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Liberismo e libert

(Redazione del Fatto Quoptidiano)
La libertà di stampa e di espressione del pensiero è a grave rischio nell’Occidente capitalistico, quello stesso di cui si vantano tanti bei soloni che, sprofondati nel lusso delle mance ricevute a piene mani dalla classe dominante, non si stancano di ripetere le lodi del nostro sistema illuminato e di lanciare anatemi su coloro che ancora insistono a non riconoscere la naturale supremazia del mercato e l’infallibilità dei suoi servi ben pagati, cioè loro stessi.
Si guardi a quanto sta recentemente succedendo, ad esempio, in Italia e in Grecia. In Italia, la legge varata con la scusa di salvare dal carcere il pessimo Sallusti (proposito che mi lascia assolutamente indifferente, anche perché non si capisce perché in carcere debbano terminare sempre i soliti poveracci), monetizza in sostanza la diffamazione, minando la possibilità dei giornalisti di formulare ipotesi ed accuse a pena di risarcimenti ingenti.

Guai a dire la verità sui potenti, si rischia di dover pagare caro! Una logica e una sanzione ben in linea con l’attuale dittatura neoliberista della finanza, contro le quali si esprimono le legittime preoccupazioni della Federazione nazionale della stampa. Tale legge non farebbe del resto che codificare una prassi in atto. Basti pensare a De Corato, immarcescibile consigliere della destra postfascista milanese che potrà presto, come Paperon De’ Paperoni, farsi il bagno nelle monetine raccolte da migliaia di persone giustamente solidali con il giornalista del manifesto Luca Fazio, condannato a dare ventimila euro al suddetto immarcescibile. Chi vuole contribuire sottoscrivendo qualche monetina per De Corato (buon pro gli faccia!) guardi questo link.

Ancora più grave la vicenda greca, che ha visto l’arresto di ben due giornalisti: uno, Kostas Vaxevanis, reo di aver diffuso una lista di evasori fiscali in un Paese nel quale vengono smantellati servizi pubblici di ogni tipo per onorare gli impegni presi nei confronti del potere finanziario. Nella lista, nel frattempo scomparsa, pare fosse presente mezzo governo “moralizzatore” ellenico. Una ben strana concezione della privacy al servizio dell’illegalità delle classi dominanti! L’altro, Spiros Karazaferris, perché avrebbe diffuso notizie non autorizzate sul default ellenico, mettendo in forse i presupposti stessi dell’attuale devastazione neoliberista del Paese all’insegna dell’insopportabile feticcio europeo del pareggio di bilancio.

Non a caso i due Paesi menzionati sono Paesi nei quali si sta scatenando negli ultimi tempi una feroce offensiva neoliberista volta a spazzare via quanto resta dello Stato sociale. Non a caso il capitale farebbe volentieri a meno delle elezioni che potrebbero in qualche modo far avanzare forze contrarie alle sue mortifere ricette. Non a caso in questi Paesi continuano a regnare caste legate anche all’evasione fiscale e all’economia illegale. Non a caso si tratta di Paesi mediterranei soggetti alla dittatura germanocentrica della signora Merkel.

Ma il discorso si potrebbe forse estendere anche ad altri Paesi capitalistici nei quali però, occorre riconoscere, determinati principi liberali sembrano almeno per il momento avere radici più salde. Ma anche lì, leggi e pronunce giudiziarie contro la diffamazione dei ricchi e processi di concentrazione dei media rischiano di dare gravissimi e irreparabili colpi alla libertà d’informazione. Sempre più spesso poi ricorrono in tribunale per vedersi riconosciuti risarcimenti milionari le multinazionali che sostengono la lesione del loro preteso buon nome, come la fabbrica di amianto Eternit nei confronti dell’avvocato francese Jean-Paul Teissonière che l’ha accusata di avere avvelenato la gente per oltre vent’anni. Ovunque le cricche al potere hanno paura della verità e per questo non risparmiano gli sforzi per controllare in ogni modo l’informazione.

