Categorie
democrazia Elezioni politiche Movimenti politici e sociali Politica Potere

La sconfitta della sinistra-governo.

Con la sconfitta della sinistra di governo si chiude un ciclo storico.

Quando nacque la Lega Nord, che nonostante abbia recentemente cassato il riferimento geografico per prestidigitazioni elettoralistiche è pur sempre il più “settentrionale”partito rappresentato in Parlamento, la politica italiana e di conseguenza i media ebbero un atteggiamento di scherno e repulsa.

La qual cosa determinò due fenomeni: favorì il suo radicamento tra i ceti popolari, a cominciare dalla classe operaia del triangolo di industriale; spinse la Lega nelle braccia della destra ciarlatana di Berlusconi, “sceso in campo” per salvare il suo perimetro di business della tv commerciale. Che poi divenne un partito, Forza Italia, che riuscì a governare, aggregando pezzi della vecchia Dc, qualche ex socialista, i radicali di Pannella e sdoganando la destra fascista, guidata da Fini.

La sinistra, comunista e socialista di allora commise l’errore storico di non raccogliere le istanze sociali dell’elettorato leghista, non capendo che il secessionismo fiscale era una semplice forma di protesta, non la sostanza delle aspirazioni della base leghista, che invece intuiva il pericolo che il progressivo crollo dei pilastri del welfare avrebbe impoverito la capacità di difendere il reddito.

Quel pericolo divenne via via certezza. Il crollo del CAF (I’accordo Craxi-Andreotti-Forlani), che fu il periodo di più alto accumulo di deficit pubblico, fu poi spazzato via da “Tangentopoli” favorì la nascita del berlusconismo. I cui governi favorirono le classi medio alte, oltre che i suoi interessi aziendali. Le tasse non scesero, i salari non aumentarono, il welfare continuò la sua lenta e inesorabile logoramento.

All’errore storico di sottovalutare le spinte centrifughe dalla coesione sociale prodotte dalla Lega di Bossi, si aggiunse la scelta letale di abbandonare l’idea del partito di lotta per imboccare la via a senso unico del partito di governo. Infatti per due volte Prodi tentò di sistemare i conti pubblici, non senza assegnare “sacrifici” al lavoro e allo stato sociale. Ogni volta che avrebbe voluto dare vita alla “fase 2”, cioè una qualche redistribuzione della ricchezza, fatalmente cadde. Per via del “fuoco amico” della sinistra alleata al centrosinistra.

Col Pd, il centrosinistra va al governo dopo il disastro dell’ultima compagine berlusconiana. Ma continua a essere forza di governo e non più protagonista e interlocutore del profondo disagio, dell’impoverimento, dell’insicurezza sociale: è nella miscela esplosiva, composta da meno stato sociale e meno reddito, che vien fuori, in tutta la sua pirotecnica forza distruttiva, il movimento di Grillo.

E di nuovo l’errore storico si riaffaccia nella linea politica del Pd: sottovalutazione delle radici sociali del M5s, denigrazione, mancanza di una vera e propria strategia per gestire le contraddizioni che le politiche neoliberiste hanno prodotto nel tessuto sociale, fina a strapparne a brandelli la stessa idea di democrazia.

Gli errori storici del Pd vengono da lontano, ma, al contrario di quello che sosteneva Togliatti, non vanno lontano. Si sono fermati domenica 4 marzo.

La debacle elettorale marca a fondo la sconfitta dell’idea della “sinistra di governo”.

Dalla teoria del “compromesso storico” che diede vita al “governo di unità nazionale” propugnato da Moro e Berlinguer,ma guidata da Andreotti, fino all’esperienza dell’Ulivo di Prodi, per arrivare al Pd di Renzi, la lunga marcia di avvicinamento al potere ha lasciato dietro di sé, sempre più distanti, milioni di italiani che riponevano nelle idee incarnate dalla Sinistra la speranza, ma anche la convinzione di una sempre realizzabile uguaglianza sociale.

È successo l’esatto contrario: proprio negli anni del cosiddetto “renzismo”, la fotografia mostra ricchi più ricchi e poveri più poveri. I famosi “80 euro” sono stati la paghetta che ha confermato in pieno la sensazione in molti della propria condizione miserevole.

D’altro canto, il declino della sinistra di governo ha travolto come una valanga anche le esperienze della sinistra meno istituzionale – detta “radicale” con un ossimoro inventato da Bertinotti – fino alla sinistra antagonista, come si definisce l’arcipelago dei sindacati di base, dei centri sociali, delle associazioni che si occupano del sociale.

Il definitivo sganciamento dalla complessità sociale della sinistra di governo ha fatto insorgere un sentimento minoritario tra i giovani, i lavoratori più coscienti, i militanti della vertenza sul diritto all’abitare. In un primo momento si è anche creduto possibile un dialogo tra la sinistra antagonista e parte del M5s. Ma poi le strade si sono biforcate.

Oggi la situazione è che le spinte sociale della Lega sono andate spedite a destra. Quelle del M5s al centro, pur con un linguaggio estremista, che via via tenderà a stemperarsi.

Con la sconfitta della sinistra di governo, si chiude un ciclo.

La Sinistra, in tutte le sue espressioni politiche, culturali e sociali è in crisi. Il neoliberismo, forma della propaganda economico-politica del Capitalismo, è riuscito nell’intento di capovolgere il paradigma della lotta di classe, conquistando un vantaggio competitivo sugli stessi sentimenti dei ceti sociali più numerosi e a basso reddito. Non è successo solo in Italia.

Il problema è che in gioco non c’è la tattica migliore per andare al governo, al Parlamento, o nei consigli regionali o comunali. Né è in gioco cosa fare per conquistare spazi di rappresentanza nelle istituzioni.

L’odierno “Che fare?” riguarda quale risposta dare alla domanda di giustizia sociale. Cioè quale capacità critica del sistema capitalistico sia possibile sviluppare, in teoria e in pratica.

C’è un unico modo concreto per capirlo, teorizzarlo e metterlo in pratica: stare all’opposizione è il laboratorio di una nuova visione. E questo vale per la sinistra tutta.

Share
Categorie
Attualità democrazia Dibattiti Lavoro libertà, informazione, pluralismo, Marketing Movimenti politici e sociali Politica

Il bello che c’è nelle cose sbagliate, il brutto che si trova nelle cose giuste.

Cominciamo dal brutto. Una manifestazione per il Primo Maggio a Milano viene affumicata dai black bloc e oscurata dai media. “I black bloc si nascondono nella pancia dei cortei” dicono gli esperti dell’ordine pubblico. E allora: se la testa e il corpo dei militanti di un corteo non si occupano della pancia, c’è qualcosa che non va nel modo di andare in piazza. Bisognerebbe che se occupassero finalmente gli organizzatori di quelle manifestazioni. La questione della gestione dell’agibilità politica in piazza è una questione non più rimandabile.

Continuiamo col brutto. Un nutrito gruppo di giovani si organizza per scatenare gli scontri con le forse dell’ordine. Sono furiosi, odiano, spaccano tutto. Se la disoccupazione, la sottoccupazione, il precariato dei giovani in Italia ha raggiunto livelli mai visti, forse bisognerebbe occuparsene. Se c’è chi si sente legittimato a rappresentare la rabbia giovanile, più che degli arrabbiati, bisognerebbe occuparsi dei motivi che scatenano la violenza. Certo, dire, come a detto il capo del governo che “sono quattro figli di papà” non aiuta, semmai aizza. Senza contare che il capo di un governo democratico dovrebbe occuparsi di tutti i cittadini, anche di quelli che fanno solo casino, anche di quelli che lo contestano. Per fermare la violenza politica di piazza del ’77, l’allora governo Andreotti non usò solo la polizia, ma chiese un prestito internazionale col quale finanziò la famosa legge 285/77 per l’occupazione giovanile, che favorì un reddito e di conseguenza fermò le manifestazioni violente. L’attuale governo Renzi dovrebbe essere meno burbanzoso. E, per continuare col brutto, quello che è successo a Bologna, dove la polizia ha respinto manifestanti che volevano entrare alla Festa de l’Unità per contestare il capo del governo non s’era mai visto. Un partito di sinistra che sa parlare solo con gli industriali e non sa dare risposte ai precari della scuola non è né un partito di governo, né è di sinistra.

