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Attualità

C’era una volta l’Espresso.

“È stata una scuola, una palestra, a volte il tappeto della lotta libera, senza esclusione di colpi tra voglia di fare belle campagne e le esigenze del marketing della testata.”

Tra qualche giorno saranno dieci anni dalla scomparsa di Emanuele Pirella, che ha avuto come cliente l’Espresso per decenni, prima di lasciarci.

Molti art director, copywriter, account, print e tv producer in tutti questi anni hanno lavorato per l’Espresso, creando campagne pubblicitarie fatte bene, perché l’Espresso era fatto bene.

Ci ha accompagnato, prima ancora che nella professione, nella presa di coscienza del paese in cui siamo nati e cresciuti, ci ha fatto capire che il giornalismo era un pezzo della formazione dei cittadini di un paese democratico.

Come pubblicitari abbiamo lavorato sodo per l’Espresso, in una spasmodica competizione tra linguaggio creativo e quello giornalistico.

E stata una scuola, una palestra, a volte il tappeto della lotta libera, senza esclusione di colpi tra voglia di fare belle campagne e le esigenze del marketing della testata.

Ci siamo divertiti e incazzati, riempito i cestini di carta, quando ancora non c’era il cestino sulla scrivania del computer.  Abbiamo perso molte notti, ma anche conquistato soddisfazioni.

La migliore pubblicità italiana è sempre stata pubblicata su l’Espresso, leggendo gli annunci degli altri ci siamo formati, confrontati, siamo stati in competizione per fare meglio, di più.

Oggi che questo pezzo pregiato del giornalismo italiano viene venduto come al mercato delle vacche nel giorno di fiera paesana, c’è da essere tristi, molto tristi.

Un lutto anche per i creativi pubblicitari italiani. Almeno questa Emanuele se l’è evitata

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