Ce n’è da riflettere per i soloni nostrani. Quelli, per intendersi, pronti a stracciarsi le vesti per le presunte minacce alla libertà di stampa in Venezuela o per ogni smorfia di disappunto di Yoani Sanchez e che tacciono, per ignoranza o malafede, di fronte agli almeno trenta giornalisti assassinati in Honduras dopo il golpe neoliberista e filostatunitense che ha spodestato il presidente democraticamente eletto Zelaya. Perché sprecare energie preziose che possono essere dedicate al discredito delle esperienze alternative al neoliberismo, opera ben più à la page nei salotti bene e soprattutto molto meglio retribuita?(Beh, buona giornata).

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E il neoliberismo partor

di Carlo Bordoni-Il Fatto Quotidiano

L’antipolitica come rinuncia dello Stato alla politica tradizionale? È la tesi di Étienne Balibar, docente emerito all’Università di Parigi, noto per i suo saggi Leggere il Capitale (con Louis Althusser) e La paura delle masse, che si ripropone ora con Cittadinanza, pubblicato da Bollati Boringhieri.

Antipolitica come annullamento degli antagonismi politici, delle differenze tra i partiti, dell’omologazione delle forze in campo, all’interno di una generale stagnazione dove emergono individualità carismatiche che catalizzano l’interesse pubblico.

La crisi delle ideologie, quelle convinzioni fideistiche su cui si basavano i partiti della sinistra, in grado di raccogliere il consenso di larghe masse popolari, ha lasciato un vuoto, prontamente colmato da una logica individualista e privatistica.

Balibar riprende da Aristotele il termine politeía, per indicare un concetto più ampio di cittadinanza: lo speciale rapporto che s’instaura tra la pólis (città) e il cittadino, facendone un attore politico. E quindi politeía come partecipazione alla cosa pubblica.

Ora, il vacillare di questo rapporto mette in discussione la democrazia.

Due sono le cause principali: la prima è la perdita di un’identificazione collettiva tra cittadino e Stato, che si manifesta con un eccesso di burocrazia (insieme di complessità formali che mascherano l’inosservanza di aspetti sostanziali) e col prevalere di strutture sovranazionali. L’altra causa è appunto l’emergere dell’antipolitica, che non è unicamente una reazione di tipo populista e nazionalista.

Secondo una teoria già proposta da Wendy Brown, il neoliberalismo sottopone le funzioni sociali dello Stato al calcolo economico. Una pratica insolita, che introduce criteri di redditività neservizi pubblici, come se si trattasse di aziende private, regolando sotto un profilo economicistico i campi dell’istruzione, della sanità, della ricerca scientifica, dei servizi sociali, della sicurezza.

L’antipolitica è pertanto un atteggiamento di de-responsabilizzazione dello Stato, di rinuncia alla sue prerogative tradizionali e la loro progressiva privatizzazione. Le responsabilità si dividono così in una miriade di deleghe sempre più frazionate, fino a convergere sul singolo individuo. Unico responsabile di se stesso.

Del resto il neoliberalismo all’americana, adottato anche da noi e ravvisabile nei provvedimenti presi dal governo Monti, si sposa bene con l’uscita dalla società di massa: la cosiddetta “demassificazione”. Il processo di individualizzazione che ha riportato in primo piano il concetto di “moltitudine”.

Chissà che in futuro non ci aspetti una società “caina”, dove ognuno potrà interpretare a suo modo la frase biblica: “Sono forse io il custode di mio fratello?”

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“È ora di progettare seriamente un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”.

di Guido Viale, da il manifesto, 29 novembre 2011

Agli storici del futuro (se il genere umano sopravviverà alla crisi climatica e la civiltà al disastro economico) il trentennio appena trascorso apparirà finalmente per quello che è stato: un periodo di obnubilamento, di dittatura dell’ignoranza, di egemonia di un pensiero unico liberista sintetizzato dai detti dei due suoi principali esponenti: «La società non esiste. Esistono solo gli individui», cioè i soggetti dello scambio, cioè il mercato (Margaret Thatcher); e «Il governo non è la soluzione ma il problema», cioè, comandi il mercato! (Ronald Reagan).