E adesso veniamo al bello. Il bello è stato la partecipazione di migliaia di cittadini milanesi che volevano rimettere a posto le cose sfasciate dagli scontri del Primo Maggio. L’orgoglio di sentirsi una comunità solidale è un sentimento puro. Purtroppo la causa è sbagliata: le città non sono vetrine, né Milano si può trasformare in un “temporary store”. Milano è molto di più della città che ospita Expo. Expo non è la soluzione della crisi, né rappresenta un prospettiva per il prossimo futuro. È un evento commerciale, fra sei mesi finirà quello che ancora non è stato neppure finito in tempo. Si dice Expo sia un’opportunità. Se lo sarà, lo sarà per le grandi corporazioni, per le multinazionali, per il mercato. Non per i cittadini di Milano, o comunque non per tutti. Bisognerà, allora raccogliere e coltivare questo sentimento di comunanza e di cura della città, e indirizzarlo verso l’innalzamento della qualità della vita e la gestione positiva della differenza sociali che convivono nella metropoli lombarda. Il sindaco Pisapia ha avuto una felice intuizione a indire l’assemblea pubblica a piazza Cadorna. La domanda è: quei cittadini che hanno partecipato a “nessuno tocchi Milano” sapranno darsi strumenti autonomi di protagonismo politico o arriveranno di nuovo i partiti a spartirsi il consenso per le prossime scadenza elettorali?

Ancora sul bello nelle cose sbagliate. È bello che si protesti con veemenza contro l’arroganza della maggioranza parlamentare che vorrebbe imporre la nuova legge elettorale. Ma è brutto il modo in cui forze politiche di opposte posizioni politiche, per non dire di contrapposte sensibilità democratiche hanno voluto praticare l’opposizione parlamentare. Neanche nei reality show televisivi la pantomima delle contestazione sarebbe riuscita a rappresentarsi tanto finta e strumentale al gioco delle parti. Se le giuste preoccupazione della coerenza democratica tra la Costituzione e le leggi che regolano la partecipazione dei cittadini della Repubblica alle elezioni vengono rappresentate con queste modalità, è chiaro che non c’è da fidarsi della buona fede dell’opposizione.

Poi c’è il brutto che si ritrova a suo agio nello sbagliato. La politica sull’immigrazione del governo è sbagliata, perché tende non a trovare una soluzione equa, quanto piuttosto a camuffare il problema di fronte all’opinione pubblica, inorridita dai naufragi e preoccupata dall’accoglienza. C’anche il più brutto nel peggior modo di sbagliare. Quando per mera propaganda, certe froze politiche vorrebbero respingimenti e affondamenti, mentre sventolano lo slogan “aiutiamoli a casa loro”, succedono cose brutte nel modo peggiore: la Lega ha partecipato a tutti quei governi che durante i G8 e G20 promettevano aiuti ai paesi africani, senza mai poi versare un euro. Se i nodi non vengono al pettine, è il pettine che si incarica di sciogliere con durezza i nodi: è vero che l’Italia è molto esposta all’immigrazione di masse di disperati, ma è altrettanto vero che la nostra politica ha commesso errori drammatici nei confronti di quei paesi che oggi “esportano” fame e miseria in Europa, passando per le nostre coste.

Infine, il bello delle cose giuste. Un ragazzo disabile non è potuto salire sul pullman della gita scolastica e tutti i suoi compagni di scuola non sono voluti partire e quella gita che non si poteva fare per uno, nessuno ha voluta farla. Questa si chiama solidarietà. Non quella di un euro via sms, perché quella è elemosina. La solidarietà è quel sentimento collettiva di rinuncia a un privilegio per pochi perché possa essere condiviso da tutti. Anche se i tutti sono uno solo, quel ragazzo in carrozzella.

Manifestazione "Nessuno tocchi Milano", piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Manifestazione “Nessuno tocchi Milano”, piazza Cadorna, 3 maggio 2015.
Dovremmo ricordarcelo più spesso. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità Cultura Politica Scuola Società e costume

Titoli di studio, titoli di pagamento, titoli dei giornali.

Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord.
Le lauree in canottiera, di Francesco Merlo-la Repubblica

Sono il rogo dei libri nelle valli dei dané. E certo si capisce che ora circolino le battute sulla Lega che «chiude per rutto». E si sprecano le volgarità su Rosy Mauro, la nera che «sta rovinando il capo», «la dottoressa ‘Mamma Ebe’» che ha laureato in Svizzera anche il suo giovane compagno, poliziotto ed artista che cantando «ci hanno ridotto a culi nudi» un po’ si presta alla ferocia della satira sboccata. Perciò Mamma Ebe promette di riempire l’Italia di sganassoni con le sue grandi mani di fatica, rosse e nodose, il cerchio all’anulare, mani laureate in Svizzera che è un dettaglio gradasso di Bossi, una pernacchia in più all’Italia dei saperi: «non solo regalo la laurea alla mia badante, ma la compro addirittura in Svizzera», insomma meglio di quella di Mario Monti, meglio di quella della Fornero.

Come si vede, dunque, la degradazione del titolo di studio in patacca da rigattiere nella zona più ricca d’Italia non è il dettaglio pittoresco di una ben più seria sconfitta politica. Al contrario, nel Trota che manda in pensione l’asino e, dopo tre bocciature, il partito gli compra l’agognato e immeritato diploma al mercato nero di chissà dove, c’è già la secessione in atto.

Sulle spalle di questo povero figlio, che dal 2010 frequenta a Londra una misteriosa università («in economia» disse a Vanity Fair) pagata dagli italiani sotto forma di rimborsi elettorali, non c’è solo l’ennesimo aggiornamento del ‘tengo famiglia’ e della logica del cognome che pure spiegano la sua carriera politica.

Ma c’è l’aggressione a quel primato dell’ingegno che ancora ci identifica in tutto il mondo, all’Italia che ora cammina sulle gambe di Riccardo Muti e di Renzo Piano, di Umberto Eco e di Carlo Rubbia, a quella che sarà pure diventata una retorica già gravemente minacciata di decadenza, ma che solo la faccia del trota economista a Londra riesce profondamente a umiliare.

Papà Bossi, che lo voleva come delfino ed erede politico, gli ha negato un’individualità, lo ha azzerato e senza offrirgli via di scampo lo ha modellato come pataccaro leghista, ancora più pataccaro e leghista di sé, ha marchiato la sua giovane coscienza con il dio Po e con tutte le altre corbellerie padane sino a fargli presentare, agli esami di maturità, delle tesi su quel Cattaneo che solo papà ha ridotto a piazzista politico e a imbroglione, ma che in realtà è un autore difficile anche per i professori. Il risultato ovvio non è solo la bocciatura, ma anche quella sua faccia apatica su cui si sarebbero esercitati Piero Camporesi e Arnold Gehelen, la faccia come modello d’inconsistenza che sognavano d’incontrare Walter Chiari, Cochi e Renato e i cabarettisti del Derby, la faccia su cui ora si sta crudelmente divertendo l’Italia.

Ebbene, quella faccia andrebbe presa drammaticamente sul serio perché esprime benissimo l’aggressione dell’incultura leghista all’identità nazionale, è la faccia-bandiera della competenza degradata ad incompetenza nella provincia nordista degli Aiazzone dove i libri sono da sempre arredamento.

Ecco perché il cerchio magico che si compra le lauree non è l’evoluzione nordista della vecchia e gloriosa truffa all’italiana. Qui non ci sono Totò e Peppino a Gemonio. E nella signora Bossi, premiata con una scuola privata, la Bosina, per la quale il marito chiede al partito un milione e mezzo di euro, non c’è solo il Pokies paese delle mogli, il trionfo della solita economia domestica che è l’unica scienza finanziaria nazionale, né c’è solo il tributo del celodurista spelacchiato all’Italia del matriarcato dove, nonostante la biologia, è sempre la moglie che ingravida il marito.

Certo, la signora Manuela, governando il marito ha governato l’intero governo italiano che della Lega è stato lungamente ostaggio, ma in quella scuola privata c’è qualcosa di più e di peggio, qualcosa forse di irreparabile nel mondo del mito sciaguratamente brianzolizzato del self made man che ora ricicla danaro illecito, nella fuga dalla condizione operaia verso quella dei piccoli padroni che evadono il fisco, nella corruzione politica da record che devasta la Lombardia… La scuola della Bossi è il dileggio finalmente realizzato della cultura che in quel mondo ha una sola funzione: essere dileggiata dall’asino, e dunque comprata ed esibita.

