto loro di rinunciare al bonus, che vale tra il 10 e il 30 per cento del trattamento economico complessivo. Alla Wurth, 3.500 dipendenti che fatturano 450 milioni commercializzando bulloni, i dirigenti hanno accettato invece un taglio del 9 per cento della retribuzione fissa, lo stesso imposto agli operai dai contratti di solidarietà. Come alla Telit, la società di telecomunicazioni romana quotata a Londra, dove i 30 dirigenti hanno accettato di sacrificare il 10 per cento della retribuzione fissa e ricercatori e impiegati il 5 per cento. AllaNerviano Medical Sciences di Milano, ricerca e prodotti oncologici, una crisi di liquidità ha imposto il taglio al monte retribuzioni del 6 per cento: a farne le spese saranno anche i 40 dirigenti, per i quali la parte dello stipendio legata ai risultati è congelata per tutto il 2009. I 23 manager della Cerim di Imola, 20 milioni di metri quadrati di prodotti in ceramica l’anno, con 330 milioni di fatturato, i 23 dirigenti hanno deciso di fare a meno del 10 per cento dello stipendio per alimentare un fondo a favore degli operai più a lungo colpiti dalla cassa integrazione: l’obiettivo è portare il loro introito mensile da 850 a mille euro.

Alla Cefin Systems di Torino (gestione di flotte di veicoli) il titolare-amministratore s’è azzerato gli emolumenti. E il personale tutto, dirigenti compresi, lavorerà al minimo sindacale. Per l’intero 2009. Incrociando le dita e sperando che basti. (Beh, buona giornata).

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La crisi e gli operai: “Loro mettono la gente in cassa integrazione e questo non è prendere in ostaggio la gente?”.

Tre dirigenti della Fiat per cinque ore sono stati rinchiusi dentro due stanze del centro vendite autovetture di Bruxelles, da alcuni lavoratori che protestano per un piano di licenziamenti. Un episodio che si riallaccia a quelli analoghi che si sono susseguiti nei giorni scorsi, in altri paesi europei.

La Fiat reagisce. Annuncia che”esclude per il futuro la possibilità di tenere rapporti con organizzazioni sindacali che avallino simili forme di protesta”.
Immediata la reazione del sindacato. Abel Gonzales – rappresentante del sindacato Fgtb, che insieme a una ventina di addetti della Fiat sta presidiando la sede della casa automobilistica in Belgio in attesa di poter incontrare il suo amministratore delegato – dichiara: “E saremmo noi i terroristi? Loro mettono la gente in cassa integrazione e questo non è prendere in ostaggio la gente?”.

Dall’Italia giunge poi la stigmatizzazione del segretario nazionale della Fiom-Cgil, Giorgio Cremaschi: “Le dichiarazioni della Fiat contro i lavoratori e i sindacati belgi sono inaccettabili. La rottura della convivenza civile che lamenta l’azienda avviene prima di tutto quando durante la crisi si scelgono i licenziamenti come modo di affrontarla. L’esasperazione dei lavoratori va capita anche dalle aziende. Peraltro – aggiunge Cremaschi – i cosiddetti sequestri sono in realtà semplici invasioni di uffici che durano poche ore”. (Beh, buona giornata).

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