Il liberismo ha di fatto esonerato dall’onere del pensiero e dell’azione la generalità dei suoi adepti, consapevoli o inconsapevoli che siano; perché a governare economia e convivenza, al più con qualche correzione, provvede già il mercato. Anzi, “i mercati”; questo recente slittamento semantico dal singolare al plurale non rispecchia certo un’attenzione per le distinzioni settoriali o geografiche (metti, tra il mercato dell’auto e quello dei cereali; o tra il mercato mondiale del petrolio e quello di frutta e verdura della strada accanto); bensì un’inconscia percezione del fatto che a regolare o sregolare le nostra vite ci sono diversi (pochi) soggetti molto concreti, alcuni con nome e cognome, altri con marchi di banche, fondi e assicurazioni, ma tutti inarrivabili e capricciosi come dèi dell’Olimpo (Marco Bersani); ai quali sono state consegnate le chiavi della vita economica, e non solo economica, del pianeta Terra. Questa delega ai “mercati” ha significato la rinuncia a un’idea, a qualsiasi idea, di governo e, a maggior ragione, di autogoverno: la morte della politica. La crisi della sinistra novecentesca, europea e mondiale, ma anche della destra – quella “vera”, come la vorrebbero quelli di sinistra – è tutta qui.

Ma, dopo la lunga notte seguita al tramonto dei movimenti degli anni sessanta e settanta, il caos in cui ci ha gettato quella delega sta aprendo gli occhi a molti: indignados, gioventù araba in rivolta, e i tanti Occupy. Poco importa che non abbiano ancora “un vero programma” (come gli rinfacciano tanti politici spocchiosi): sanno che cosa vogliono.

Mentre i politici spocchiosi non lo sanno: vogliono solo quello che “i mercati” gli ingiungono di volere. È il mondo, e sono le nostre vite, a dover essere ripensati dalle fondamenta. Negli anni il liberismo – risposta vincente alle lotte, ai movimenti e alle conquiste di quattro decenni fa – ha prodotto un immane trasferimento di ricchezza dal lavoro al capitale: mediamente, si calcola, del 10 per cento dei Pil (il che, per un salario al fondo alla scala dei redditi può voler dire un dimezzamento; come negli Usa, dove il potere di acquisto di una famiglia con due stipendi di oggi equivale a quello di una famiglia monoreddito degli anni sessanta). Questo trasferimento è stato favorito dalle tecnologie informatiche, dalla precarizzazione e dalle delocalizzazioni che quelle tecnologie hanno reso possibili; ma è stato soprattutto il frutto della deregolamentazione della finanza e della libera circolazione dei capitali. Tutto quel denaro passato dal lavoro al capitale non è stato infatti investito, se non in minima parte, in attività produttive; è andato ad alimentare i mercati finanziari, dove si è moltiplicato e ha trovato, grazie alla soppressione di ogni regola, il modo per riprodursi per partenogenesi.

Si calcola che i valori finanziari in circolazione siano da dieci a venti volte maggiori del Pil mondiale (cioè di tutte le merci prodotte nel mondo in un anno, che si stima valgano circa 75 mila miliardi di dollari). Ma non sono state certo le banche centrali a creare e mettere in circolazione quella montagna di denaro; e meno che mai è stata la Banca centrale europea (Bce), che per statuto non può farlo (anche se in effetti un po’ lo ha fatto e continua a farlo, per così dire, “di nascosto”). Se la Bce è oggi impotente di fronte alla speculazione sui titoli di stato (i cosiddetti debiti sovrani) è perché lo statuto che le vieta di “creare moneta” è stato adottato per fare da argine in tutto il continente alle rivendicazioni salariali e alle spese per il welfare. Una scelta consapevole quanto miope, che forse oggi, di fronte al disastro imminente, sono in molti a rimpiangere di aver fatto. A creare quella montagna di denaro è stato invece il capitale finanziario che si è autoriprodotto; i “mercati”. E lo hanno fatto perché tutti i governi glielo hanno permesso. Certo, in gran parte si tratta di “denaro virtuale”: se tutto insieme precipitasse dal cielo sulla terra, non troverebbe di fronte a sé una quantità altrettanto grande di merci da comprare. Ciò non toglie che ogni tanto – anzi molto spesso – una parte di quel denaro virtuale abbandoni la sfera celeste e si materializzi nell’acquisto di un’azienda, una banca, un albergo, un’isola; o di ville, tenute, gioielli, auto e vacanze di lusso. A quel punto non è più denaro virtuale, bensì potere reale sulla vita, sul lavoro e sulla sicurezza di migliaia e migliaia di esseri umani: un crimine contro l’umanità.