È la scuola in canottiera, l’antiscuola, non un nuovo modello Montessori ma il raglio al posto delle grammatiche.
Non sarà facile liberare dall’anticultura e svelenire quella parte dell’Italia del Nord che con Bossi ha ancora un rapporto di identità corporale, non sarà semplice restaurare nei villaggi della val Brembana l’anima italiana, l’identità nazionale fondata sulle eccellenze dei saperi coltivati e depositati. Non c’è infatti nessuna simpatia canagliesca, non c’è nessuna allegria manigolda nelle due lauree — due — che il tesoriere Francesco Belsito, ex autista ed ex venditore di focacce, ‘indossa’ sul corpaccione da buttafuori, il tesoriere più pazzo del mondo, il gorilla leghista dottore in Scienza della comunicazione (università di Malta, scrisse nel sito del governo quando era sottosegretario) e dottore in Scienze politiche a Londra, dove, non avendo valore legale, si vendono lauree ai cialtroni di tutto il mondo, italiani, libanesi, ucraini…

Attenzione, dunque: questo Bossi non è il terrone padano, il solito terrone capovolto. Qui c’è infatti l’attacco alla scuola che non ha solo alfabetizzato l’Italia ma l’ha unita nell’orgoglio rinascimentale, nell’amore per le eccellenze, da Dante sino a Rita Levi Montalcini. Bossi nella sua vita di pataccaro si è finto medico, ha festeggiato per tre volte la laurea mai conseguita e non dimenticheremo mai che la Gelmini, ministro della Pubblica istruzione, convocò il senato accademico dell’Università di Varese pretendendo di dare il tocco e la toga alla volgarità del linguaggio politico, di maritare il Sapere con l’indecenza grammaticale, di adottare l’insulto come forma di comunicazione colta: «Voglio proprio vedere chi avrà il coraggio di mettere in dubbio il buon diritto di Umberto Bossi, che è parte della storia di questo Paese, a ricevere una laurea honoris causa».

Battistrada della via culturale alla secessione la Gelmini, appoggiata da un gruppetto di intellettuali disorientati e rampanti, diffondeva — ricordate? — tutta quella paccottiglia contro i professori meridionali, voleva gli esami in dialetto, fece guerra alla lingua del Manzoni in nome di una improbabile matematica, i numeri contro le lettere, roba che solo adesso, dinanzi al mercato della lauree, assume il suo vero volto di pernacchia.

Il cerchio magico acquista solo lauree vere, non cerca la falsa laurea dei vecchi magliari del sud che, sia pure delittuosamente, esprimevano rispetto e soggezione per i professori che imitavano. Non viola in segreto la legge, ma la raggira alla luce del sole: non il delitto che collide con la norma, ma la patacca che collude con la norma; non il delitto che è grandezza e castigo, ma il valore comprato ed esibito, che è scherno e disprezzo. È l’unico vero sputo con cui la Lega ha davvero sporcato l’Italia.(Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia

Alla fine Fini è diventato doroteo. Berlusconi può dormire sonni tranquilli. E D’Alema (e Casini, e Rutelli e Bersani) ancora con un palmo di naso.

Roma, 20 apr. (Adnkronos/Ign) – “Ho posto questioni di tipo politico, non sull’organigramma interno” né “per gelosia”, e “non ho intenzione di togliere il disturbo e di stare zitto”. Così il presidente della Camera Gianfranco Fini durante la riunione con i parlamentari ex An che si è svolta oggi nella sala Tatarella di Montecitorio.

“Non credo di attentare al governo e al partito se dico che c’è distacco con la nostra gente – ha detto Fini -. Il dissenso è legittimo o siamo il partito del predellino in cui bisogna dire che le cose vanno bene?”. Arriva un momento in cui “ci si deve guardare allo specchio”. “Se non si è disposti a rischiare per le proprie idee o non valgono le idee o non vale chi le esprime”. Il presidente della Camera ha però criticato “chi ha cercato di interpretare il pensiero di Fini, incendiando il dibattito politico”.

“Il progetto – ha proseguito Fini parlando del Pdl – non è in sintonia con quanto stabilito all’inizio. C’è una scarsa attenzione alla coesione sociale, alla coesione nazionale, il Sud è scomparso dal dibattito politico, sono temi che una grande forza deve trattare, per garantire i suoi valori strategici”. Non si tratta, ha precisato, di “una riproposizione degli attriti con Tremonti, che ha fatto un ottimo lavoro, anzi senza Tremonti saremmo come la Grecia”.

Quanto alla Lega, “è un alleato strategico importantissimo e leale, ma in questo momento sta dimostrando di essere il dominus”.

Per quanto riguarda gli equilibri interni tra le due anime del Pdl, “si apre una nuova fase, anche per quanto riguarda la ripartizione 70-30, chi ha più filo da tessere, tesserà”. Fini ha quindi espresso “soddisfazione perché per la prima volta è stata convocata la direzione del partito”. Inoltre, “pare che si vada verso un congresso e questo è positivo”.

Gli ex di An hanno ascoltato la relazione del presidente della Camera e hanno firmato un ordine del giorno per assicurare il loro sostegno a Gianfranco Fini e per dire no a scissioni e al voto ancipato. Il documento è stato firmato da 50 parlamentari, 36 deputati e 14 senatori. Lo si apprende dagli uomini più vicini al presidente della Camera secondo le quali ”altri parlamentari, oggi assenti per vari motivi, non hanno potuto firmare il documento, ma hanno dato il loro assenso”.

Ora è il momento di ”riportare il confronto su un piano costruttivo – si legge – isolando quanti più o meno consapevolmente stanno in queste ore lavorando per destabilizzare il rapporto tra i cofondatori del Pdl. Per questi motivi confermiamo la fiducia al presidente Fini a rappresentare tali istanze”. ”In merito alle polemiche che l’incontro Fini-Berlusconi ha suscitato nei media e nell’opinione pubblica – scrivono gli ex di An – riteniamo necessario esprimere soldiarietà a Fini contro il quale sono stati espressi giudici ingenerosi con toni a volte astiosi. Per parte nostra, riteniamo che le questioni poste da Fini meritino un approfondimento e una discussione attenta nelle competenti sedi di partito”. ”Nel corso della Direzione di giovedì prossimo – sottolineano – sarà lo stesso presidente della Camera a chiarire le sue proposte, aprendo un dibattito che ci consentirà di articolare e aggiornare un progetto di rilancio del Pdl, aperto alla partecipazione di tutte le componenti del partito”. ”La prospettiva di una escalation e anche il solo parlare di scissioni ed elezioni anticipate risultano incomprensibili per noi e per l’opinione pubblica che invece si aspetta una fase più incisiva dell’azione del nostro governo. Bisogna, quindi, riportare il confronto su un piano costruttivo”.

A stretto giro la replica di 75 ex parlamentari di Alleanza nazionale non di ‘osservanza finiana’ che hanno firmato un documento in cui si definisce il Pdl una scelta ”giusta e irreversibile”. Pur senza sottovalutare i problemi ”politici e organizzativi” che il partito deve affrontare”. Le stesse posizioni espresse da Fini dovranno trovare nei luoghi di discussione del partito la possibilità di essere discusse. Nel Pdl deve esserci un ”costante, libero, proficuo confronto di idee”, garantendo al massimo ”la democrazia interna”. Tra le firme, quelle degli ex colonnelli Gianni Alemanno, Maurizio Gasparri, Ignazio La Russa, Alterno Matteoli, più il ministro Giorgia Meloni, a lungo a capo dell’organizzazione giovanile di An.

Nel testo si afferma, tra l’altro, che occorre superare “definitivamente” le “quote di provenienza” tra gli ex di An e di Forza Italia attraverso “la convocazione di un nuovo congresso nazionale del Pdl da celebrare nei tempi più rapidi possibili”. Per i firmatari del testo, inoltre, ”deve essere difeso il sistema bipolare, aprendo la stagione delle riforme istituzionali per il rafforzamento della democrazia diretta”. In particolare, scrivono i parlamentari non finiani, ”è necessario attuare, insieme al presidenzialismo, il federalismo fiscale in modo efficace e solidale”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia

Questo bisogna leggerlo due volte. Perché è quello ci aspetta.

L’ultima sfida del Cavaliere al Quirinale, di EUGENIO SCALFARI-la Repubblica

OGGI bisognerebbe parlare delle famose riforme. Ne parlano tutti: la Lega che vuole il federalismo compiuto e si acconcia a farlo marciare insieme al presidenzialismo e alla “grande grande” riforma della giustizia per tenere agganciato Berlusconi; l’opposizione che si dichiara disponibile a leggere le carte del centrodestra per giudicarle nel merito ma intanto pone come pregiudiziale provvedimenti economici a sostegno dei consumi e dei redditi più bassi; il ministro dell’Economia che preannuncia entro tre anni la “madre delle riforme”, quella del fisco “dalle persone alle cose”; il presidente del Consiglio che, tra tutte, rilancia il presidenzialismo nelle sue varie versioni possibili e in particolare quella francese ma senza modificare la legge elettorale vigente in Italia. Infine ne ha parlato Giorgio Napolitano in varie recenti occasioni, l’ultima delle quali venerdì scorso da Verona.