È un meccanismo complicato, ma facile da capire: in ultima analisi, quel denaro “fittizio” – che fittizio non è – si crea con il debito e si moltiplica pagando il debito con altro debito: in questa spirale sono stati coinvolti famiglie (con i famigerati mutui subprime; ma anche con carte di credito, vendite a rate e “prestiti d’onore”), imprese, banche, assicurazioni, Stati; e, una volta messi in moto, quei debiti rimbalzano dagli uni agli altri: dai mutui alle banche, da queste ai circuiti finanziari, e poi di nuovo alle banche, e poi ai governi accorsi in aiuto delle banche, e dalle banche di nuovo agli Stati. E non se ne esce, se non – probabilmente – con una generale bancarotta.

In termini tecnici, l’idea di pagare il debito con altro debito si chiama “schema Ponzi”, dal nome di un finanziere che l’aveva messa in pratica negli anni ’30 del secolo scorso (al giorno d’oggi quell’idea l’hanno riportata in vita il finanziere newyorchese Bernard Madoff e, probabilmente, molti altri); ma è una pratica vecchia come il mondo, tanto che in Italia ha anche un santo protettore: si chiama “catena di Sant’Antonio”. In realtà, tutta la bolla finanziaria che ci sovrasta non è che un immane schema Ponzi. E anche i debiti degli Stati lo sono. Il vero problema è sgonfiare quella bolla in modo drastico, prima che esploda tra le mani degli apprendisti stregoni dei governi che ne hanno permesso la creazione. Nell’immediato, un maggiore impegno del fondo salvastati, o del Fmi, o gli eurobond, o il coinvolgimento della Bce nell’acquisto di una parte dei debiti pubblici europei potrebbero allentare le tensioni. Ma sul lungo periodo è l’intera bolla che va in qualche modo sgonfiata.

Prendiamo l’Italia: paghiamo quest’anno 70 miliardi di interessi sul debito pubblico (che è di circa 1900 miliardi). L’anno prossimo saranno di più, perché gli interessi da pagare aumentano con lo spread. Negli anni passati a volte erano meno, ma a volte, in proporzione, anche di più. Quasi mai sono stati pagati con le entrate fiscali dell’anno (il cosiddetto avanzo primario); quasi sempre con un aumento del debito. Basta mettere in fila questi interessi per una trentina di anni – da quando hanno cominciato a correre – e abbiamo una buona metà, e anche più, di quel debito che mette alle corde l’economia del paese e impedisce a tutti noi di decidere come e da chi essere governati. Perché a deciderlo è ormai la Bce. Ma la vera origine del debito italiano è ancora più semplice: l’evasione fiscale. Ogni anno è di 120 miliardi o cifre equivalenti: così, senza neanche scomodare i costi di “politica”, della corruzione o della malavita organizzata, bastano quindici anni di evasione fiscale – e ci stanno – per spiegare i 1900 miliardi del debito italiano. Aggiungi che coloro che hanno evaso le tasse sono in buona parte – non tutti – gli stessi che hanno incassato gli interessi sul debito e il cerchio si chiude. La spesa pubblica in deficit ha la sua utilità se rimette in moto “risorse inutilizzate”: lavoratori disoccupati e impianti fermi. Ma se alimenta evasione fiscale e “risparmi” che vanno solo ad accrescere la bolla finanziaria, è una sciagura.