Che cosa ha detto Napolitano? Ha detto che è necessario modernizzare lo Stato, che il federalismo è la prospettiva concreta per iniziare questo percorso, che esso deve essere concepito come uno strumento di autonomia delle istituzioni locali e deve servire a rafforzare l’unità del paese e la perequazione tra le sue aree territoriali. Di fronte a questo compito, di per sé immane, la riforma della “governance” del paese passa in seconda linea (così ha detto Napolitano) nell’ordine delle priorità perché rischia di introdurre nuovi elementi di divisione e di confusione.

In questi stessi giorni il presidente della Repubblica ha rinviato alle Camere la legge sui contratti di lavoro da lui considerata inadeguata e per certi aspetti di dubbia costituzionalità; ha invece promulgato quella sul legittimo impedimento nonostante i rilievi di presunte incostituzionalità formulati da tutta l’opposizione, da molti giuristi e dalla magistratura associata.
Insomma una miriade di tesi, ipotesi, convergenze, divergenze tra gli opposti schieramenti e all’interno dei medesimi; una crescente confusione di lingue e di interessi che alimenta l’indifferenza ostile dei cittadini e la loro separazione dalla politica e dalle istituzioni.

Emerge comunque la volontà berlusconiana di dare una spallata definitiva alla Costituzione repubblicana sostituendola con un regime autoritario, un Parlamento di “cloni” plebiscitati, un potere giudiziario frantumato e subordinato all’esecutivo. Questo sbocco era inevitabile, è stato covato negli scorsi dieci anni ed ora da quelle uova non usciranno teneri pulcini ma serpenti a sonagli.
In uno degli angoli del ring c’è Silvio Berlusconi, nell’altro, almeno per il momento, nessuno, o meglio un capannello di persone niente affatto concordi tra loro dalle quali sembra difficile estrarre un valido “competitor”.

Giorgio Napolitano dovrebbe arbitrare la partita dalla quale potrebbe uscire una Repubblica ammodernata ma fedele ai principi dello Stato di diritto e della libertà, oppure un autoritarismo plebiscitario. L’arbitro potrà compiere il suo ufficio in assenza di uno dei due “competitors”? Oppure finirà, contro le sue intenzioni, col prender lui il posto nell’altro angolo del ring? E quale sarà in tal caso il finale di partita?

* * *

Il sipario si apre su tre scenari. Il primo si svolge il 1° aprile al Quirinale. Colloquio Napolitano-Berlusconi, presente Letta. Comincia distesamente ma si conclude nel gelo più assoluto. Il premier mette sotto accusa lo staff giuridico di Napolitano il quale gli risponde che si tratta di “validissimi servitori dello Stato” che collaborano con lui per valutare la conformità delle leggi con la Costituzione. Il premier rinnova le critiche, Napolitano ritiene concluso l’incontro e lo congeda. Poche ore dopo arriva da Palazzo Chigi una telefonata del premier che si scusa delle parole “sopra le righe” che attribuisce al nervosismo e allo stress della campagna elettorale da poco conclusa. “Non si ripeterà mai più” promette. “Ha la mia parola”.

La seconda scena viene recitata a Parigi. Accanto ad un Sarkozy alquanto stupito da quel che sente in traduzione nel suo auricolare, il premier italiano annuncia “la riforma delle riforme”: proporrà agli italiani il semipresidenzialismo alla francese, ma con una variante non da poco, la legge elettorale resterà quella attuale con i parlamentari indicati dagli apparati dei partiti e voterà il giorno stesso in cui si vota per il capo dello Stato con suffragio popolare diretto.

Quello stesso giorno, 9 aprile, prima di partire per Parigi Berlusconi aveva chiamato il Quirinale per ringraziare Napolitano d’aver promulgato la legge sul legittimo impedimento; gli aveva preannunciato che la stagione della riforme era finalmente arrivata. Tra queste ci sarebbe anche stata la proposta del semipresidenzialismo da lui “ripescata soltanto per fare un favore a Fini”.

Ma parlando poche ore dopo da Parigi si era visto che non si trattava affatto di un ripescaggio (dal quale peraltro Fini si era immediatamente e clamorosamente smarcato) bensì di un obiettivo a lungo coltivato e gettato sul tavolo subito dopo le Regionali per farlo accettare dalla Lega in cambio del federalismo. B. B., Berlusconi e Bossi. Due alleati o due compari? Presidenzialismo e federalismo regionale. Tasse da ridurre nelle aliquote dell’Irpef e nello spostamento “dalle persone alle cose”.
Che vuol dire? Le cose sono gli immobili, gli oggetti, i beni e i servizi acquistati, cioè i consumi. L’elemento della progressività scompare nelle tasse sui consumi.
Comunque per ora non si entra nei dettagli, ci penserà Tremonti tra tre anni sempre che, tra tre anni, la crisi sia terminata o non invece tuttora in pieno svolgimento dal punto di vista dell’occupazione e del reddito, come molti osservatori qualificati prevedono. Quel che è certo, Tremonti dovrà rientrare di almeno mezzo punto di deficit nel 2011 e di tre quarti di punto nel 2012, vale a dire rispettivamente di 8 e di 12 miliardi. Come antipasto all’abbattimento delle imposte non sembra affatto appetitoso.

* * *

La terza scena va in onda ieri dal convegno confindustriale di Parma. A mezzogiorno e mezza Berlusconi comincia l’arringa, diretta ad una platea di industriali piccoli, medi, grandi. Marcegaglia in prima fila col suo discorso in tasca che sarà pronunciato subito dopo quello del premier.
Il quale comincia come al solito: la crisi è finita o quasi, il declino non c’è stato e non ci sarà, l’economia italiana è competitiva più di tutte le altre in Europa, la società è coesa, le esportazioni vanno bene e andranno sempre meglio se sapranno dirigersi verso la Cina, l’India, la Russia. Le tasse ovviamente saranno abbassate e gli ammortizzatori sociali sono operanti e sufficienti.

Tremonti è al timone e fa benissimo. Il programma del Pdl e quello della Confindustria sono assolutamente identici “perciò qui sono a casa mia”.
Segue la consueta illustrazione dei meriti acquisiti dal governo: l’Ici abolita, l’Alitalia salvata, i rifiuti di Napoli risolti, il terremoto dell’Aquila eccetera. Ma…
Ma da un certo momento in poi l’oratore passa bruscamente dal regno dell’amore a quello dell’odio. Chi l’ha visto a Parma ne descrive il volto di nuovo contratto sotto il cerone e i capelli dipinti sulla fronte. Nei telegiornali non ce n’è traccia perché quei passaggi sono stati “silenziati”.

Nelle agenzie addirittura omessi.
Perciò ricorriamo al testo letterale, talvolta la pura cronaca si commenta da sola.
“Il governo italiano non è in grado di governare nel quadro del sistema vigente. Non può paragonarsi a nessun altro governo europeo da questo punto di vista. L’esecutivo non ha alcun potere; i disegni di legge vanno in esame alle Commissioni della Camera, poi in aula, poi al Senato.
“Nessuno dei due rami del Parlamento accetta di approvare lo stesso identico testo approvato dall’altro; lo deve dunque modificare a sua volta. Finalmente, una volta approvato dal Parlamento, quel testo, che non corrisponde più a quello inizialmente preparato dal governo, viene comunque rallentato dalle burocrazie nazionali e regionali. Senza dire, come antefatto, che il testo viene preliminarmente sottoposto al presidente della Repubblica e al suo staff che ne controlla addirittura gli aggettivi”.

Segue un attacco in grande stile – non nuovo e perciò ancor più grave perché ripetuto in ogni occasione e perfino il giorno prima da Parigi per il sollazzo dei francesi – contro la Corte costituzionale, colpevole perché “essendo di sinistra e quindi politicizzata, annulla tutte le leggi e le sentenze che non piacciono ai pubblici ministeri, anch’essi politicizzati”.
Siamo in pieno Caimano. Gli industriali vorrebbero che si parlasse dei loro problemi, la Marcegaglia lo dirà subito dopo a muso duro. Vorrebbero almeno un fondo di due miliardi e mezzo per tenere il mare agitato del 2010.

Ma a sentirlo attaccare la sua burocrazia, la sua Camera e il suo Senato, dove domina con maggioranze bulgare, comunque lo applaudono. Attacca i suoi perché li disprezza. Anche la platea di Parma li disprezza ed è divertita e soddisfatta dallo spettacolo vagamente schizofrenico. La doppia o tripla o quadrupla personalità del premier piace a quella platea.
Ho visto venerdì sera in Sky tivù un vecchio film di Dino Risi con Tognazzi e Gassman protagonisti. Uno fa il giudice istruttore e l’altro un imprenditore cialtrone e corruttore. Fu prodotto nel 1980, sembra scritto oggi sulla misura di Berlusconi.

* * *

Quelle frasi di Parma, nonostante il silenzio delle agenzie e dei telegiornali ufficiali, arrivano naturalmente alle orecchie del Quirinale. Si racconta che il Presidente ne sia rimasto stupefatto e indignato. Si è fatto chiamare al telefono Gianni Letta e gli ha chiesto conto di quanto aveva appena udito.
Pare che la risposta di Letta sia stata: “Non sapevo nulla. Ho udito anch’io. Le faccio le mie personali scuse”.
E pare che la risposta del Presidente sia stata: “Le sue scuse personali non risolvono la questione. Se non si trattasse del presidente del Consiglio ma di una qualunque altra persona dovrei dire che siamo in presenza di un bugiardo che dice una cosa al mattino e fa l’opposto la sera oppure d’una persona dissociata e afflitta da disturbi schizoidi”.

Ho scritto “pare” perché trattandosi di un colloquio telefonico tra due soggetti eminenti, le parole sopra riferite non possono che venire da amici intimi dell’uno o dell’altro. Perciò bisogna scrivere “pare” anche se si ha certezza che il colloquio sia stato nella sostanza di questo tenore.
È inutile soggiungere che un sottosegretario alla Presidenza del Consiglio che sente di doversi scusare a titolo personale per quanto detto poco prima dal suo premier, dovrebbe avere un soprassalto morale e dimettersi dall’incarico. Ma è altrettanto inutile aspettarsi da Letta un atto del genere e se gli chiederete perché vi risponderà che resta dove è per cercare di limitare i danni.
L’ipocrisia è il vero sentimento che governa il mondo.

* * *

Io credo – l’avevo già scritto domenica scorsa ma “repetita iuvant” – che i nodi sono arrivati al pettine e il tempo da qui allo “showdown” si sia raccorciato. Prima ci saranno i decreti attuativi della legge sul federalismo e la “grande grande” riforma della giustizia, intercettazioni comprese.
La squadra “occhiuta” del Quirinale “che controlla anche gli aggettivi” farà i suoi rilievi ma nei punti che interessano la Costituzione i rilievi non ci sono per definizione: dopo la doppia lettura in Parlamento la legge approvata a maggioranza semplice va al referendum confermativo se è impugnata da un quinto dei parlamentari.

Il secondo round ci sarà con la presentazione della legge sul presidenzialismo alla francese ma con la legge elettorale “porcellum” preparata a suo tempo da Calderoli.
Ed anche qui il referendum, se richiesto da un quinto del Parlamento.
E tuttavia queste riforme, a differenza di tutte le altre fin qui discusse, non sono semplici modifiche realizzate nei limiti dell’articolo 138 della Costituzione.
Queste riforme cambiano il volto della Repubblica perché distruggono lo Stato di diritto, alterano l’equilibrio dei poteri e la loro reciproca autonomia, ne subordinano uno o due al terzo prevalente. Devastano la giurisdizione, la legislazione, i poteri di controllo.

Mettono al vertice dello Stato un personaggio eletto da un plebiscito. Per cinque anni rinnovabili fino a dieci.
Questo scontro si concluderà nel 2011, ma comincerà tra meno di un mese. L’opposizione è divisa perché c’è ancora chi spera di prendere qualche voto in più tra tre anni attaccando fin d’ora Napolitano. “Deus dementet qui vult pervere”.
Credo di sapere che Napolitano deve e vuole restare al di sopra delle parti perché quel capitale sarà il solo a poter far inclinare il piatto della bilancia dalla parte giusta e non da quella terribilmente sbagliata.

Credo di sapere, anzi di prevedere, che contro le sue intenzioni, sul ring a contrastare un vero e proprio “golpe bianco” ci sarà lui. Non in veste di giocatore ma in veste di arbitro di fronte a chi contesta gli arbitri, i soli che possano richiamarlo a rispettare le regole del gioco.
Credo di sapere e di prevedere che sarà una durissima battaglia per la democrazia italiana. (beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia

Elezioni regionali: ha vinto l’antiberlusconismo dei berlusconisti.

Silvio Berlusconi giosce dopo il risultato elettorale che ha visto il centrodestra vincere in sei regioni. E non esita a dare la sua lettura del voto: l’attività di governo è stata premiata, ora avanti con le riforme.

Però, fa finta di non capire l’avanzata dello “tsunami Lega” in Veneto, Lombardia e Piemonte: “L’alleanza è garanzia di rinnovamento”, taglia corto il premier. Poi lo slogan degli ultimi mesi: “L’amore ha vinto sull’invidia e sull’odio, gli elettori ci hanno dato ragione”. Invidia e odio? E la finiana Polverini nel Lazio? Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto

L’Italia a due velocità: chi c’ha il Suv può andare a 150 km/ora. Chi c’ha l’utilitaria, no. La lotta di classe corre in autostrada.

“Sono stato sempre favorevole ad aumentare la velocità in alcune autostrade che hanno le caratteristiche adatte come le tre corsie e il tutor, ma non per tutte le auto, ma per quelle che per cilindrata e caratteristiche di sicurezza, possono viaggiare tranquillamente a 150 km orari. Certo non le piccole auto”. Il ministro delle infrastrutture dixit. La lotta di classe corre in autostrada. Beh, buona giornata.

Share
Categorie
Attualità democrazia

In Italia elezioni anticipate? Ma no, è solo un ballo in maschera.

Se, telefonando, Bossi… E Berlusconi si dà il contrordine sulle elezioni-blitzquotidiano.it

Martedì sera per Schifani le elezioni anticipate sono possibili, forse necessarie Schifani non parla a vanvera e da solo Mercoledì pomeriggio Berlusconi dice non non averci mai pensato Cosa è successo in quelle venti ore scarse?

Martedì sera Renato Schifani, in un discorso ufficiale, evoca il rischio, agita la minaccia e mette nel mazzo delle cose possibili, anzi forse necessarie, le elezioni anticipate.

Parla da solo, parla a caso, parla senza pensare e pesare quel che dice il presidente del Senato? E’ sventato, leggero e isolato Schifani, l’uomo che Berlusconi e Forza Italia hanno insediato alla seconda carica dello Stato? Non è pazzo e non è sciocco Schifani e, soprattutto, non si ha memoria di una sua mossa politica senza l’assenso preventivo del premier.

Infatti al mattino di mercoledì tutte le ricostruzioni più o meno esatte dell’accaduto concordano su un punto: Schifani ha detto lui quel che Berlusconi vuole sia detto ma che il premier non può dire in prima persona. E tutti, più o meno informati, raccontano, suppongono, riferiscono di una telefonata tra Berlusconi e Schifani, una telefonata nella quale i due si danno il reciproco “via”.

E’ ancora mercoledì ma è già mezzogiorno, passato da poco. Nelle ore del mattino si sono esibiti Casini: «Le elezioni anticipate sono una pistola scarica, voglio vederla la maggioranza che va davanti agli elettori dicendo mi sono auto affondata…». E poi Maroni: «D’accordo con Schifani: se la maggioranza non è compatta, allora si scioglie». Stanno tutti prendendo le misure a Schifani, decidendo se è una “minaccia” rivolta a Fini, un bluff, uno sfogo, un progetto, un “la butto lì e poi vediamo quel che succede”. Qualcosa succede perché è da poco passata la prima ora del pomeriggio e arriva, solenne, nero su bianco, il contrordine sulle elezioni anticipate. Berlusconi dichiara: «Non ci ho mai pensato, sono stupito che qualcuno ci pensi». Stupito è improbabile assai, anzi impossibile. Come è impossibile che la sera prima non ne abbia parlato con Schifani. Che non ci abbia mai pensato davvero può essere, ma è cronaca ufficiale da giorni che ha dato mostra di pensarci, lo racconta tutta Forza Italia. E allora come arriva, da dove e da chi il contrordine?

Dall’unico che può darlo: ci deve essere stata al mattino di mercoledì un’altra “telefonata”, quella di Bossi a Berlusconi. Già, perchè se Berlusconi può stringere all’angolo Fini ed eventualmente annichilirlo con la minaccia e, se necessario, con la pratica delle elezioni anticipate, se Berlusconi può imporre e ottenere tutti i voti di fiducia che vuole in Parlamento senza perdere praticamente neanche un voto dei “finiani”, se Berlusconi può perfino sfidare Napolitano nella partita dello scioglimento delle Camere, tutto questo non può farlo se Bossi non dà il “via”. E a Bossi, almeno finora, fatti i suoi calcoli, dare questo “via” non conviene.