Altro che pensioni da tagliare (anche se le ingiustizie da correggere in questo campo sono molte)! E altro che scuola, e università, e sanità, e assistenza troppo “generose”! Siamo di fronte a cifre incomparabili: per distruggere scuola e Università è bastato tagliare pochi miliardi di euro all’anno. E da una “riforma” anche molto severa delle pensioni si può ricavare solo qualche miliardo di euro all’anno. Dalla svendita degli immobili dello Stato e dei servizi pubblici locali non si ricava molto di più. Dalla liquidazione di Eni, Enel, Ferrovie, Finmeccanica, Fincantieri e quant’altro, come improvvidamente suggerito nel luglio scorso dai bocconiani Perotti e Zingales (l’economista di riferimento, quest’ultimo, di Matteo Renzi; ma anche di Sarah Palin!), si ricaverebbe non più di qualche decina di miliardi una volta per sempre, trasferendo in mani ignote (ma potrebbero benissimo essere quelle della mafia) le leve dell’economia di un intero paese. Mentre interessi ed evasione fiscale ammontano a decine di miliardi ogni anno e il debito da “saldare” si conta in migliaia di miliardi. Per questo il rigore promesso dal governo potrà fare male ai molti che non se lo meritano, ma non ha grandi prospettive di successo: affrontare con queste armi il deficit pubblico, o addirittura il debito, è un’impresa votata al fallimento. O una truffa. Per questo è urgente effettuare un audit (un inventario) del debito italiano, perché tutti possano capire come si è formato, chi ne ha beneficiato e chi lo detiene (anche per poter prospettare trattamenti diversi alle diverse categorie di prestatori).

L’altro inganno che domina il delirio pubblico promosso dagli economisti mainstream – e in primis dai bocconiani – è la “crescita”. A consentire il pareggio del bilancio imposto dalla Bce e tra breve “costituzionalizzato”, cioè il pagamento degli interessi sul debito con il solo prelievo fiscale, e addirittura una graduale riduzione, cioè restituzione, del debito dovrebbe essere la “crescita” del Pil messa in moto dalle misure liberiste che i precedenti governi non avrebbero saputo o voluto adottare: liberalizzazioni, privatizzazioni, riforma del mercato del lavoro (alla Marchionne), eliminazioni delle pratiche amministrative inutili (ben vengano, ma bisognerà riparlarne) e le “grandi opere” (in primis il Tav).

Ma per raggiungere con l’aumento del Pil obiettivi del genere ci vorrebbero tassi di crescita “cinesi”; in un periodo in cui l’Italia viene ufficialmente dichiarata in recessione, tutta l’Europa sta per entrarci, l’euro traballa, gli Stati Uniti sono fermi e l’economia dei paesi emergenti sta ripiegando. È il mondo intero a essere in balia di una crisi finanziaria che va ad aggiungersi a quella ambientale – di cui nessuno vuole più parlare – e allo sconvolgimento dei mercati delle materie prime (risorse alimentari in primo luogo) su cui si riversano i capitali speculativi che stanno ritirandosi dai titoli di stato (e non solo da quelli italiani). Interrogati in separata sede, sono pochi gli economisti che credono che nei prossimi anni possa esserci una qualche crescita. Molti prevedono esattamente il contrario; ma nessuno osa dirlo. Questa farsa deve finire.

È ora di pensare – e progettare seriamente – un mondo capace di soddisfare i bisogni di tutti e di consentire a ciascuno una vita dignitosa anche senza “crescita”. Semplicemente valorizzando le risorse umane, il patrimonio dei saperi, le fonti energetiche e le risorse materiali rinnovabili, gli impianti e le attrezzature che già ci sono; e rinnovandoli e modificandoli solo per fare meglio con meno. Non c’è niente di utopistico in tutto questo; basta – ma non è poco – l’impegno di tutti gli uomini e le donne di buon senso e di buona volontà.

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Finanza - Economia - Lavoro Lavoro Popoli e politiche

“Lo scandalo del capitalismo contemporaneo sta nella mondializzazione della povertà, perfino nei Paesi più ricchi.”.

di JEAN-PAUL FITOUSSI da lastampa.it

Viviamo un’epoca nella quale l’etica sembra aver invaso tutto. La finanza è etica, le imprese adottano codici etici, il commercio è etico. Eppure il capitalismo sembra finito nel pallone. Mai «l’amore per il denaro», come avrebbe detto Keynes, lo avrebbe condotto agli eccessi che conosciamo: retribuzioni stravaganti, rendimenti da sogno, esplosione dell’ineguaglianza e della miseria, degrado dell’ambiente. L’emergenza etica, forse, è una reazione allo spettacolo desolante delle conseguenze di un’economia che non si è mai preoccupata dell’etica. Non si può rifiutare con leggerezza l’ipotesi che l’abbandono della morale abbia portato il sistema alla crisi.

«I vizi specifici dell’economia che viviamo – scriveva Keynes – sono due: il lavoro non è assicurato a tutti e i profitti sono divisi in modo arbitrario e iniquo». L’economia, come la scienza, non è un ambito per eccellenza disgiunto dalla morale? Certo lo scivolamento irrefrenabile dell’economia-politica verso l’economia-scienza si è cristallizzato nel concetto di «economia di mercato», sciolto da preoccupazioni storiche o istituzionali. Eppure il capitalismo è una forma di organizzazione storica, un modo di produzione, diceva Marx, nato con sulle macerie dell’Ancien regime. Dunque il suo destino non è scritto nel marmo.

È l’interdipendenza tra stato di diritto e attività economica che dà al capitalismo la sua unità. L’autonomia dell’economia è un’illusione, come la sua capacità di autoregolarsi. E se siamo arrivati al disastro di oggi è proprio perché la bilancia pendeva un po’ troppo verso questa illusione. Questo sbilanciamento corrisponde a un capovolgimento di valori. Si fa un servizio migliore all’etica – si pensava – regolando di più gli Stati e di meno il mercato. L’ingegnosità dei mercati finanziari ha fatto il resto. Lo scandalo del capitalismo contemporaneo sta nella mondializzazione della povertà, perfino nei Paesi più ricchi. E ancora di più sta nell’aver accettato un circolo di illegalità insostenibile nei Paesi democratici. Perché il sistema vive nella tensione tra due principi: quello del mercato e dell’ineguaglianza da una parte (un euro, una voce) e quello della democrazia e dell’uguaglianza dall’altra (una persona, una voce), obbligati alla ricerca permanente di un compromesso.

Questa tensione permette al sistema di adattarsi e di non rompersi come succede ai sistemi basati su un principio solo, com’è accaduto a quello sovietico. La tesi secondo cui il capitalismo avrebbe vinto come organizzazione economica grazie alla democrazia, piuttosto che a suo scapito, sembrava la più convincente. Oggi ne abbiamo una rappresentazione efficace. Lo spettacolo dei soldi facili cancella gli orizzonti temporali. Rendimenti finanziari troppo alti contribuiscono al disprezzo del futuro, a impazienza nel presente, al disincanto sul lavoro. Non è più necessario citare l’Antico Testamento per capire che a questo punto il rapporto tra denaro ed etica va in crisi. Anche Adam Smith ne aveva parlato nella sua Ricerca sulla natura e le cause della ricchezza dei Paesi (Gallimard, 1796). Il disprezzo del futuro va in contrasto con l’orizzonte di lungo periodo necessario alla democrazia. Una delle chiavi del compromesso tra il benessere delle generazioni presenti e quelle future è l’arco temporale determinato dal dibattito politico. Un orizzonte limitato, come l’ assenza di giustizia sociale, aggrava il conflitto.

Quando le diseguaglianze sono forti una parte importante della società non può proiettarsi nel futuro nero che l’aspetta. E se si formula l’ipotesi che l’altruismo tra una generazione e l’altra è una forma di sentimento morale spontaneo, come sembrerebbe dire l’attenzione che tutti hanno per il destino dei bambini, si capisce bene che una maggiore equità sociale potrebbe riconciliare il capitalismo con il lungo termine. Per restituire etica al capitalismo, bisogna rompere con la dottrina del passato che ci ha portato alle turbolenze finanziarie di questi mesi. Bisognerebbe «deregolamentare le democrazie», fare più posto alla volontà politica, e regolare meglio i mercati. Bisognerebbe prendere più sul serio le decisioni sulle regole della giustizia e rendere oggetto di una deliberazione dei Parlamenti annuale un calo accettabile della diseguaglianza. La pubblicità di queste discussioni permetterebbe di rompere con la concorrenza sociale e fiscale che spinge le persone verso il basso, dando la speranza di una concorrenza che spinga verso l’alto. (Beh, buona giornata).

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