Bossi e la Lega sono alacremente e fruttuosamente impegnati in quella che in Borsa si chiama “presa di beneficio”. In questa legislatura e in questo governo le “azioni” leghiste valgono moltissimo, sono salite come non mai di valore. E la Lega sta “incassando”: attende presidenze di Regioni del Nord, gestioni di fette importanti di spesa pubblica, il federalismo fiscale, perfino una progressiva crescita di consensi ai danni proprio del Pdl. Bossi Berlusconi vuole tenerlo lì, a Palazzo Chigi, per tutta la legislatura. Ma non ha interesse a consentirgli una “ricarica” elettorale. Non per ostilità e concorrenza, Bossi con Berlusconi premier sta alla grande. Ma perché durante e intorno alla “ricarica” la Lega vede per se stessa e per la sua egemonia più rischi che vantaggi.

E allora? Allora vediamo i punti fermi, quelli sui quali si può giurare. Primo: Berlusconi non accetterà mai il rischio di una crisi “parlamentare” da cui potrebbe uscirne un altro governo prima del ritorno alle urne. Secondo: Fini non cerca e non può cercare lo show down, la resa dei conti. E’ troppo debole. Soprattutto non ha la forza e neanche la voglia di mettere in piedi una crisi “parlamentare”. Se Berlusconi fa l’appello al popolo elettore, Fini non può fermarlo. Terzo: Bossi invece può, basta che non dia a Berlusconi la garanzia che la eventuale crisi di governo non sia “parlamentare”. Basta che Bossi esprima un “dubbio di fattibilità”, dia a Berlusconi un “consiglio” di pensarci bene e Berlusconi si ferma.

Pronostico dunque su come va a finire il gioco più giocato in città, il girotondo e l’avanti-indietro sulle elezioni. Non con un “tutti giù per terra”. Berlusconi resta premier fino alla fine della legislatura. Sottoposto ad una relativa e fisiologica ”erosione”. Anagrafica e politica. Erosione, non crollo. Poi, tra tre anni o giù di lì, si vedrà se e quale centro destra esiste senza Berlusconi premier e se esiste un’alternativa di centro sinistra. A meno che Bossi non canbi idea, non decida che la “presa di beneficio” è finita. (Beh, buona giornata)

Share
Categorie
Leggi e diritto Popoli e politiche

Cosa succede quando lasciamo fare al Governo orribili leggi, come quella sull’immigrazione.

Un anno, 4 mesi e 21 giorni viaggio dalla morte all’Italia di EZIO MAURO-la Repubblica.

Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1, primo piano dell’ospedale “Cervello”. Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d’agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all’altro.

È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d’istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po’ di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d’acqua. La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l’unica donna sopravvissuta – con altri quattro giovani uomini – sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore.

Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d’immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna – una vergogna della democrazia – darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l’asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire quell’Italia che cercavano, e incominciare a vivere.

Un’Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un’amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con “L’Aurora”. In più, a casa la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell’Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro. Quando la bocciano a scuola, l’undicesimo anno, e scatta l’arruolamento obbligatorio nell’esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no?

Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d’acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudan. Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l’Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio finale.

Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov’è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d’acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l’indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transfer, da qualche parte sicura.

Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo da parte il pane e nemmeno l’acqua dalle porzioni razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c’è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza. La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci, dodici persone. Loro sono settantotto, nessun bambino, venticinque donne. Non riescono a trovare spazio, c’è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l’ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c’è l’Italia, Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero. Nient’altro.

“Adei”, madre, sto andando, pensa senza dormire. “Amlak”, dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c’è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d’uomini, ma non c’è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l’elica. Le donne si coprono la testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l’acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.

La notte fa più paura. Non c’è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.

All’inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l’ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: “Giù, giù, vai in mare, vai”. Ma il settimo giorno i problemi cambiano.

Muore Haddish, che ha vent’anni, ed è il prino. Continua a vomitare da ventiquattr’ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. “Mai”, acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete “mai” nella testa, c’è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro. Due ragazzi, Biji e Ghenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. “E’ arrivato – dice all’alba Ghenè – noi siamo in viaggio e lui è arrivato”. I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia sottovoce.

Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: “Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera”. Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio. “Meut”, la morte, comincia a dominare tutti i pensieri, riempie “semai”, il cielo, verrà dal mare, “bahari”. Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà.

Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così. Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l’acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l’ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l’idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.

Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza. Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c’è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l’unica protezione dal freddo, l’unico cuscino, la coperta, l’unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l’ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c’è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po’ nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più.

L’acqua è un’ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t’importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l’incubo e comincia la realtà. Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d’uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi.

Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all’amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze, quando muore anche Luam due giorni dopo lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all’Italia, non sa dov’è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev’essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l’energia o la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott’acqua e sparire, ma vuoi che sia finita. Persa l’Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio per la morte, e va bene così. La diciassettesima notte, forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte, “Adei, Amlak, semai, bahari, meut”. Rivede suo padre accovacciato, che fuma contro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all’improvviso, che c’è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione.

Dentro c’è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l’acqua l’anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino poi sopra, davanti al sole. E’ un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve seguire.

Un giorno e una notte. Poi l’ultima barca. Questa volta li fanno salire. Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c’è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov’è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu.

Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d’acqua. Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l’altro naufrago ricoverato al “Cervello”, Hadengai, in camera non c’è, l’hanno chiamato per una radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra gonfie, con l’altra mano, dove c’è un anello giallo alto e sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all’Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l’ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po’ di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell’Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po’ più in là.

I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai. Non hanno un’idea di che cosa sia davvero l’Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra l’ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c’è scritto “la vita è un bene prezioso”. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Attualità democrazia

“Questa è una sconfitta che non tocca, non fa neanche un graffio al governo Berlusconi premier ma che è uno schiaffo, neanche tanto dolce, a Berlusconi uomo pubblico, guida e oracolo degli italiani.”

Elezioni/ Berlusconi primo ma non vince: il 35 per cento non sconfigge il governo ma smentita il leader, ed è colpa sua. Le vittorie della Lega e Di Pietro, il Pd salva la pelle, la sinistra suicida, il miracolo di Casini. In Europa il giorno nero dei socialisti, il vento di destra. E quel seggio che si inchina a Noemi. di Lucio Fero-blitzquotidiano.it

La sorpresa c’è stata: Berlusconi arriva primo ma non vince. Quel 35 per cento è più di quanto abbia raccolto ogni altro partito, ma è poco. E che sia per tutti, lui compreso, poco, proprio poco, è scelta, responsabilità e colpa proprio sua, di Berlusconi.

Tecnicamente è andata così: agli astenuti per stanchezza e sfinimento, malattie tipiche e in certa misura ormai croniche dell’elettorato di centro sinistra, stavolta si sono aggiunti gli astenuti per indigestione e inappetenza. Due malesseri, due indisposizioni forse momentanee e forse no che hanno colto un bel po’ di elettorato di centro destra. Indigestione da premier troppo pimpante, troppo narrante, troppo promettente, troppo tutto… E inappetenza, voglia un po’ calcolata e un po’ casuale di metterlo a moderata dieta di consensi questo premier già autoproclamatosi “santo” e non normale uomo della politica e della storia.

Tecnicamente dunque Berlusconi è stato fermato dall’astensione, stavolta dall’astensione anche della sua gente. Un danno, ma niente di più grave di un’ammaccattura. Se non fosse che altro e più grave danno ha subito Berlusconi: la smentita. I risultati infatti smentiscono non la sua forza ma la sua narrazione. Aveva narrato non solo di altre percentuali, 40 e passa per cento, aveva narrato di un’Italia pronta a risarcirlo in massa delle offese subite. Di un’Italia che faceva ressa ansiosa non per confermarlo premier ma per innalzarlo più in alto, sempre più in alto. Aveva chiesto più voti contro il Parlamento lento e inutile, contro la stampa, i giudici, contro tutto ciò che fa ragine alla sua azione salvifica del paese. Li aveva chiesti questi voti e non li ha avuti, alla sua potente narrazione crede un italiano su tre. Questa è una sconfitta che non tocca, non fa neanche un graffio al governo Berlusconi premier ma che è uno schiaffo, neanche tanto dolce, a Berlusconi uomo pubblico, guida e oracolo degli italiani. La sua insomma è la voce più forte che c’è, ma non è la voce narrante dell’Italia.

C’è stata la vittoria, anzi ce ne sono state due. Quella della Lega e quella di Di Pietro. Sommandole, se ne deduce che il 20 per cento degli elettori vogliono, fortemente vogliono cose impossibili, sognano e chiedono choc sociali. Vogliono la fine dell’immigrazione, l’esenzione non solo dalla crisi economica ma anche dalla riconversione di abitudini sociali ed economiche senza le quali dalla crisi non si esce, l’abolizione per decreto o per frontiera della globalizzazione…Oppure la defenestrazione, l’impeachement giudiziario di Berlusconi, un “Grande Processo” che purifichi l’Italia…E’ la volontà e la voglia di un bel pezzo, anzi di due pezzi crescenti di elettorato, sono due voglie entrambe “matte”. Cioè tanto incontenibili quanto pericolose.

Non c’è stato il funerale, anzi il Pd ha salvato la pelle. Niente di più della pelle, ma tra il restare in vita e chiudere bottega c’è un mare, anzi un oceano di differenza. Sono ancora in tempo a disperderlo quel 26 per cento, quelli che guidano il Pd sono capaci anche di questo. Sarebbero anche in tempo, incredibilmente l’elettorato glielo ha dato ancora il tempo, di diventare una forza riformista davvero. Insomma hanno avuto tempo, che in politica è una forma di “denaro”.

C’è stata la sentenza: hanno disperso e buttato via il 6,5 per cento dei voti. Le due liste di sinistra si sono suicidate non per caso e non per sbaglio. La sentenza è di inaffidabilità politica e culturale, oltre che organizzativa.

C’è stata la conferma: l’Udc di Casini esiste e resiste, anzi avanza. Il centro destra non se la mangia, il centro sinistra non la scalfisce.

Dunque un’Italia alquanto diversa da come lei stessa si aspettava di essere, diversa almeno un po’, più complicata di come veniva narrata dalla versione ufficiale.

E l’Europa? Stanca, illusa, nervosa. Ai governi e ai partiti socialdemocratici non crede più e anzi di loro non sa più tanto bene che farsene. Paga dazio Zapatero, anche se in fondo resiste, l’Spd tedesca si avvia a mollare il governo, il Labour inglese è annichilito, i socialisti francesi sembrano un vecchio partito comunista. Tengono invece i governi di centro destra nei paesi sociallmente più solidi. In quelli di fragile e recente democrazia invece avanza la destra estrema. Ci si soprende che i ceti popolari e anche il ceto medio sotto la pressione della crisi economica guardino a destra. Non è però un fenomeno nuovo, anzi è una costante della storia. E’ un’Europa stanca di dover cambiare, infinitamente stanca di dover correre il rischio che invece gli americani accettano. Illusa di poter restare come sta. Nervosa perchè in realtà non sa a chi chiedere la garanzia dell’immobilità.

Ultima nota, marginale, casalinga e mortificante: quel seggio dove Noemi arriva scortata dai vigili urbani e dalle forze dell’ordine, l’energumeno che spinge via gli altri elettori in attesa, il presidente di seggio che chiude la porta in faccia ai comuni cittadini perchè i vip stanno votando. Piccola, grande scena di un’Italia servile per vocazione, civilmente ignorante e cafona. Una scena triste e avvilente, ma questa, almeno questa, non è certo colpa di Berlusconi. In quel seggio un’Italia eticamente “meridionale” si è mostrata com’è, al naturale. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
democrazia Leggi e diritto Popoli e politiche

Il Parlamento italiano approva la peggiore legge sulla sicurezza dalla nascita della Repubblica, cioè dalla fine del Fascismo. Il modo peggiore per prepararsi al rinnovo del Parlamento europeo.

(fonte: repubblica.it)
Passano alla Camera dei Deputati le nuove norme su immigrazione, mafia e sicurezza urbana

L'Aula della Camera ha confermato la fiducia al governo, approvando i tre maxiemendamenti al disegno di legge in materia di sicurezza.
Arrivano poi le 'ronde' e il reato di immigrazione clandestina, passibile di multe da cinque a diecimila euro, con obbligo di denuncia da parte dei pubblici ufficiali, e passa da 60 a 180 giorni il periodo in cui un immigrato potrà essere trattenuto nei centri di identificazione ed espulsione. Costerà 200 euro chiedere la cittadinanza e da 80 a 200 euro il permesso di soggiorno. Una pena fino a tre anni di carcere è prevista per chi affitti case o locali ai clandestini e per insulti a pubblico ufficiale. Vengono inoltre ripristinati i poteri del procuratore nazionale antimafia e inasprito il '41-bis' sulla detenzione dei boss mafiosi.

Le critiche della Cei. Secondo il direttore dell'Ufficio per la pastorale degli immigrati della Cei, padre Gianromano Gnesotto, "di fatto il grande tema che viene tenuto sotto silenzio di questo ddl è proprio l'importante tema dell'integrazione, dell'inserimento nella società per ottenere il quale - dice - sono prioritarie le strategie della tutela dell'unità familiare, dei ricongiungimenti familiari, dei minori tutelati".

"Il grande tema - insiste Gnesotto - che viene messo a lato da questo provvedimento è quello dell'integrazione perché il pacchetto sicurezza non parla di questo e non avrà gli effetti propri di una società che vuole essere integrata".

L'esponente della Cei ha anche espresso "forte preoccupazione" in particolare per le misure che farebbero emergere, secondo alcune interpretazioni, la possibilità di "bambini invisibili" per le difficoltà poste al riconoscimento dei figli nati in Italia da madri clandestine senza passaporto. "Non è vero come si dice - afferma padre Gnesotto - che c'è un permesso automatico dato alla madre clandestina in attesa del figlio e poi per i primi sei mesi dalla nascita perché questo va richiesto e quindi si possono trovare bambini che vengono registrati da parte dell'ostetrica o dei servizi sociali ma è una modalità prevista per chi non vuole riconoscere il proprio figlio o intende abbandonarlo che non è il caso delle donne immigrate". Secondo il sacerdote "tutto questo porterà conseguenze veramente difficili, ma già il fatto stesso che la madre del bambino si trovi nella condizione di non poterlo registrare pone un problema forte".

Il ministro Maroni è soddisfatto. Intervenendo a una cerimonia per l'intitolazione della sede del ministero del Lavoro a Marco Biagi, il titolare del Viminale ha auspicato che le nuove norme sulla sicurezza "vengano approvate definitivamente dal Senato entro la fine di maggio". Poi, a proposito del "giallo" sul destino dei bimbi nati da clandestini, ha smentito su tutta la linea: "E' una notizia destituita di ogni fondamento - ha detto - è un'altra panzana inventata da non so chi".

Il capogruppo dell'Idv Massimo Donadi ha dichiarato che "non c'è un briciolo di sicurezza in questo testo, solo demagogia. Si finanziano le ronde, che sono l'anticamera della polizia di partito, e si tolgono soldi alle forze di polizia". Per il Pd, Marco Minniti ha parlato di "un sonno mostruoso della ragione", e di "una fiducia posta contro la libertà della stessa maggioranza".

Share
Categorie
Attualità Leggi e diritto Popoli e politiche

Il principio di respingimento di Maroni non trova alcun fondamento nel diritto nazionale, in quello europeo e in quello internazionale quando si tratta di persone che chiedono protezione.

di VITTORIO LONGHI-repubblica.it
La svolta nella gestione dell’immigrazione e degli arrivi via mare, secondo il ministro dell’Interno Maroni, starebbe in un nuovo modello, tutto italiano, fondato su quello che lui stesso ha definito “il principio del respingimento”. Ma, quando riguarda richiedenti asilo, non è ancora chiaro a quali leggi o convenzioni faccia riferimento.

Il testo unico
Forse si tratta del Testo unico sull’immigrazione del 1998, che all’articolo 10 parla espressamente del respingimento e recita: “La polizia di frontiera respinge gli stranieri che si presentano ai valichi di frontiera senza avere i requisiti richiesti per l’ingresso nel territorio dello Stato”. Lo stesso articolo, però, dice anche che le norme “non si applicano nei casi previsti dalle disposizioni vigenti che disciplinano l’asilo politico, il riconoscimento dello status di rifugiato, ovvero l’adozione di misure di protezione temporanea per motivi umanitari”. Perciò il Testo unico nazionale rimanda al principio universale del “non respingimento” dei richiedenti asilo, proprio l’opposto di quello invocato da Maroni e contemplato invece dal diritto europeo e internazionale.

Le convenzioni internazionali
A vietare tassativamente il respingimento di rifugiati o richiedenti asilo sono gli obblighi internazionali che nascono, nello specifico, dalla Convenzione sui Rifugiati del 1951 e dal Protocollo del 1967, dalla Convenzione Internazionale sui diritti civili e politici, dalla Convenzione Onu contro la tortura, dalla Convenzione europea sulla protezione dei diritti umani.
Il ministro leghista ha detto che “il respingimento alle frontiere è previsto dalle normative europee” senza precisare quali e senza considerare che tutto il sistema normativo europeo in materia d’asilo si basa sulla convenzione di Ginevra. Quindi, di nuovo, sul principio del non respingimento. Tra l’altro, la convenzione europea sui diritti umani vieta “la tortura, il trattamento disumano e degradante” e la Corte di Strasburgo per i diritti umani applica questo divieto anche nei contesti di respingimento ed espulsione. E neanche si può circoscrivere la questione alle acque di competenza. L’obbligo di non-respingimento non comporta alcuna limitazione geografica – secondo le convenzioni – e si applica a tutti gli agenti statali nell’esercizio delle loro funzioni all’interno o all’esterno del territorio nazionale.
A questo proposito, il diritto è ancora più preciso: nel caso di richiedenti asilo che affrontano un viaggio via mare, il non-respingimento si applica all’interno delle 12 miglia di acque territoriali, così come nelle acque contigue, in mare aperto e nelle acque costiere di paesi terzi. Praticamente senza limitazioni.

L’accordo con la Libia
Inoltre, il rinvio diretto di un rifugiato o di un richiedente asilo verso un paese nel quale teme di essere perseguitato non rappresenta l’unica forma di respingimento. Anche il rinvio indiretto verso un paese terzo – la Libia in questo caso – che potrebbe successivamente rimandare la persona verso il paese di temuta persecuzione, costituisce respingimento. Così facendo, entrambi i paesi sarebbero ritenuti responsabili, cioè sia la Libia che l’Italia. E non risulta che nell’accordo bilaterale con il governo libico l’Italia abbia preteso garanzie del rispetto dei diritti umani, compreso il diritto d’asilo, per le persone che vengono riportate a Tripoli in seguito al pattugliamento delle coste libiche.

Tutto questo dimostrerebbe che il principio di respingimento di Maroni non trova alcun fondamento nel diritto nazionale, in quello europeo e in quello internazionale quando si tratta di persone che chiedono protezione. Pertanto non potrebbe essere applicato per rimandare indietro quei migranti che arrivano via mare e che, nel 75 per cento dei casi, sono richiedenti asilo. (Beh, buona giornata).

Share
Categorie
Leggi e diritto Popoli e politiche

In campagna elettorale, Berlusconi si adegua al linguaggio leghista e dice “no all’Italia multietnica”. Dopo tutto, un popolo spaventato si governa meglio.

Al mercato della paura
di ILVO DIAMANTI-la Repubblica

ORMAI è impossibile affrontare il tema della “sicurezza” nel dibattito pubblico, ridotto a materia di propaganda politica. Sui giornali e in Parlamento. Se ne parla per catturare il consenso dei cittadini, non per risolvere i problemi. Nel sostenerlo ci pare di scrivere lo stesso articolo. Un’altra volta. Eppure è difficile non tornare sull’argomento. Perché l’argomento ritorna, puntuale, al centro del dibattito politico. Come in questa fase, segnata dalle polemiche intorno al decreto sulla “sicurezza” (appunto). A proposito del quale Franceschini ha parlato di nuove “leggi razziali”. Anche se gli aspetti più critici della legge sono stati esclusi dal testo. Ci riferiamo alla possibilità, offerta ai medici e ai pubblici funzionari (i presidi, per esempio), di denunciare i clandestini.

Altre iniziative venate di razzismo invece, non riguardano il governo, ma singoli politici e amministratori locali. Come la proposta di segregare gli stranieri nei trasporti pubblici, a Milano. Assegnando loro posti e vagoni separati. Una provocazione, anche questa. Capace, però, di intercettare consensi, solo a evocarla. La Lega, su questa base, sta costruendo la sua campagna elettorale in vista delle prossime europee. Per conquistare consensi nel Nord, ma anche altrove. Presentandosi come il partito della sicurezza-bricolage, da perseguire in ogni modo.

Anche l’imbarcazione carica di immigrati respinta dalla nostra Marina e consegnata alla Libia rientra in questa strategia politica e mediatica. Serve, cioè, come “annuncio”. Esibisce la volontà determinata del governo, ma soprattutto del ministro dell’Interni e della Lega, di respingere l’invasione degli stranieri. Di rimandarli là dove sono partiti. Chissenefrega che fine faranno. Noi non possiamo accogliere i poveracci di tutto il mondo.

Gli alleati di centrodestra, in parte, approvano. In parte no. Comunque, non si possono dissociare, altrimenti la maggioranza si dissolve. E poi non vuole abbandonare l’argomento della paura dell’altro alla Lega. Così Berlusconi approva. Si adegua al linguaggio leghista e dice “no all’Italia multietnica”. In aperta polemica con la “sinistra, che ha aperto le porte a tutti”. (Anche se i flussi da quando è tornata al governo la destra sono raddoppiati). E la sinistra, chiamata in causa, si adegua: nel linguaggio e negli argomenti. Oppone alla retorica della cattiveria quella buonista (che, in assenza di alternative, preferisco). Denuncia il razzismo. Esorta all’integrazione. Senza, tuttavia, spiegare “come” realizzarla. Si appella all’indignazione della Chiesa (contro cui, peraltro, si indigna quando si occupa di etica). Così la “sicurezza” sfuma in una nebulosa che mixa immagini indistinte. Criminali piccoli e medi, immigrati, zingari, stranieri. Ridotti a slogan.

Un tema così importante (e critico) dovrebbe venire affrontato in modo co-operativo. Attraverso il confronto e la progettazione comune. Invece, è abbandonato al gioco delle parti. In balia degli interessi e degli imperativi immediati. La “fabbrica della sicurezza” (titolo di una bella ricerca curata da Fabrizio Battistelli e pubblicata da Franco Angeli), d’altronde, si scontra con il “mercato della paura”. Il quale non limita la sua offerta all’ambito politico-elettorale, ma presenta una gamma di prodotti ampia e differenziata (come suggerisce una riflessione di Gianluigi Storti).

a) La paura, insieme all’in-sicurezza: è un format di largo seguito, sui media. Nei notiziari di informazione, nei programmi di “vita vera e vissuta”, nelle trasmissioni di approfondimento. A ogni ora del giorno, in ogni canale, incontriamo uno stupro, un’aggressione, un omicidio, un delitto, una catastrofe. E poi fiction di genere, che primeggiano negli indici di ascolto. Sky ha dedicato due canali alle “scene del crimine”. 24 ore su 24 dedicate alla “paura”.
E’ significativa l’evoluzione (o forse la d-evoluzione) dei tipi sociali interpretati da Antonio Albanese. Attore e analista acuto del nostro tempo. Da Epifanio, il personaggio stralunato e naif (ricorda vagamente Prodi), proposto vent’anni fa, fino al “ministro della paura” (accanto al “sottosegretario all’angoscia”) esibito ai nostri giorni.

b) La paura alimenta la domanda di autodifesa delle famiglie (come ha rilevato il rapporto Demos-Unipolis sul sentimento di insicurezza), che trasformano le case in bunker. Con porte blindate, vetri antisfondamento, sistemi di allarme sempre più sofisticati. All’esterno: recinzioni e cani mostruosi. In tasca e nei cassetti: armi per difesa personale.

c) Disseminati ovunque sistemi di osservazione, occhi elettronici che ci guardano. A ogni angolo. In ogni luogo. Mentre si diffondono poliziotti e polizie, ronde e servizi d’ordine. La sicurezza: affidata sempre più al privato e sempre meno al pubblico.

d) Intorno alla paura e all’insicurezza si è formata una molteplicità di figure professionali. Psicologi, psicanalisti, analisti, psicoterapeuti. E sociologi, criminologi, assistenti sociali. Operano in istituzioni, associazioni, studi. Nel pubblico, nel privato e nel privato-sociale.

e) Infine, come dimenticare la miriade di prodotti chimici al servizio della nostra angoscia? Occupano interi scaffali sempre più ampi, dentro a farmacie sempre più ampie. Supermarket dove il padiglione dedicato alla paura, di mese in mese, allarga lo spazio e l’offerta.

Per questo è difficile sconfiggere la paura e fabbricare la sicurezza. Perché la sicurezza è un bene durevole, che richiede un impegno di lungo periodo e di lunga durata. L’insicurezza, la paura, no. Sono beni ad alta deperibilità. Più li consumi più cresce la domanda. Garantiscono alti guadagni in breve tempo. Per costruire la sicurezza occorrerebbe agire con una visione lunga. Disporre di valori forti. Servirebbero attori politici e sociali disposti a lavorare insieme. In nome del “bene comune”. Ispirati da una fede o almeno da un’ideologia provvidenziale. Pronti a investire sul futuro. Mentre ora domina il marketing. Trionfa il mercato della paura. Dove non esiste domani. È sempre oggi. È sempre campagna elettorale.
Che l’angoscia sia con noi. (Beh, buona giornata).

Share
Follow

Get every new post delivered to your Inbox

Join other followers: